Dal Rinascimento al Neoclassico, le stanze “Private” di Vittorio Sgarbi al Castello di Novara

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Fig. 1. Il Castello Visconteo-Sforzesco di Novara

A Novara, dal 21 settembre 2017 al 14 gennaio 2018, è aperta un’esposizione che ha già fatto molto discutere. S’intitola Dal Rinascimento al Neoclassico, ma anche Le stanze segrete di Vittorio Sgarbi. E si dà appunto il caso che ad averla promossa ed in parte curata – assieme al professor Pietro di Natale – sia stato proprio lo storico dell’arte noto per le sue opinioni tranchant e per il suo carattere poco consono a qualsivoglia discussione pacata. Ci si può allora chiedere: come avrebbe potuto questa mostra non essere un po’ come il ritrattato del suo ideatore? Vittorio Sgarbi (Ferrara, 1952), invitato nel capoluogo del Piemonte orientale, presta quindi 124 opere appartenenti alla sua collezione; una raccolta che va dal Quattro all’Ottocento e che già sua madre, Rina Cavallini aveva cominciato a mettere insieme. Queste opere non sono però tutte quelle di cui consiste la collezione che appartiene alla Fondazione Cavallini-Sgarbi. La mostra, dopo essere stata a Trieste e Osimo, è giunta a Novara e a questa un poco si è dovuta adattare.

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Fig. 2. Veduta d’insieme di una sala dell’esposizione

Anche il luogo scelto per l’esposizione ha fatto e fa tuttora discutere. Il castello di Novara (Fig. 1), che da fortezza Viscontea e Sforzesca viene adibito a istituto di pena nell’Ottocento fino al 1973, solo molto recentemente è stato ripreso in mano dalla città per mezzo della sua amministrazione comunale. Dopo anni di completo abbandono, alle soglie del nuovo millennio, viene indetto un concorso europeo finalizzato al recupero e alla valorizzazione della fortezza (che nel frattempo ha visto abbattute le proprie torri, prima di subire ulteriori danni nella Seconda guerra mondiale). Vince quindi la proposta dell’architetto Paolo Zermani (Medesano, 1958) e il restauro, partito nel 2003 e concluso definitivamente nel 2013, fa storcere il naso per la scelta di reinventare i connotati del sito archeologico. L’utilizzo dei mattoni in cotto, una condizione posta dal bando di concorso e bene accolta dai progettisti, rende uniformi le aggiunte contemporanee alle preesistenze antiche, e disturba pertanto che non ci sia soluzione di continuità fra le mura secolari e, per esempio, il torrione che si affaccia al fronte principale. Detto torrione non ha proprio nulla, a cominciare dalla forma, a che vedere con il linguaggio dell’architettura castellana locale e quattrocentesca.

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Fig. 3. Giovanni Battista Benvenuti detto l’Ortolano, Circoncisione, 1505-1507

Ma torniamo alla mostra. Allestita nell’ala nord-est dell’edificio (Fig. 2), si articola in dieci stanze e prova a raccontare una storia dell’arte un po’ diversa rispetto a quella “canonica”. Attraverso l’occhio del collezionista, in questo caso Sgarbi, che ha selezionato le opere da esporre, si celano davanti al visitatore dipinti e sculture eseguite da artisti poco conosciuti al grande pubblico. L’arco cronologico, va detto, è molto ampio, forse troppo: dal Rinascimento al Neoclassicismo. Nella prima sala, di colore rosso, in pompa magna si vede una maestosa Aquila (1478) attribuita allo scultore di origini siciliane ma attivo soprattutto in Emilia Romagna Niccolò dell’Arca (Bari, 1435 – Bologna, 1494). In questa sala meritano sicura menzione anche la bella Circoncisione (1505-1507) di Giovanni Battista Benvenuti detto l’Ortolano (Ferrara, 1480 circa – 1530) di chiara impronta ferrarese ma che dimostra di meditare sulle opere venete dell’anziano Giovanni Bellini e del giovane Giorgione (Fig. 3), e il Cristo risorto (1520 circa, forse mutilo della parte bassa) di Giovanni Agostino da Lodi (Lodi, 1495-1519 circa), pittore lombardo che guarda costantemente a Leonardo Da Vinci e Bernardo Zenale. Eccentriche sono poi le opere di Johannes Hispanus (documentato dal 1506, già morto nel 1538), la Madonna con il Bambino e Santa Caterina d’Alessandria (1515-20) e di Nicolò Filotesio detto Cola dell’Amatrice (Amatrice, 1480 – Ascoli Piceno, 1547), la Sacra famiglia con San Giovannino(Fig. 4). Di Hispanus si conosce pochissimo, subì l’influenza dei pittori Piero di Cosimo, Perugino, Giorgione, Bramantino e Amico Aspertini, fu attivo in Toscana, Venezia, Cremona, Ferrara e Milano, ma la sua regione di adozione furono le Marche. Il dipinto, destinato probabilmente alla devozione privata, rivela una matrice Belliniana mediata da influenze umbro-toscane e forse da opere di Dosso Dossi e dello stesso Ortolano. Di Cola dell’Amatrice, attivo soprattutto ad Ascoli Piceno, sappiamo che si aggiornò sulla maniera moderna di Raffaello dopo un probabile viaggio a Bologna, dove alla metà degli anni dieci del Cinquecento era giunta la sua straordinaria Santa Cecilia. L’opera della Fondazione Cavallini-Sgarbi presenta un taglio decisamente innovativo nella posa della Vergine, del Bambino e soprattutto di San Giovannino; questi ultimi sembrano voler uscire dallo spazio pittorico per farsi corpo di carne e anima. Interessanti sono anche i due ritratti di Lorenzo Lotto (Venezia, 1480 – Loreto, 1557): quello di Ludovico Grazioli (Fig. 11) e il Ritratto di giovane, databili tra il 1547 e il 1551 ovvero in anni in cui Lotto raggiunse la piena maturità artistica, dimostrando di essere un esperto lettore della psicologia degli effigiati. Procedendo oltre si incontra il Cristo morto sorretto da angeli (1585-90) di Sebastiano Filippi detto il Bastianino (Ferrara, 1532 – 1602), la cui peculiarità è quella di ricordare un po’ i modi di Michelangelo e Daniele da Volterra, anche se alla tensione scultorea di questi ultimi, il Bastianino sembra preferire la «mollezza priva di muscoli delle carni».

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Fig. 4. Nicolò Filotesio detto Cola dell’Amatrice, Sacra famiglia con San Giovannino, 1520-1530

Magnetica è la Giuditta e Oloferne (1610-15) dello Pseudo Caroselli, una personalità sfuggente forse da identificare con un componente della bottega del pittore Angelo Caroselli attivo prevalentemente a Roma. Il pittore dimostra però di conoscere anche la pittura fiamminga e lo si capisce bene osservando uno dei tratti caratteristici di questo personaggio come l’intenso e minuzioso decorativismo «carnevalesco» che si può vedere nella realizzazione delle vesti sontuose e brillanti della Giuditta (Fig. 5). Addentrandosi sempre più nella mostra si incontra il Ritratto del legale Francesco Righetti (1626-28) di Guercino (Cento, 1591 – Bologna, 1666) e la sconsolata Cleopatra (1620) della caravaggesca Artemisia Gentileschi (Roma 1593 – Napoli, 1653). Ma a dominare, in questa sala dai toni arancioni (Fig. 2), sono la bellissima Maddalena portata in cielo dagli angeli (1622) di Pier Francesco Mazzucchelli detto Morazzone (Morazzone, 1573 – Piacenza, 1626) e l’Allegoria del tempo (1650) di Guido Cagnacci (Santarcangelo di Romagna, 1601, Vienna, 1663). In mostra forse manca un po’ l’occhio critico sul territorio soprattutto per ciò che concerne le opere del Morazzone, che in Piemonte ha lascito alcuni dipinti memorabili come l’Immacolata Concezione del Duomo di Oleggio e il San Rocco e il San Carlo Borromeo in gloria della Parrocchiale di Borgomanero. Della Maddalena in esposizione poi si può dire tutto meno che ci si trovi davanti a un’opera pornografica, come invece l’audioguida con la voce di Sgarbi sostiene. Si è davanti sicuramente ad una immagine erotica, ma che tuttavia non ci sembra sfociare nella volgarità del porno.

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Fig. 5. Pseudo Caroselli, Giuditta con la testa di Oloferne, 1610-1615

E di carica erotica si può benissimo parlare anche per l’Allegoria del tempo (Fig. 6) di Cagnacci, un artista che dimostra di aver studiato a lungo sia sulle opere caravaggesche che su quelle di Annibale Carracci, conosciuto durante un suo viaggio a Bologna. Interessanti ci sembrano anche le opere di Orsola Maddalena Caccia (Moncalvo 1596 – 1676) come la Madonna con il Bambino e San Giovannino (1640-50) e di Giacinto Giminiani (Pistoia, 1601 – Roma, 1661) come San Paolo resuscita Eutico a Troade (1639) e il Matrimonio mistico di Santa Caterina d’Alessandria (1645-50), non fosse altro per il fatto che hanno animato le zone del Piemonte e della Lombardia, senza contare che Orsola Maddalena Caccia era la figlia del ben più noto Guglielmo Caccia detto Moncalvo (ma di queste connessioni sul territorio, in mostra non c’è n’è traccia). La mostra continua con due tele di grandi dimensioni del pittore padovano Pietro Liberi (Padova, 1614 – Venezia, 1687), raffiguranti L’incontro di Jefte con la figlia ed Ester e Assuero (1665 circa); corretta è la descrizione che ne dà il curatore nella scheda di catalogo: «il formato e l’eleganza della composizione convengono alla destinazione privata dov’erano esempi di comportamento virtuoso, di fede, coerenza e sacrificio».

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Fig. 6. Guido Cagnacci, Allegoria del tempo (La vita umana), 1650 circa

In una stanza dal fondo verde si dischiude la seconda metà del Seicento e il Settecento con i suoi capolavori: dal Ritratto del marchese Francesco Orsini De’ Cavalieri (1671) di Jacob Ferdinad Vouet (Anversa, 1639 – Parigi 1689), caratterizzato da una folta chioma, una vibrante camicia bianca e da un vestito a strisce dai toni rossi e violetti, fino al Ritratto del Cardinale Giulio Spinola (1668; Fig. 7) del pittore genovese, ma attivo molto anche a Roma, Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio (Genova, 1639 – Roma, 1709). Qui l’effigiato è ritratto in abiti cardinalizi che sembrano veri, si noti in particolare il pizzo bianco della manica o il gioiello incastonato nell’anello al dito indice della mano sinistra o anche il drappo ocra e rosso a motivi floreali che fa da sfondo al dipinto: tutto è reso con una luce vibrante e materica e i colori fanno risaltare la tridimensionalità dell’opera.

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Fig. 7. Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio, Ritratto del Cardinale Giulio Spinola, 1668

La sezione dedicata all’arte contemporanea, riguardante cioè il periodo compreso fra il Neoclassicismo e – in questo caso – gli ultimissimi anni dell’Ottocento, presenta numerose opere di grande interesse, esposte su pareti di colore blu. Per quanto riguarda l’epoca neoclassica, nella sala ad essa riservata è possibile ammirare una grande tela di Andrea Appiani (Milano, 1754 – 1817), uno dei massimi esponenti della suddetta corrente artistica insieme allo scultore Antonio Canova, che ha per soggetto Giove addormentato al suono della lira di Apollo ferito da una freccia di Amore (1810-12; Fig. 8). Nonostante il dipinto sia in realtà un bozzetto – l’opera finita avrebbe dovuto fare parte di un ciclo da collocarsi all’interno del Palazzo Reale di Milano – la sua grande qualità è innegabile. Nella stessa sala, sulla parete opposta, trova invece collocazione una serie di piccole opere grafiche di Pier Leone Ghezzi (Roma, 1674 – 1755), artista noto soprattutto come caricaturista, come si evince dai suoi disegni che rappresentano alcuni personaggi della corte francese.

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Fig. 8. Andrea Appiani, Giove addormentato al suono della lira di Apollo ferito da una freccia di Amore, 1810-1812

Proseguendo si incontrano alcune opere di statuaria dal grande valore, come i busti che ritraggono Elizabeth Albana Upton – prima marchesa di Bristol – dell’artista Lorenzo Bartolini (Savignano di Prato, 1777 – Firenze, 1850) e i ritratti La signora Traversa (1863; Fig. 9), e L’impresario Manati (1857), entrambi del grande scultore svizzero Vincenzo Vela (Ligornetto, 1820 – Mendrisio, 1891), influenzato dal romanticismo di Hayez, ma anche da una certa componente di realismo.

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Fig. 9. Vincenzo Vela, La signora Traversa, 1863

Proprio Francesco Hayez (Venezia, 1791 – Milano, 1882) è uno degli artisti che si incontrano nell’ultima sala, dedicata all’Ottocento; qui trova infatti posto il suo Ritratto dell’Ingegner Giuseppe Clerici (1875-1876), rimasto in seguito alla sua realizzazione nella collezione della famiglia del gentiluomo milanese. Verso la chiusura della parte dedicata all’arte contemporanea, e della mostra, si trova un bellissimo Cristo crocifisso (1881) di Gaetano Previati (Ferrara, 1852 – Lavagna, 1820): si tratta di un’opera interessante non solo perché costituisce una testimonianza di arte sacra piuttosto inusuale rispetto al periodo nel quale venne realizzato, ma anche per la sua appartenenza alla fase pre-divisionista dell’artista, di solito meno conosciuta e studiata (Fig. 10). L’opera più cronologicamente avanzata presente in mostra è il dipinto di Lionello Balestrieri (Cetona, Siena, 1872 – 1958), dal titolo Mimì … Mimì (la morte di Mimì), ispirato all’opera lirica La bohème di Giacomo Puccini, nel quale si riflette la passione di Balestrieri – che si autoritrae nei panni di Rodolfo – per la musica, accresciuta dal contatto con l’ambiente parigino, nel quale visse per diversi anni.

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Fig. 10. Gaetano Previati, Cristo crocifisso, 1881

La mostra, come già detto, è condensata in dieci sale e, dopo esserci stati, ci è venuto da dire che era un po’ come la galleria borrominiana di Palazzo Spada a Roma: sembra lunghissima ma una volta arrivati in fondo e guardandosi indietro ci si accorge che è veramente breve. Forse qualche seduta in più non avrebbe fatto del male; di opere da osservare ce ne sono tante, e sono tutte meritevoli di attenzione. Inevitabile poi che almeno un’opera in ogni sala non sia illuminata adeguatamente; è scienza difficile l’illuminotecnica, e sembra che qualcuno si debba pur sempre sacrificare. In quanto alla scelta di colorare le pareti di ogni sala in modo diverso per differenziarle a seconda del periodo storico trattato, bisogna annotare che niente di più significativo fa presente all’occhio inesperto qualche informazione sul contesto delle opere in esposizione: niente carte di sale o pannelli riassuntivi, e ci è persino capitato di trovare i guardiani di sala impreparati su Sassoferrato (Sassoferrato, 1609 – Roma, 1685): non sapevano infatti se i due quadri segnalati dall’audioguida e presenti anche nel catalogo fossero o meno esposti: non lo sono. Già non partivamo con l’aspettativa di vedere una mostra rigorosa, avendo saputo quali polemiche ne avessero preceduto l’apertura e non meno perché riconoscevamo in Sgarbi un erudito imprestato allo spettacolo. Proprio la sua voce, attraverso ipertecnologiche audioguide formato smartphone, accompagna il visitatore nella scoperta dei molti pittori e scultori. Si riscontrano purtroppo anche qui delle manchevolezze: almeno due opere menzionate dal dispositivo non risultano in mostra (segno che si tratta di un cattivo copia-incolla), e l’immagine sul display cui si associa il racconto della storia del castello di Novara non è del castello di Novara ma di quello di Galliate. Sgarbi poi, com’è nel suo stile, non si risparmia alcuni commenti ai soggetti o agli autori delle opere che sanno di gossip ante litteram: ecco allora che la Maddalena di Morazzone è come si è detto una pornostar, il Ritratto di Ludovico Grazioli dipinto da Lotto (Fig. 11) viene presentato come un probabile cornuto e il Ritratto di ecclesiastico (1650) di Philippe de Champaigne (Bruxelles, 1602 – Parigi, 1674) come un masturbatore.

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Fig. 11. Lorenzo Lotto, Ritratto di Ludovico Grazioli, 1551 circa

Predomina il suo personale punto di vista, insorgono rimandi autoreferenziali e la spiegazione, soprattutto all’inizio, diventa troppo lunga e molto breve e imprecisa verso le opere della fine. E il tutto va a scapito – oltre che delle nostre gambe – del rigore scientifico il quale dovrebbe sottendere alla struttura di quella che rimane una mostra anche se è pensata come una visita nel salotto “privato” di Sgarbi (insolitamente serafico). Opinabile anche la scelta di riempire il silenzio contemplativo con la riproduzione in loop di brani di musica colta, quando il volume si fa troppo alto. E per finire, anche il catalogo ci è sembrato un riadattamento malfatto di una precedente esposizione.

Marco Audisio, Chiara Franchi e Niccolò Iacometti

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