La Milano scomparsa raccontata da Mosè Bianchi

La sempre crescente edificazione di nuovi e moderni edifici, con le loro pareti a specchio e i profili asimmetrici, ci ha ormai abituati ad una Milano sempre più “verticale” e all’avanguardia, dove il dominio dell’acciaio e del vetro inducono a credere che le avveniristiche città del futuro immaginate da alcuni architetti e urbanisti del Novecento – uno su tutti, per citare un esempio, Antonio Sant’Elia – siano ormai prossime a prendere definitivamente forma.   È tuttavia esistita una Milano, quella precedente alla modernizzazione, non meno affascinante dell’attuale: lo sapeva bene Mosè Bianchi (Monza, 1840 – 1904), artista che ha dedicato parte della sua carriera proprio ad immortalare gli scorci più belli e significativi di una città che, sebbene ormai “fisicamente” scomparsa, sopravvive nei suoi dipinti. Grazie ad essi abbiamo oggi la possibilità di compiere una passeggiata immaginaria nel tempo e nello spazio, lungo vie e piazze le cui atmosfere ci conducono a più di un secolo fa. Mosè Bianchi ebbe con la città meneghina un rapporto strettissimo e sfaccettato; nato a Monza nel 1840, l’artista si trasferì nel capoluogo lombardo nel 1856, per intraprendere gli studi presso l’Accademia di Brera. Suoi compagni di corso erano Federico Faruffini (Sesto San Giovanni, 1833 – Perugia, 1869), Tranquillo Cremona (Pavia, 1837 – Milano, 1878), Daniele Ranzoni (Intra, 1843 – 1889) e altri artisti che, di lì a pochi anni, avrebbero dato vita al movimento della Scapigliatura, caratterizzato dalla meditazione sulle contemporanee ricerche degli impressionisti e dei macchiaioli, in particolare per quanto riguardava l’immediata restituzione della realtà, interpretata mediante pennellate vibranti e indefinite. Lo stesso Bianchi, dopo una prima fase più romantica, non esente per altro dalla partecipazione diretta alla Guerra d’Indipendenza del 1859, subì l’influenza degli “scapigliati”, individuabile soprattutto nella messa a punto del suo particolare stile dai contorni mossi ed indefiniti, applicato a generi assai di moda all’epoca, come il ritratto, il paesaggio o le scene di vita quotidiana.

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Fig. 1. Mosè Bianchi, Il ritorno dalla sagra, 1880, Milano, Galleria d’Arte Moderna.

Nel 1867, grazie alla vittoria del prestigioso Pensionato Oggioni, soggiornò per due anni fra Venezia e Parigi, dove ebbe modo di completare la propria formazione. Rientrato a Milano nel 1869, affiancò la carriera già avviata di artista a quella accademica, ricoprendo per diversi anni la carica di consigliere all’Accademia di Brera; un altro importante successo lavorativo fu l’ottenimento della carica di Direttore dell’Accademia Cignaroli di Verona. Proprio in questo periodo ebbe inizio la serie di paesaggi dedicata a Milano, che avrebbe impegnato l’artista per oltre vent’anni, fino all’ultimo decennio dell’Ottocento.

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Fig. 2. Mosè Bianchi, Uscita dalla chiesa, 1870, collezione privata.

Il nostro tour imaginario potrebbe dunque partire proprio dal 1870, anno nel quale Bianchi dipinse Uscita dalla chiesa: due signore, in apparenza appartenenti a quel contesto popolare spesso frequente nelle tele dell’artista, vengono immortalate con piglio quasi fotografico nell’atto di uscire dalla messa domenicale. Le donne sono velate di nero, come da tradizione, e una delle due si ripara dal sole con un piccolo ombrello rosso, punto di colore che, con la propria vivacità, movimenta una tavolozza impostata soprattutto su toni neutri. L’attenzione dell’osservatore, tuttavia, si sposta immediatamente dalle due figure umane al fondo del dipinto, dove, benché quasi “relegata” e ridotta ad uno scorcio, campeggia l’inconfondibile facciata del Duomo di Milano.

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Fig. 3. Mosè Bianchi, Il tram del Carrobbio, 1891, collezione privata.

Vecchia Milano, del 1880 (immagine di copertina), ha un titolo nostalgico, quasi come se lo stesso artista presagisse il suo ruolo di testimone di un’epoca che si stava rapidamente aprendo all’industrializzazione. L’opera offre un angolo di quotidianità milanese in un giorno di pioggia, con i numerosi passanti riparati dagli ombrelli e una tipica carrozza trainata da cavalli. In fondo si intravede un elemento usuale della vita meneghina: un tram, veicolo che preannuncia la modernità imminente, sebbene, come si vede meglio nel Tram del Carrobbio, i veicoli ritratti da Bianchi siano trainati da cavalli, configurandosi dunque come fra i primi esemplari a trazione animale. L’angolo di Milano che fa da quinta a questa scena è appunto il Carrobbio, ovvero l’area nella quale oggi confluiscono le centrali Via Torino e Via San Vito e da cui si diparte Corso di Porta Ticinese.

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Fig. 4. Mosè Bianchi, Darsena di Porta Ticinese, 1890, collezione privata.

Proseguendo idealmente proprio lungo il Corso, si giunge ad un altro luogo immortalato nelle tele di Bianchi: la darsena di Porta Ticinese, la quale, nonostante nell’omonimo dipinto sia ritratta nel suo aspetto ottocentesco, in virtù del suo essere un angolo “iconico” della città risulta assolutamente riconoscibile. Nella tela, allungata in orizzontale, Bianchi sintetizza molti elementi dell’immaginario finora illustrato, nonostante la presenza umana risulti decisamente sovrastata dall’ampia fascia inferiore del dipinto, occupata dal tratto di acqua nel quale i Navigli Grande e Pavese si incontrano.

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Fig. 5. Mosè Bianchi, Le colonne di San Lorenzo, 1890, collezione privata.

Milano in inverno non doveva certo essere cosa semplice da affrontare, soprattutto per le fasce meno abbienti della popolazione: è quanto sembra volerci comunicare il dipinto Colonne di San Lorenzo, del 1890. In esso affiora infatti anche una certa dose di verismo sociale, soprattutto per quanto riguarda il dettaglio della madre in primo piano che, avvolta nel proprio mantello, porta in braccio un neonato. Sulla sinistra troviamo le colonne romane di San Lorenzo, vere protagoniste della tela, mentre sul fondo sembra di scorgere un angolo della porta Ticinese medievale. Anche questo angolo di città è molto cambiato rispetto ai tempi nei quali Bianchi lo visitò e lo ritrasse; l’attuale piazza che sorge fra le colonne e la basilica di San Lorenzo era infatti occupata da un intero isolato di vecchi edifici, demoliti nel 1935 per donare maggiore monumentalità alla grandiosa architettura, in accordo con il piano regolatore dell’epoca.

Sono molte le vedute che Bianchi dedicò a Milano, “fotografata” nel variare dei momenti della giornata e delle stagioni; la città fissata dall’artista nelle sue tele appartiene ad un mondo in evoluzione, oscillante fra l’antico e il contemporaneo, non privo di “anticipazioni” di ciò che caratterizzerà la vita della metropoli di lì a qualche decennio. Lo testimoniano, ad esempio, la presenza quasi costante dei moderni tram e la vivacità delle strade pullulanti di persone indaffarate, qualunque sia la condizione atmosferica e persino nelle notti rischiarate dalle numerose luci artificiali provenienti dalle abitazioni e dai locali di svago. In occasione delle numerose esposizioni dedicate negli ultimi anni alla pittura del diciannovesimo secolo, le opere di Mosè Bianchi hanno trovato uno spazio adeguato e un’occasione di confronto e di dialogo con gli altri “grandi” dell’epoca. L’inserimento dell’artista nel contesto a lui attuale, infatti, consente di delineare una panoramica esaustiva di quelle che sono state le atmosfere e le correnti, culturali e di pensiero, della seconda metà dell’Ottocento, le stesse che Bianchi riuscì a sintetizzare nelle proprie tele. Il rovescio della medaglia è il fatto che, finora, sia stata solo una la mostra monografica dedicata all’artista dalla città di Milano – andata in scena nel 2016 preso il Centro studi per l’arte moderna e contemporanea GAM Manzoni. Un dato dunque piuttosto sorprendente e l’auspicio è che venga data, in futuro, maggiore rilevanza alla figura di questo uomo ed artista, la cui partecipazione alla vita milanese non fu limitata alla sola arte, ma si sviluppò a tutto tondo, spaziando fino all’impegno didattico e a quello civile.

Chiara Franchi

 

 

 

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