La caffettiera di Aldo Rossi. Il mondo interiore nei disegni dell’architetto

I disegni rappresentano una parte importante dell’opera di Aldo Rossi (Milano, 1931 – ivi, 1997), e una serie di passaggi sempre fondamentali nell’ambito delle sue riflessioni sull’architettura. Sin dai primi anni di attività, quando ancora è studente e scrive per Casabella (storica rivista di settore), il futuro architetto e professore universitario – insigne quanto discussa figura della sua disciplina – partecipa a dibattiti e mostre nelle quali espone le proprie elaborazioni grafiche. Da lì il disegno estemporaneo non lo abbandona mai e, nel corso delle sue commissioni ma anche e soprattutto dei suoi viaggi, gli riempie i momenti liberi. Non a sproposito, per definire la propensione di Aldo Rossi al disegno si può riprendere una considerazione del critico americano Carter Ratcliff (Seattle, 1941): «Rossi is an obsessive diarist».

Tra il 1968 e il 1992, Aldo Rossi raccoglie una serie di taccuini nei quali annota le impressioni che formula in tanti mesi di lavoro, convertendo, dice ancora il Ratcliff, le questioni architettoniche in preoccupazioni personali. Allo stesso modo fa uso del disegno. Nascoste tra le pagine a righe dei Quaderni Azzurri non mancano infatti alcune delle sue opere più intime, piccoli schizzi i quali costituiscono la base di un mondo interiore che si riversa anche nei progetti più importanti, nonché il nucleo di un complesso pensiero insieme giocondo e malinconico. E proprio questo mondo interiore fa dell’opera grafica di Rossi un caso più unico che raro nel panorama delle analoghe, coeve esperienze di architettura disegnata. Non fosse altro per l’originalità di un linguaggio che tende a superare, nonché a completare, i fini della progettazione. Senza dubbio, la stagione della Storia dell’architettura che Aldo Rossi vive da progettista e intellettuale non è delle più facili per la pratica del disegno. Come spiega Rosaldo Bonicalzi (Milano, 1944), ordinario di Composizione architettonica al Politecnico di Milano, si affermava in quegli anni l’opinione che gli architetti stessero ripiegando dalla progettazione verso un grafismo fine a se stesso. Osservando le opere dell’architetto milanese, colpisce al primo sguardo la prolusione commista di tecniche e l’evidente virtuosismo con il quale vengono adoperate. Eppure i disegni di Aldo Rossi non sono mai soltanto degli esercizi di stile: ogni pezzo racchiude sempre una propria drammaturgia (termine appropriato per un uomo che invocava spesso il suo rapporto di famigliarità con il teatro) il che traduce una visione del mondo passante dal punto di vista soggettivo del disegnatore. Mentre per molti architetti “rappresentare” significa mettere in mostra una realtà visibile, fisica del costruito e sociologica dell’abitare, per Rossi questa parola assume la valenza teatrale di “mettere in scena”, raccontando ed esprimendo un significato recondito. Il quotidiano alla fine non è più un quotidiano stereotipico rubato alla vita altrui. Sa anzi espressamente di vissuto in prima persona.

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Aldo Rossi ritratto nel suo studio

Buona parte dei temi che Aldo Rossi fa propri erano stati affrontati nel primo Novecento dalla stretta cerchia di pittori italiani che aveva per capofila Giorgio de Chirico (Volo, 1888 – Roma 1978), e che annoverava tra i suoi esponenti anche l’omonimo bolognese, Giorgio Morandi (Bologna, 1890 – ivi, 1964), raccogliendo qua e là il contributo di qualche altro pittore. Di sicuro è stata l’influenza di questi due artisti ad avere esercitato di più sulla concezione figurativa di Aldo Rossi, pur se è vero che lo stesso indicava quale proprio pittore preferito Mario Sironi (Sassari, 1885 – Milano, 1961), alle cui immagini di città si ispirano alcuni tra i suoi primi dipinti da cavalletto realizzati tra il 1948 e il 1950 (Fig. 1a). Negli anni, scrive l’amico e collega Vittorio Gregotti (Novara, 1927), il suo interesse per la pittura metafisica era andato crescendo con particolare riguardo al ciclo delle piazze d’Italia di Giorgio de Chirico. Esempio lampante di come l’architetto riconosca il suo debito di gratitudine a questo pittore sono alcune tavole a colori come il Senza titolo del 1978 (Fig. 1b), nel quale si evidenziano maggiormente alcuni luoghi comuni della pittura dechirichiana: il contrasto netto di ombre sopra a superfici lisce e la distorsione dello spazio data dall’orizzonte prospettico innalzato, per non parlare del prestito linguistico che Giorgio de Chirico fa all’architettura di Rossi, riscoprendo in anticipo il fascino per gli archetipi del costruito tradizionale italiano. Proprio il costruito tradizionale è stato oggetto di studio e formulazione teorica per tutta la vita di Aldo Rossi, e questo spiega per quale motivo il genere della veduta urbana sia così presente nella sua produzione grafica. L’architettura (che per Rossi è un linguaggio poetico, e che nelle sue rappresentazioni è allo stesso tempo scenografia e attore), non bisogna dimenticare, è prima di tutto materiale vivo di sperimentazione. Nelle sue vedute, l’architettura tradizionale e soprattutto quella storica si mischiano felicemente alle immagini dei progetti realizzati tra gli anni ’60 e i ’90. Tra questi, i più cari all’architetto sembrano essere il Teatro del Mondo e l’ossario presso il Cimitero di San Cataldo a Modena. Gli ultimi sono come i figli dei primi. Si realizza così almeno in parte quel dialogo sempre auspicato tra il contemporaneo e l’antico, in un genere come il capriccio che da pittore Aldo Rossi ha saputo riscoprire e reinterpretare in maniera fresca ed originale. Per comprendere meglio il senso di questa operazione di collage, diventano chiavi di lettura i concetti di frammento e di continuità. Nel suo lavoro di ricerca Rossi ha studiato la città da anatomista, e nel disegno ha poi assunto il metodo di sezionare le immagini degli edifici per estrarne l’elemento prezioso che poi la composizione avrebbe esaltato. Nella ricerca su carta dell’utopia urbanistica, fatta di forme architettoniche radicate nella memoria collettiva (i cosiddetti archetipi, declinazione postmoderna del tema della città ideale), l’architettura è veramente senza limiti.

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Fig. 1 a, b. Aldo Rossi, Senza titolo 1949; Senza titolo 1978

Da Morandi, grande pittore di nature morte, Aldo Rossi mutua proprio il gusto per questo genere, facendone però emergere un lato che si dovrebbe definire domestico piuttosto che privato. Caffettiere (sovente di sua creazione), bottiglie con i bicchieri, pacchetti di sigarette, orari del treno o pagine di giornale, lattine di bevande gassate, il tavolo e la sedia, gli orologi e altre suppellettili; nel loro ricorrere questi oggetti affermano l’importanza della quotidianità, e la casa diventa a sua volta un dispositivo teatrale, lo spazio scenico per le visioni di Rossi. Va detto allora che gli oggetti, a casa di Aldo Rossi, non costituiscono mai un mondo a parte rispetto all’architettura: è difficile trovare una rappresentazione in cui essi non stabiliscano un dialogo, un confronto o un’analogia – per usare un termine proprio del pensiero di Rossi – con le cose costruite. Succede infine che i generi della veduta cittadina e della natura morta tendono a confluire e a condividere lo spazio della rappresentazione, facendosi controparti reciproche ed espressioni dello stesso pensiero. Interno con stampa del 1991 e Una lettera del 1990 (Fig. 2) sono soltanto un paio di quelle visioni in cui il tema dell’abitazione viene rappresentato come luogo della domesticità. Dall’analisi di queste opere emerge infatti come Aldo Rossi non sia interessato all’abitare funzionale, semmai quello che cerca è il risvolto emotivo di una narrazione per immagini che trova luogo in un ambiente famigliare nel senso di noto e perciò rassicurante.

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Fig. 2 a, b. Aldo Rossi, Interno con stampa, 1991; Una lettera 1990

La presenza umana non è rara nelle sue opere e, tanto in uno quanto nell’altro disegno, l’architettura definisce lo spazio della vicenda e persino irrompe nella rappresentazione grazie a una finestra o per mezzo di un quadro alla parete. E questo rimette in gioco l’argomento, suggerendo che lo studio dell’architettura faccia parte della quotidianità di Aldo Rossi tanto quanto bottiglie e caffettiere. Paesaggio domestico con anitra e Natura morta con architettura, del 1984 (Fig. 3), sono molto più vicini all’impostazione morandiana della natura morta: con gli oggetti che dominano indiscussi la composizione. Anche qui il richiamo all’architettura non viene evitato e, nell’affascinante caso del primo dipinto, il titolo invita l’osservatore a rimanere emozionato dalla visione di oggetti comuni come quando ci si ritrova a contemplare un paesaggio. E ancora una volta l’architettura entra a gamba tesa nella rappresentazione, sebbene lo faccia in maniera discreta. Quello che Aldo Rossi diceva di ammirare nella pittura di Giorgio Morandi era la precisione con la quale delineava i volumi dei soggetti che ritraeva. Ancora nelle parole di Carter Ratcliff, la precisione di Morandi «has the odd effect of generating ambiguities of scale» tanto che «modest objects assume the presence of monumental buildings», e questa presenza monumentale degli oggetti viene presa alla lettera dalla mano dell’architetto, quando a beneficiarne sono le visioni della città tra le più suggestive e fantasiose che abbia mai realizzato.

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Fig. 3 a, b. Aldo Rossi, Paesaggio domestico con anitra, 1984; Natura morta con architettura, 1984

Una serie intera di altre opere sposta il terreno del confronto. Si tratta di un filone parallelo (non vi è cronologia di un’evoluzione; non è un linguaggio che progredisce ma che adopera più forme contemporaneamente) nel quale gli oggetti di casa arrivano, a poco a poco, a inserirsi persino nel tessuto urbano delle visioni architettoniche. Alcuni disegni mostrano come, per il motivo di essere poste in primo piano, le nature morte danno l’impressione di stare raggiungendo le stesse dimensioni degli edifici nei capricci sullo sfondo (Fig. 4a). Da qui verso una più forte commistione tra oggetti architettonici e di arredo il passo è breve. Alla fine non vi è più distinzione alcuna, e la caffettiera entra a far parte del novero degli archetipi del costruito. In Dicatum Carolo, del 1989 (Fig. 4b), i frammenti dell’architettura e gli oggetti domestici popolano un paesaggio verdeggiante sovrastato dal un cielo azzurro. Ne risulta uno scenario variegato e bizzarro in cui l’orizzonte rialzato, alla maniera dei quadri fiamminghi del Quattrocento, riporta il pensiero al pannello centrale del Trittico del Giardino delle Delizie di Hieronymus Bosch (‘s-Hertogenbosch, 1453 – ivi, 1516). Il ritorno dalla scuola, firmato e datato 1984 (Fig. 4c), rappresenta però il culmine di questa ricerca. Se considerata come la sperimentazione di linguaggi differenti, allora questo disegno è la sintesi hegeliana dell’incontro tra oggetto di casa e oggetto-casa esso medesimo. L’immaginazione di oggetti che possono essere abitati risulta in un’esaltazione pleonastica della domesticità, quando le cose che ci sono più famigliari, che ci danno maggiore sicurezza, diventano a loro volta luogo in cui si svolge la domesticità e il luogo per eccellenza: la casa. Ancora una volta, all’idea della macchina per abitare, dogma della progettazione razionalista, Aldo Rossi contrappone una visione dell’architettura più umana ed empatica.

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Fig. 4 a, b, c. Aldo Rossi, Yellow pages 1993; Dicatum Carolo, 1989; Il ritorno da scuola, 1983

L’analisi di queste opere porta alla luce elementi utili sia a descrivere ulteriormente il mondo enigmatico di Aldo Rossi sia a vagliare la teoria che vuole il suo operato un contributo tardivo, e assolutamente personale, alla pittura metafisica. Che poi la presenza umana non sia rara nelle opere dell’architetto non confligge con l’atmosfera di solitudine introversa che caratterizza la migliore tradizione di questo movimento figurativo. Se comunque in Una lettera abbiamo visto una maniera molto dettagliata di rappresentare le persone, frequente soprattutto nei disegni ad ambientazione strettamente casalinga, e non decade una vena infantile che caratterizza un po’ tutti i disegni di Rossi, in altre occasioni le figure vengono rappresentate come sagome stilizzate, completamente annerite in modo da occultare l’identità della persone e uniformarle nell’aspetto. Ciononostante, lo stato d’animo dei personaggi non viene reso affatto imperscrutabile; semmai solamente oggetto di ipotesi e confutazione, esattamente come quando ci si trova davanti a un enigma (altro grande tropo della pittura metafisica). Percepiamo che ci siano sorpresa ed ammirazione nell’omino che guarda fuori dalla finestra in La finestra del poeta a N.Y. con la mano del Santo, 1978 (Fig. 5a), dove l’immagine della mano del colosso aronese di San Carlo si affaccia alla finestra come l’Arcangelo Gabriele nella celebre Annunciazione del pittore Alberto Savinio (Atene, 1891 – Roma, 1952). Il dispositivo approntato recupera le intenzioni che de Chirico aveva riposto nella surrogazione della figura antropomorfa tramite manichini inespressivi e l’immobilità della statuaria grecolatina. Tuttavia, a volte, lo stesso Rossi non si fa scrupolo a mettere in atto il medesimo espediente linguistico (Fig. 5b).

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Fig. 5 a, b. Aldo Rossi, La finestra del poeta a N.Y. con la mano del Santo, 1978; La tȇte rouge, 1988

Più scontato ma altrettanto geniale è l’utilizzo dei titoli, volti a spaesare l’osservatore, a evocare il pensiero di un ricordo felice o meno felice, ad accrescere in modo aulico il senso di arcano o a focalizzare l’attenzione sul vero soggetto del disegno. Antonio Monestiroli (Milano, 1940), che di Rossi fu collaboratore, ricorda così il loro primo incontro: «Tutto per Aldo Rossi era spettacolo: la realtà esterna era spettacolo, la vita quotidiana era spettacolo […]. E questo spettacolo andava messo in scena. […] La città come “scena fissa della vita degli uomini”, come luogo di cui stupirsi ogni giorno, così come ci si stupisce della propria esistenza».

Niccolò Iacometti

 

 

 

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