Oltre Caravaggio. Eredi e nuovi maestri tra Genova, Milano e Napoli

L’ultimo Caravaggio, eredi e nuovi maestri è la mostra in scena nelle sale delle Gallerie d’Italia a Milano fino al prossimo 8 aprile 2018, raccoglie cinquantasette opere divise in sette sezioni, ed è curata dal Professor Alessandro Morandotti. L’intera esposizione ruota attorno ad un nevralgico interrogativo: può esistere una storia dell’arte senza Caravaggio? Tutta la mostra è costruita attorno a questo dilemma e da subito il visitatore si immerge in un viaggio che da Napoli lo porta a Genova e poi a Milano e da quest’ultima lo fa viaggiare numerose volte verso la città della lanterna. Del nome di Caravaggio il pubblico delle mostre è ormai assuefatto, tanto che oggi riesce difficile pensare ad una storia dell’arte del Seicento senza che ci sia di mezzo la figura del maestro lombardo. Eppure a Firenze, Bologna, Venezia, Genova, Torino e perfino a Milano dopo la prematura scomparsa di Caravaggio, si continua a dipingere senza badare troppo alla grande tradizione caravaggesca, sembra che quei centri, poc’anzi citati, siano intrinsecamente legati ad una tradizione figurativa che in qualche modo guarda costantemente verso il Manierismo e che il caravaggismo invece rimanga un leitmotiv solo in centri quali Napoli e l’Italia meridionale pur senza dimenticare che di caravaggisti fiorentini e veneziani ce ne saranno diversi, ma non è qui il caso di dilungarsi oltre sulla questione. La mostra è poi giocata sui rapporti collezionistici di due fratelli genovesi, Marco Antonio Doria (1572-1651) e Giovan Carlo Doria (1576-1625); il primo fratello è quello che compra il Martirio di Sant’Orsola licenziato dal Merisi a Napoli nella primavera del 1610 e che arriverà nelle collezioni di Marco Antonio a Genova nel giugno del 1610 affrontando peripezie non indifferenti che ne hanno causato l’irrimediabile precario stato conservativo, il secondo, Giovan Carlo invece sarà quasi del tutto estraneo al collezionismo di stampo caravaggesco prediligendo artisti attivi a Milano e nella stessa Genova.

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Fig. 1. Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Martirio di Sant’Orsola, 1610, Napoli, Palazzo Zevallos-Stigliano.

Marco Antonio avrà per molto tempo interessi economici a Napoli, Giovan Carlo orienterà invece, come si è già capito, i suoi interessi verso Milano. Dopo che la Sant’Orsola è giunta a Genova gli artisti attivi nella città della lanterna sembrano non recepire le novità che quell’opera portava intrinsecamente con se. In mostra questo silenzio è rappresentato nella prima sezione dal confronto con altre due versioni del dipinto del Mersi, ovvero il Martirio di Sant’Orsola di Bernardo Strozzi (Genova, 1581/82 – Venezia, 1644), già nella collezione di Giovan Carlo Doria e quello di Giulio Cesare Procaccini (Bologna, 1574 – Milano, 1625) oggi in collezione privata.

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Fig. 2. Bernardo Strozzi, Martirio di Sant’Orsola, 1615-1618, Collezione Privata.

Queste tre opere sono accomunate da un simile indirizzo compositivo e iconografico, ma differiscono completamente dallo stile, infatti Bernardo Strozzi rimarrà sempre legato alla tradizione figurativa genovese e ai suoi morbidi e aggraziati personaggi dalle guance rosse, mentre Giulio Cesare Procaccini, il più importante esponente di una famiglia di pittori di origine bolognese oramai affettivamente legato alla Milano borromaica dove lavorerà per tutta la sua vita, rimarrà folgorato dai cosiddetti “Pestanti” secondo un’etichetta cara soprattutto a Giovanni Testori, come Cerano, Morazzone e Daniele Crespi, avvicinandosi a questi come un discepolo e tramandandone in un certo qual senso l’eredità figurativa.

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Fig. 3. Giulio Cesare Procaccini, Martirio di Sant’Orsola, 1620-1625, Collezione Privata.

La seconda sezione della mostra mette in luce gli amori figurativi di Marco Antonio Doria, assiduo frequentatore della città partenopea e avido collezionista di opere caravaggesche. A Napoli, Caravaggio aveva soggiornato ben due volte; la prima tra l’ottobre del 1606 e il giugno del 1607 mentre la seconda tra l’ottobre del 1609 e il luglio del 1610. Nel primo soggiorno, Caravaggio esegue opere di enorme importanza come le Sette opere di Misericordia per il Pio Monte della Misericordia e la Flagellazione oggi a Capodimonte, dipinti che hanno lasciato un segno indelebile per gli artisti attivi a Napoli dopo il Merisi. È il caso di Battistello Caracciolo (Napoli, 1578 – 1635) letteralmente folgorato dallo stile caravaggesco che a Napoli lascerà opere di straordinaria bellezza come la Crocifissione di Cristo (1610 circa) e il Battesimo di Cristo (1610 circa), entrambe le opere sono presenti in mostra, e dello spagnolo Jusepe de Ribera (Xàtiva, 1591 – Napoli, 1652) attivo a Napoli a partire dal 1616, dove lascerà tra le altre opere, il Sant’Andrea e il Cisto legato alla colonna (entrambi databili tra il 1616 e il 1618 circa e presenti in mostra), conservate presso la quadreria dei Girolamini di Napoli. Battistello in particolare sarà poi al centro delle mire collezionistiche di Marco Antonio che infatti acquisterà il suo Cristo che porta la croce (1614), oggi presso il Rettorato dell’Università degli studi di Torino.

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Fig. 4. Giovanni Battista Caracciolo detto Battistello, Cristo che porta la croce, 1614, Torino, Rettorato dell’Università degli Studi.

La terza sezione mette invece in luce i rapporti tra gli artisti e i committenti presenti tra Milano e Genova intorno al 1610. Per la committenza la fa da padrone, assieme agli Spinola e ai Doria di Genova, la figura di Tommaso Marino, uno tra i più ricchi e influenti banchieri genovesi stanziatosi a Milano, dove fa realizzare il suo palazzo (in Piazza Scala) dall’architetto Galeazzo Alessi (fortemente rimaneggiato dopo i bombardamenti del 1943), noto ancora oggi come Palazzo Marino. In questo contesto e a questa altezza cronologica, come abbiamo già ricordato, sono attivi numerosi artisti tra cui Cerano, che ha appena finito la seconda serie dei quadroni per il Duomo di Milano con i Miracoli di San Carlo Borromeo, coadiuvato da Morazzone e da molti altri (la prima serie è del 1602, ed è dedicata alla vita e alle opere in vita di San Carlo), e che lascia nella chiesa di Santa Prassede a Milano la sensazionale Incoronazione di Spine (1600-1602) presente alla mostra e oggi conservata presso la quadreria Borromeo sull’Isola Bella (Verbania). Un comprimario di Cerano e Morazzone sarà Giulio Cesare Procaccini che nella chiesa di San Maria presso San Celso esegue divere opere di cui in mostra è presente la Trasfigurazione con i Santi Basilide, Cirino e Naborre (1607-1608), oggi alla Pinacoteca di Brera.

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Fig. 5. Giovan Battista Crespi detto Cerano, Incoronazione di spine, 1600-1602 circa, Verbania, Isola Bella, Collezione Borromeo.

La quarta sezione racconta invece gli amori figurativi e collezionistici del secondo fratello, Giovan Carlo Doria; qui si apre una nuova fase per la pittura a Genova, quella caratterizzata dalla figura di Peter Paul Rubens che lascerà in città due dei suoi più emblematici capolavori, ossia l’Imposizione del nome di Gesù (1605) e la pala raffigurante i Miracoli di Sant’Ignazio di Loyola (1619-1620) entrambe presso la chiesa del Gesù.

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Fig. 6. Pier Francesco Mazzucchelli detto Morazzone, Decollazione di San Giovanni Battista, 1612-1613, Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco.

Se Marco Antonio è colui che colleziona opere caravaggesche provenienti da Napoli, i gusti di Giovan Carlo saranno tutti orientati verso pittori orbitanti tra Genova e Milano come ad esempio il più volte nominato Procaccini, di cui Giovan Carlo possedeva la Decollazione del Battista (1608-1610 circa) oggi in collezione privata, o la tela di medesimo soggetto (1612-1613) di Morazzone oggi a Palazzo Bianco di Genova o ancora opere del caravaggista francese Simon Vouet (Parigi, 1590 – 1649) come il San Sebastiano curato da Sant’Irene (1622) o il Davide con la testa di Golia (1621), senza dimenticare che Giovan Carlo si farà fare da Rubens il magniloquente Ritratto a cavallo  (1606) già nelle sua collezioni e oggi presso la Galleria di Palazzo Spinola a Genova.

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Fig. 7. Simon Vouet, San Sebastiano curato da Sant’Irene, 1622 circa, Collezione Privata.

Possedeva inoltre la raffinatissima Sacra Famiglia con San Giovannino (1615-1620) di Procaccini, oggi conservata a Parigi alla Galerie Canesso, dai toni accesi e brillanti, e la splendida Estasi di Santa Maria Maddalena (1618-1610), finita poi a Washington. Tutte queste opere appena citate e presenti all’esposizione sono esemplari di un tipo di collezionismo non esente da scelte di stampo caravaggesco, come le opere di Vouet, ma che sono soprattutto orientate verso artisti che gravitavano, come abbiamo già detto, nell’orbita della città di Milano.

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Fig. 8. Giulio Cesare Procaccini, Estasi di Santa Maria Maddalena, 1618-1620 circa, Washington, National Gallery of Art.

La quinta sezione è dedicata alla pittura bozzettistica di Giulio Cesare Procaccini di cui in mostra si possono vedere alcune tra le sue opere più belle e importanti come la Madonna con Bambino e Santo Vescovo (1605-1606), la Fuga in Egitto (1606-1607) forse appartenuta a Giovan Carlo Doria, anche se gli inventari della sua collezione riguardante quest’opera sono piuttosto generici, la Madonna con il Bambino e un angelo (1613-1615) oggi a Capodimonte e il Giudizio di Paride (1620-1625). Di Giovan Carlo Doria dovette forse essere anche il bozzetto preparatorio dell’Ultima Cena (1618, oggi conservato nella Galleria di Palazzo Spinola a Genova) della cui versione definitiva parleremo più avanti.

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Fig. 9. Giulio Cesare Procaccini, Giudizio di Paride, 1620-1625, Milano, Collezione Privata.

In queste opere si deve senz’altro sottolineare la straordinaria abilità di Procaccini nel rendere con poche ma significative pennellate l’idea generale dell’opera con tocchi ora brillanti ora cupi, senza tralasciare l’intenso tocco drammatico e insieme potente della stesura cromatica, andando già a definire gli effetti e i moti psicologici dei personaggi. Non mancano in questa sezione opere di Bernardo Strozzi tra cui va sicuramente menzionata la Visione di San Domenico (1621-1622), opera di iconografia rara risalente alla tradizione agiografica medievale diffusa grazie alla Legenda Aurea di Jacopo da Varazze. L’opera è il bozzetto preparatorio e preziosa testimonianza dell’affresco realizzato da Strozzi per la chiesa di San Domenico a Genova, distrutto assieme alla chiesa durante le soppressioni napoleoniche.

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Fig. 10. Giulio Cesare Procaccini, Madonna con il Bambino e un angelo, 1613-1615 circa, Napoli, Museo di Capodimonte.

La penultima sezione, la sesta, è interamente dedicata alla maestosa e imponente Ultima Cena di Giulio Cesare Procaccini, unica opera pubblica realizzata dall’artista a Genova per la Basilica della Santissima Annunziata del Vasto entro il 1618. L’opera misura 490 x 855 cm e, prima di essere portata a Milano, per l’occasione ha subito un delicato e complicato intervento di restauro eseguito dal centro della Venaria Reale di Torino che ha visto il cambio di intelaiatura lignea e la sistemazione della superfice pittorica su un nuovo supporto in tela. L’opera di Procaccini è un’evidente riflessione sulla ben più nota Ultima Cena di Leonardo Da Vinci, eseguita per il Refettorio di Santa Maria delle Grazie tra il 1494 e il 1498. Dalle figure di Procaccini emerge l’energia e la dinamicità che danno un effetto teatrale e insieme drammatico alla scena, la luce che assimila aspetti caravaggeschi e della migliore tradizione del Seicento Lombardo, non tralascia di soffermarsi sulle caricature delle fisionomie di alcuni apostoli, in particolare sui due gruppi alla destra e alla sinistra di Cristo. Tali fisionomie sono un’altra meditazione sulle teste caricaturali eseguite da Leonardo e già riprese in innumerevoli disegni dal fratello maggiore di Giulio Cesare, Camillo Procaccini. A dirla tutta, in mostra, manca una sezione dedicata specificatamente al tema del disegno e del legame con i disegni caricaturali di Leonardo, ma si sa, i disegni, nelle mostre sono i primi a venire sacrificati. Il rapporto con le teste caricate è però messo in evidenza dalla presenza di alcune teste di apostoli e santi come il San Paolo e il San Mattia di Rubens, o il gruppo di quattro Santi apostoli realizzati dallo stesso Giulio Cesare Procaccini (1621-1622), già nelle collezioni di Giovan Carlo Doria e oggi a Palazzo Bianco a Genova.

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Fig. 11. Giulio Cesare Procaccini, Ultima Cena, 1618, Genova, Basilica della Santissima Annunziata del Vasto.

L’ultima sezione è infine dedicata all’arrivo a Genova nel 1640 di quattro tele “eseguite al lume di candela” dell’olandese Matthias Stomer (Paesi Bassi, 1600 circa – Italia Settentrionale?, dopo il 1645), raffiguranti rispettivamente Sansone catturato dai Filistei, la Cattura di Cristo, la Flagellazione di Cristo e Saul fa evocare Samuele dalla pitonessa di Endor, già nelle collezioni di Palazzo Spinola a Genova e oggi divise in diverse collezioni europee.

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Fig. 12. Matthias Stomer, Sansone catturato dai filistei, 1639-1641 circa, Torino, Galleria Sabauda.

Sono opere databili tra il 1639 e il 1641 e sono forse la prima vera reazione dopo l’arrivo a Genova del Martirio di Sant’Orsola di Caravaggio. A distanza di trent’anni finalmente i pittori genovesi e non solo iniziano a fare i conti con Caravaggio e i suoi seguaci, in un’area geografica dominata, come abbiamo visto, da tutt’altri riferimenti stilistici.

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Fig. 13. Matthias Stomer, Flagellazione di Cristo, 1639-1641 circa, Collezione Koelliker.

Su questa scia ecco dunque che chi prova a fare i conti con queste opere è il genovese Gioacchino Assereto (1600-1650) nella Morte di Catone (1640 circa) e nell’Ecce Homo (1640- 1645), entrambe in mostra. Altre due figure provano ancora a misurarsi con questa lezione caravaggesca orami all’apice dei suoi esiti più maturi, come ad esempio Orazio De Ferrari (Genova, 1606-1657) con la sua versione dell’Ecce Homo, il cui stile sembra però ancora tutto orientato verso Cerano e Giulio Cesare Procaccini, e Luigi Miradori detto il Genovesino presente in mostra con un assoluto capolavoro giovanile, ossia il Martirio di Sant’Alessandro (1630-1635) di Collezione privata. Sul Genovesino non occorre dilungarsi oltre, dato che, chi scrive, ha già ampiamente parlato di questo pittore, commentando la prima mostra monografica sull’artista svoltasi pochi mesi fa a Cremona e a cui rimando il lettore per ulteriori approfondimenti.

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Fig. 14. Gioacchino Assereto, La morte di Catone, 1640 circa, Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco.

Ritengo questa mostra uno dei pochi eventi espositivi che oggi, sulla scena culturale italiana, meriti di essere vista e studiata a fondo, non solo per l’assoluta qualità delle opere che raccoglie, ma anche perché prova a raccontare, riuscendoci a tutti gli effetti, una storia dell’arte diversa da quella che tutti noi siamo abituati a sentire e a vedere. Un tratto tutto settentrionale o quasi che male e poco oggi si studia e si apprezza, ma che dovrebbe essere divulgato in maniera più costante e meno isolata rispetto a quanto si è fatto fino ad ora.

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Fig. 15. Orazio De Ferrari, Ecce Homo, 1640-1650 circa, Milano, Pinacoteca di Brera.

Le ricerche svolte in occasione della mostra credo che la possano fare annoverare in quel tipo di mostre di ricerca di cui il nostro paese e la nostra storia dell’arte hanno disperatamente bisogno. Anche il modo con il quale si sono cercate di trasmettere queste ricerche all’interno del catalogo ritengo che sia un ulteriore punto di forza della mostra; il volume che accompagna la mostra infatti non è eccessivamente prolisso ed esamina l’argomento in esame in maniera scientifica, chiara e puntuale senza dilungarsi su inutili questioni che interesserebbero soltanto gli addetti ai lavori. Ai saggi introduttivi seguono le schede delle opere e, come per la mostra, il catalogo è suddiviso in sette sezioni o capitoli introduttivi dove viene spiegato il contesto storico e collezionistico delle opere raccolte ed esposte ad ogni sezione. Una nota dolente: le luci. Se è pur vero che è molto difficile riuscire a illuminare opere di dimensioni molo grandi (ma anche alcune di quelle più piccole presentano lo stesso problema), bisogna sforzarsi un po’ di più per fare in modo che i faretti predisposti per l’occasione non riflettano la luce sulle opere, andando a coprire in maniera significativa l’opera oscurandone un poco la fruizione. Nonostante ciò, la mostra deve essere senz’altro vista.

Marco Audisio

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