Non ho mai capito esattamente per quale motivo si dicesse: “la mostra va in scena”, ma ritengo che nessun’altra formula di rito sarebbe più appropriata in questa occasione. A quanto pare il museo assomiglia al teatro; comunque è un fatto che l’architettura paghi a quest’ultimo lo scotto di numerosi prestiti, e questo Aldo Rossi lo sapeva molto bene.

Abbiamo già parlato una volta di Aldo Rossi. A vent’anni dalla scomparsa avvenuta il 4 settembre 1997 per un incidente d’auto, uno degli architetti più influenti e sicuramente più discussi del secondo Novecento viene celebrato con una piccola esposizione presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, sua alma mater – il caro, vecchio Polimi -. Allestita presso la Galleria del Progetto, polo espositivo dell’ateneo di via Ampère n. 2, adiacente all’aula magna – intitolata al padre nobile dell’architettura italiana del Secondo dopoguerra, Ernesto Nathan Rogers –, la mostra ha aperto lo scorso 19 ottobre e si concluderà il 17 novembre. Titolo: Aldo Rossi. Il Gran Teatro dell’Architettura.
Con le parole tratte da Autobiografia Scientifica (1981) il visitatore viene accolto e invitato a conoscere la figura di un grande maestro dell’arte contemporanea. Una fotografia scattata durante uno dei suoi viaggi introduce alle note biografiche, mentre sono esposte sopra a un tavolo non distante alcune testimonianze della sua esperienza al Politecnico. Per chi già conosce le opere e gli scritti di Rossi sarà certamente un’emozione imbattersi in un materiale inedito: le tavole di progetto redatte per l’esame di Urbanistica II del prof. Dodi (1957), il dattiloscritto intitolato Il concetto di tradizione nell’architettura neoclassica (presentato al corso di Caratteri stilistici e costruttivi dei monumenti nel 1955, pubblicato l’anno dopo sulla rivista Società e infine allegato alla tesi di laurea nel ‘59). Oppure il saggio La formazione del nuovo architetto; quattro pagine che avrebbero dovuto comparire in L’architetto nel giugno 1966. Allo stesso modo suscitano un tenero senso di intimità domestica le quattro immagini dello studio di via Maddalena (disposte come le forature del serramento crociato, molto usato dall’architetto milanese), con una branda nell’angolo tra le pareti azzurre, gli utensili, i libri, i disegni incorniciati e appesi e quella porta d’altri tempi con i vetri traslucidi e la semplice, elegante modanatura.

Abbandonata questa sezione, comincia la visita vera e propria. Il percorso è lasciato libero in uno openspace (progettato nel 1970-‘85 da Vittoriano Viganò), suddiviso da pareti di cartongesso blu. Si creano così quattro ambienti scatolari, ognuno dei quali ruota attorno a uno o due tavoli che esibiscono modellini, disegni, fotografie o copie di pubblicazioni che hanno fatto conoscere Aldo Rossi. I temi di ciascun ambiente sono: la Scuola di Fagnano Olona (1972-‘76) e il Complesso Monte Amiata presso il quartiere Gallaratese 2 di Milano (1968-‘73), il complesso alberghiero e ristorante “Il Palazzo” di Fukuoka in Giappone (1987-‘89) e gli edifici residenziali e per uffici in Schützenstraße a Berlino (1992-‘98), il Centro internazionale di arte e del paesaggio sul Lago di Vassivière a Clermont-Ferrand in Francia (1988-‘90) e il progetto di concorso per il Deutscher Historisches Museum di Berlino (1987-‘89) e, per finire, una panoramica sugli interventi di Rossi in America. L’ultima stanza comprende anche un’enorme grafica con la rappresentazione di un planisfero. Partendo da Milano si diramano numerose linee per collegare il luogo dove Aldo Rossi è nato e ha vissuto alle varie località in cui è stato. Si contano 23 stati, 71 città e un totale di 109 progetti in tutto il mondo. Dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, dalla Russia al Giappone toccano nel frattempo anche l’Argentina, l’Australia, il Belgio, il Canada, la Corea del Sud, la Danimarca, la Francia, la Germania (dove si conta il numero maggiore di visite, 22), addirittura il Libano, il Lussemburgo, e poi ancora la Malesia, il Messico, l’Olanda, il Portogallo, la Spagna, la Svezia, la Svizzera e la Turchia. A questa mappa è stato dato il nome di “Pianeta Rossi”.

Passando da una stanza all’altra, si conosce la maestria profusa dall’architetto nell’avere disegnato a mano prospetti e sezioni di interi complessi edilizi. Armato di squadra e pennini (oggi sconosciuti alle nuove leve della progettazione), nonché di matite colorate e acquerelli, Rossi ha delineato la genesi di ogni sua creazione dalle prime, immaginifiche visioni ai lunghi disegni quotati. Rigore tecnico ma, allo stesso tempo, semplicità (quella delle sue forme archetipiche) contraddistinguono e donano eleganza a questi elaborati. Altrettanto esplicativi sono le riproduzioni tridimensionali dei progetti illustrati, aiutando il visitatore – così come aiutano il professionista durante la fase di progetto, e durante quella di presentazione al committente – a comprenderne lo sviluppo volumetrico o l’inserimento nel contesto paesaggistico. Così facendo, dato soprattutto il numero esiguo di opere alle quali viene dedicata un’esposizione approfondita, la mostra svela il dietro le quinte della fortunata carriera di Aldo Rossi piuttosto che ripercorrerne tutti i passaggi, sia quelli maggiormente importanti sia quelli di minore rilievo.

Solamente ancora un paio di informazioni. La curatela è di Marco Biraghi e Gianni Braghieri (quest’ultimo ha anche progettato l’allestimento), mentre il Comune di Milano, l’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e conservatori della provincia omonima, le Università IUAV di Venezia e degli Studi di Bologna, le Fondazioni Aldo Rossi e Politecnico di Milano, l’Association of Collegiate School of Architecture e la European Association for Architectural Education fanno onore dei rispettivi patrocini. Hanno contribuito imprestando disegni e materiale inedito gli Archivi storici del Polimi, il Canadian Centre of Architecture di Montreal, il Comune di Fagnano Olona, il Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna, la Fondazione Aldo Rossi che ha sede in Milano (diretta dai figli, eredi del Maestro, i signori Vera e Fausto Rossi), la Fondazione MAXXI di Roma e la Fototeca della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia. Oltre a tutta una serie di altre persone le quali hanno preferito rimanere anonime. La mostra è stata inaugurata con una lezione in lingua Inglese del professor Kurt. W. Forster della Yale University.

A malincuore ho dovuto scattare le fotografie dell’esposizione senza i visitatori, onde volerne tutelare l’immagine. Sebbene questo vada a tutto vantaggio di una visione non impedita delle sale e delle pareti con i disegni, sta di fatto che c’è sempre qualcosa di malinconico in un ambiente desolato. Come la scena di un teatro senza attori è priva di vita, anche le stanze di un museo senza le persone che guardano le opere hanno poco da raccontare. Ancora meno, se è possibile, di un teatro, la sera dello spettacolo, senza gli spettatori in sala.
Niccolò Iacometti
Rispondi