Ho appena finito di leggere un volumetto acquistato all’ultima fiera libraria di Milano, e che mi era stato consigliato ad un corso dell’Accademia di Brera. Si intitola Ombre, sottotitolo: “La rappresentazione dell’ombra portata nell’arte occidentale”. Ernst H. Gombrich (1909 – 2001), l’autore, è stato uno dei più importanti storici dell’arte del Novecento. Austriaco, allievo di un altro maestro come Julius von Schlosser, ha insegnato a Londra e ha fatto parte dell’Accademia dei Lincei. Ma soprattutto ha diretto il Warburg Institute, specializzato in studi sul patrimonio storico-artistico, dal 1959 al 1976.
Ombre nasce come testo per accompagnare una piccola esposizione tenutasi alla National Gallery dal 26 aprile al 18 giugno 1995; in mostra erano alcuni dipinti già parte della collezione del museo londinese. Pubblicato come saggio indipendente è servito a fare il punto sulla questione, rimasta per troppo tempo ai margini dell’attenzione degli studiosi, dell’ombra portata. L’approccio alla sua raffigurazione da parte degli artisti nel corso delle epoche e la possibilità di educarne alla percezione, nonché alla lettura, il visitatore ideale di mostre sono tutti argomenti che Gombrich tratta in maniera sintetica quanto esaustiva. Utile anche per il conoscitore d’arte più navigato. Questo sarebbe infatti il grande merito di uno studio simile, al di là che sia possibile o meno realizzare il suo fine ultimo e più elevato.
Personalmente ho trovato questa lettura chiarificatrice. Senza indugio ulteriore, voglio esporre alcune considerazioni mie scaturite dall’approfondimento del tema riguardo la rappresentazione dell’ombra e in particolare dell’ombra portata (quella che proiettano gli oggetti illuminati).
La prima. Per quanto l’intuizione dell’ombra come colore venga fatta risalire solitamente agli Impressionisti – il gruppo di pittori formatosi a Parigi nel 1870 – e non ci siano dubbi che proprio loro incominciarono a dipingere le ombre senza adoperare il nero, facendo di questa tecnica una peculiarità personale, sembra che l’idea di base non fosse per niente inedita. In qualche modo i pittori devono aver sempre considerato l’ombra alla stregua di un colore, avendola riconosciuta come tale giacché è in questo modo che appare ai nostri occhi. Ne è prova il fatto che Filippo Baldinucci nel suo “Vocabolario toscano dell’arte del disegno” (Firenze, 1681) definisca l’ombra sotto l’aspetto prettamente grafico: «Termine de’ Pittori, per il quale generalmente intendono quel colore più e meno scuro, che degradando verso il chiaro, serve nella pittura per dar rilievo alla cosa rappresentata», separando inoltre questo significato da quello de «l’oscurità che fanno i corpi opachi, alla parte opposta a quella, che è illuminata».

La seconda. A partire dal secolo XV la rappresentazione dell’ombra portata subisce un temporaneo declino; come vedremo, ma in parte come già sappiamo, questo sarà messo in discussione dall’opera di Caravaggio e dei suoi seguaci. Secondo quanto scrive Gombrich, sembrerebbe che moltissimi pittori del passato, eccellentissimi nell’utilizzo della tecnica e abili nell’osservazione della natura che rappresentavano, «abbiano accuratamente evitato di inserire le ombre nei loro dipinti, come se le considerassero elementi di disturbo e di distrazione all’interno di una composizione altrimenti coerente e armoniosa». Lo stesso Leonardo da Vinci nel suo “Trattato della pittura” (1540 circa, pubblicato postumo tanto si fa evidente la sua origine di appunti privati) fornisce una testimonianza diaristica di quanto fosse diffuso all’epoca quello che sempre Gombrich definisce un vero e proprio pregiudizio verso l’ombra portata.
Succede però qualcosa che ha dello straordinario, e geniale un po’ come si conviene all’uomo icona del Rinascimento. Persino nell’occuparsi di una faccenda circa la quale appare propenso a non turbare lo stato delle cose, Leonardo dimostra nel contempo la stessa attenzione alla veridicità che tanto amava da studioso della natura quale appunto è stato. E di fronte all’eventualità di raffigurare le ombre attenuate sotto un cielo terso e luminoso non si dà pace, per questo scrive:
“onde per fugire tale inconveniente se tu depingi li corpi in campania aperta farai le figure non alluminate dal sole ma fingi alcuna quantità di nebbia o nuvoli trasparenti essere interposti infra l’obiettivo e il sole non essendo la figura del sole espedita non saranno espediti i termini del’ombre co’ termini de lumi”.
Non ho problemi a definire per questo motivo Leonardo da Vinci un “realista”. (E sia chiaro, non alla stessa maniera di Gustave Courbet, il quale sarebbe nato più o meno quattro secoli dopo e per il quale si parla di Realismo con la R maiuscola). Incapace di sopportare che vi siano incongruenze nella rappresentazione del mondo, dà indicazioni su come dipingere le condizioni atmosferiche in maniera da giustificare l’utilizzo, altrimenti forzoso, di un certo tipo di ombre. Indicazioni che forse, altresì, dà a se stesso piuttosto che ai suoi colleghi pittori.

E per finire, la terza considerazione. L’accostamento di Caravaggio ad un uso innovativo della luce sembra essere diventata quasi una banalità. Per dirla in modo prosaico, ormai lo sanno anche i bambini. Credo sia importante rimettere l’evento in una prospettiva storica, esattamente come fa Gombrich nel capitolo quarto della prima sezione del saggio: “Osservazioni sull’ombra portata nella storia della pittura”. Leggere il fatto in relazione a quello che è stato prima (l’ostracismo ideologico che ha dovuto subire la rappresentazione dell’ombra portata) e ridimensionare il ruolo del pittore lombardo verso il suo stesso contributo, si dimostra oggi quantomai importante. Non bisogna dimenticare che alla fortuna di Caravaggio presso le migliori committenze è corrisposta la reazione spesso negativa della critica d’arte coeva, dei tanti pittori che non apprezzavano il suo stile, definito “tenebroso”, il quale pure (sottolinea Gombrich, d’altro canto): «conquistò non solo parte dell’Italia ma anche intere regioni del nord, dove culminò nell’arte di Rembrandt».
Appare evidente come non ci sia nelle intenzioni del Merisi il guizzo solitamente attribuito all’artista che viene raccontato, un po’ per semplificare, e un po’ per attenersi a un determinato cliché pop-culturale, quasi scisso dal contesto storico e artistico di appartenenza. L’innovazione caravaggesca non si spiegherebbe altrimenti che alla luce di un passato in cui la rappresentazione delle ombre è risultata sfavorita, secondo un’idea che, abbiamo già detto, avrebbe in parte condizionato il giudizio sul pittore medesimo. Un ideale, più che un’idea, in cui erano già riposti i modelli classici di bellezza che pure la nuova pittura aveva incominciato a rifiutare.

Riappropriarsi di una luce e di un’ombra naturali, per quanto marcate, significa, come già nelle intenzioni di Leonardo, riappropriarsi del diritto a rappresentare il vero. Sempre però da leggere non come episodio isolato della Storia dell’arte, ma come fatto consequenziale a un prima e che ha portato a delle conseguenze successive.
Niccolò Iacometti
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