A pensarci mi sono un po’ sorpreso, ma la formazione da storico dell’arte del sottoscritto parte e in qualche maniera sta “finendo” proprio in concomitanza di due mostre, quelle curate da Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa a Rancate alla Pinacoteca cantonale Giovanni Zust. Il titolo di queste due esposizioni è il medesimo: Il Rinascimento nelle terre ticinesi, i sottotitoli invece variano un po’: quella del 2010-2011 recitava Da Bramantino a Bernardino Luini; quella del 2018-2019 invece, Dal territorio al Museo. Ammetto subito, con un po’ di vergona, di non aver visto la prima e non vale certo la scusa che non avevo mai frequentato fino ad allora (ho iniziato solo nel febbraio del 2011 a mostra conclusa), un corso universitario di storia dell’arte moderna. Ma ho rimediato quasi subito, poiché il primo catalogo di una mostra storico artistica che ho acquistato alla libreria Cortina in via Festa del Perdono quando ho iniziato i miei studi, sono stati proprio quei due volumi correlati alla prima esposizione conclusasi al principio del 2011. Il corso di quell’anno accademico era su Vincenzo Foppa e in bibliografia oltre ai consueti manuali e a una monografia sul pittore di Bagnolo Mella c’era, guarda caso, il Rinascimento nelle terre ticinesi. Da Bramantino a Bernardino Luini. La lettura di quel catalogo aggiunta alla calura estiva, mi riuscì quasi insopportabile, era come leggere un libro in una lingua straniera che non si conosce. Passai l’estate a cercare di decifrare quelle note bibliografiche, quelle lunghissime e interminabili parentesi, quei maiuscoletti che ora mi sembrano così familiari. Poco o nulla conoscevo di Bernardino Luini, Bramantino, i fratelli De Donati, i Del Maino, del maestro di San Rocco a Pallanza alias Giovanni Antonio da Montonate, di Zenale, Butinone, perfino di Gaudenzio Ferrari: ma ho rimediato! Ci misi circa due mesi per leggere e soprattutto comprendere qualcosa di quel libro. Nonostante i miei sforzi e le riletture, il contenuto di quei “dannati” volumi non mi risultava ancora del tutto chiaro. Era il 27 luglio e diedi l’esame di storia dell’arte moderna: 30! Passò qualche tempo e venne il turno del Bramantino a Milano. Quel catalogo, in parte diverso rispetto alle terre ticinesi, meno ostico sotto certi aspetti, mi risultò nella lettura più agevole: parentesi, maiuscoletti e ricostruzioni filologiche massacranti non facevano più così tanta paura nell’essere affrontate.
![dsc_0916_giovetto[1]](https://letterarti.files.wordpress.com/2019/01/dsc_0916_giovetto1.jpg?w=736)
L’anno dopo fu la volta di Bernardino Luini e i suoi figli, e l’anno scorso è toccato a uno dei pittori che ora conosco e che amo di più: Gaudenzio Ferrari. Tutti pittori che in quel piccolo laboratorio di idee che era, allora come oggi, la Pinacoteca Giovanni Zust a Rancate erano passati sotto la lente di ingrandimento da parte di questi due storici dell’arte in una maniera che mai, ne prima, ne dopo mi è capitato di imbattermi. In quel periodo sono anche iniziate le mie incursioni nel Canton Ticino, a Lugano, Locarno, e Bellinzona. A Orselina (Locarno), accompagnato da persone che mai scorderò, ho visto la magnifica Fuga in Egitto del Bramantino appena restaurata e nella sua collocazione originale, a Bellinzona la parete degli Scotti, a Lugano Santa Maria degli Angeli con il tramezzo di Luini e la facciata della chiesa di San Lorenzo (il resto era ancora impalcato per i restauri). Nel frattempo mi sono laureato in Statale con questi due studiosi e poi avvertendo che i tempi erano maturi e intuito che quasi certamente per me non c’era posto in quella università sono andato in cerca di altre strade, di altre università, di altri maestri: altre strade e università le ho trovate, per quanto riguarda nuovi maestri, ammetto di esserne ancora alla ricerca! Se devo essere sincero non è stata una questione di metodo didattico che mi ha fatto propendere per altre strade quanto una questione di modi di fare, di porsi con il prossimo, di “trattare la gente”. Tuttavia ho continuato a seguire da vicino quello che usciva e che esce da quel laboratorio in fieri di idee. Ecco che lo scorso 27 dicembre sono salito in Canton Ticino e sono andato alla Zust come amichevolmente mi piace chiamare un posto che mi è ormai molto familiare anche se mi sembra sempre di andare in quelle famiglie dove non si campisce bene se ti vogliono bene o ti odiano (quasi certamente la seconda!) Sta di fatto che sono andato a vedere la seconda puntata del Rinascimento nelle terre ticinesi: dal territorio al museo. Ho comprato il catalogo e se al tempo della prima puntata ci misi due mesi per leggerlo tutto, oggi la tempistica è stata ben altra: due giorni. Ciò che unisce le due mostre e quindi i relativi cataloghi è la coerenza di un metodo messo a punto in quasi dieci anni di attività di studio e di ricerca. Alla coerenza scientifica si affianca la coerenza editoriale, dal formato quadrato, al carattere tipografico, dall’impaginazione alle campagne fotografiche, in numerosi casi realizzate ex novo da professionisti del settore. I cataloghi delle “loro” mostre hanno solitamente un unico “saggio” introduttivo in cui viene raccontato “genericamente” il sunto delle ricerche svolte, com’è composta la mostra, che cosa si vede e che cosa no. Seguono delle schede che ormai portano il “loro” marchio, molto spesso realizzate dagli “allievi” ma scrupolosamente sorvegliate dai due professori, come se il dipartimento fosse una sorta di quelle antiche botteghe di pittori del rinascimento. Le schede sono a metà strada tra una anamnesi medica e un bollettino di guerra! L’opera viene passata sotto una sorta di lente di ingrandimento, la storia dell’opera è riportata a cominciare dalla più antica informazione, riscontrabile dalle fonti e/o dalla bibliografia, fino a quella più recente. Ogni passaggio collezionistico è registrato in maniera minuziosa, ogni restauro segnalato, ogni fotografia antica eseguita dell’opera in esame è puntualmente annotata. In mezzo a questi passaggi si trovano le note bibliografiche che significano parentesi e maiuscoletti, anni di edizioni e numeri di pagina che se da un lato chiariscono fino al maniacale le vicende dell’opera costringono il lettore a inframezzare continuamente la lettura. Poi un asterisco segna un passaggio chiave: la scheda e con essa il suo modo di scrittura diventa più accessibile, piano; meno parentesi e così anche meno maiuscoletti e via dicendo: si tira un sospiro di sollievo. In questo punto viene descritta l’opera e di tanto in tanto si trova qualche proposta o per meglio dire, correzione attributiva. Nessuna vena sentimentale, nessuno schiribizzo poetico, lirico o letterario, la sintassi è fredda: tutto è rigorosamente oggettivo, glaciale. Così le schede arrivano a raggiungere e qualche volta (ma per fortuna non troppo spesso), superare le dieci pagine, inframezzate ovviamente dall’immagine generale dell’opera esaminata e da alcuni particolari. Sebbene io abbia esperienza di numerosi metodi di schedatura e sebbene non sempre quell’approccio così gelido e privo di letterarietà delle schede delle mostre di Agosti-Stoppa mi sia sempre così congeniale (come nel caso del Rinascimento di Gaudenzio Ferrari), devo ammettere che quel metodo è uno tra i migliori (se non il solo) che si dovrebbe utilizzare quando si scheda un’opera d’arte.

Quando ci sono troppi fronzoli letterari o quando si ragiona su basi ipotetiche e i voli pindarici prendono il largo, si perde di vista il buon metodo e si finisce col parlare un po’ di aria fritta: si esce dal professionale e si sfocia nel dilettantesco. È il caso di tanti, tantissimi cataloghi di mostre che hanno la presunzione di essere fatti studiare agli studenti in numerose università, collegandoli a corsi monografici di storia dell’arte. Sono cataloghi spesso con pochissime pagine di schede e con una infinità di saggi (molti dei quali inutili) che alla fine non fanno altre che confondere le idee. Se mai m’accadrà di realizzare campagne di schedatura vorrei tuttavia riuscire a trovare una via di mezzo, come ho recentemente provato a fare durante la schedatura di un’opera delle collezioni del Museo Diocesano di Milano; un’esercitazione svolta nell’ambito del laboratorio di riconoscimento dipinti presso l’Università Cattolica di Milano. Mi piacerebbe unire all’anamnesi filologica dell’opera (con tutto ciò che essa comporta), anche un tentativo attributivo ragionato, sempre se l’opera esaminata presenta problematiche di tale genere. Mi sono accorto infatti che non sempre si dà abbastanza spazio a questi ragionamenti, che se possono essere chiari nelle menti dei grandi studiosi, di fatto poi al lettore, anche specialista, appaiono in alcuni casi un po’ arbitrari e non sufficientemente motivati. I casi sono molto rari ma ci sono! Chiudendo questa breve dissertazione metodologica mi sono accorto, appunto, come dicevo poc’anzi, che la mia formazione è iniziata e in qualche modo si sta per chiudere (arrivato al secondo anno della Scuola di Specializzazione in beni storico-artistici), proprio nell’apprendere e constatare quanto questo metodo sia per fortuna o sfortuna il metodo di “paragone” su cui il sottoscritto ha imparato a lavorare direttamente o indirettamente e sul quale cerca di basarsi nell’affrontare i suoi studi e le sue ricerche, nonché quando va a vedere una mostra o quando legge un catalogo.

Il Rinascimento nelle terre ticinesi 2. Dal territorio al museo in scena alla Pinacoteca Zust di Rancate (Mendrisio, cantone Ticino) fino al prossimo 17 febbraio 2019 è curata da Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa e presenta un allestimento dell’architetto ticinese Mario Botta che con questa esposizione celebra il suo secondo intervento presso questa istituzione museale. La mostra nelle sale della pinacoteca, riallestite appositamente per questo evento, racconta più storie parallele che hanno come filo conduttore quello della tutela. Il presupposto per questa seconda puntata è stato infatti l’acquisto da parte del museo dello scomparto di predella con Santo Stefano davanti al Sinedrio di Francesco De Tatti, pittore di origine varesina attivo anche in Canton Ticino, un tempo parte di un ben più ampio polittico nella chiesa parrocchiale di Santo Stefano a Rancate a pochi metri di distanza dalla pinacoteca. Questo evento ha fatto sorgere nei curatori delle domande: che cosa si conservava anticamente nelle chiese e negli oratori del Canton Ticino? Che cosa è andato disperso? Che cosa è ritornato al suo posto e cos’altro si è perduto per sempre?

L’esposizione è anche un momento di riflessione sul luogo all’interno del quale si trova la mostra stessa. Le sale sono dipinte di nero e al loro interno sono esposte le opere accompagnate da testi bianchi che spiegano sezione per sezione che cosa si vede in mostra. Non voglio dilungarmi troppo su quanto si trova esposto, per tutte le curiosità e per saziare qualunque voglia di conoscenza c’è il bel catalogo che accompagna la mostra. Voglio solo fare un rapida carrellata generale dell’esposizione senza soffermarmi troppo su questioni che il volume espone e risolve meglio di me. Un primo ambiente introduttivo fa una sorta di piccolo rewind sulla prima mostra della Zust e raccoglie le locandine oltre che i depliant che erano stati messi a punto per accogliere i visitatori nei luoghi di interesse culturale facenti parte dei vari “itinerari” previsti nel 2010-2011. La prima sala accoglie invece, come già accennato, lo scomparto di predella con Santo Stefano davanti al Sinedrio un tempo nella parrocchiale di Rancate.

La seconda sala affronta la parabola artistica di Francesco De Tatti (Varese, documentato dal 1512 all’11 febbraio 1527, già morto il 13 gennaio 1532) pittore a cui i curatori hanno già dedicato un volume intitolato Francesco De Tatti e altre storie, titolo che, contrassegnato dai diversi numeri progressivi, distingue le varie sezioni della mostra In questo ambiente si trova un bel disegno del pittore proveniente dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia. L’opera mostra forse la più antica veduta della città di Bellinzona prima del disastro idrogeologico della Buzza di Biasca avvenuto il 20 maggio 1515. Il disegno presenta evidenti riflessioni sulle opere di Raffaello come la Madonna di Foligno (1512) ed è forse il disegno preparatorio per una pala d’altare da collocarsi in qualche chiesa della città di Bellinzona.

Sul muro opposto si trovano due dipinti raffiguranti un’Annunciazione e un Adorazione dei Pastori provenienti dal museo Poldi Pezzoli di cui non si conosce con esattezza la loro collocazione originale, attribuiti a De Tatti da Giovanni Romano. Corrono lungo le pareti laterali dell’ambiente due predelle di polittici: quella di destra è la predella del Polittico di Bosto di Francesco De Tatti proveniente dalla chiesa di San Michele e Sant’Imerio a Varese e oggi al Catello Sforzesco di Milano (lo scomparto centrale del polittico era già stato esposto alla prima mostra nel 2010-2011), mentre quella a sinistra è la predella del Polittico dei Calzolai di Defendente Ferrari e Martino Spanzotti che si conserva nel Duomo di Torino. Queste due predelle dialogano assieme poiché sono evidenti i prestiti del De Tatti nei confronti di Spanzotti (un suo lontano parente) nelle scene della Flagellazione e dell’Andata al Calvario di Cristo.

Nella sala successiva, tra le numerose opere, si possono ammirare un San Giovanni Battista e un Sant’Ambrogio di Bernardo Zenale un pittore a cui De Tatti dimostra di guardare costantemente (come aveva già fatto con Spanzotti) durante la maturazione del suo linguaggio stilistico. Queste due tavole, che giacciono in condizioni conservative non del tutto ottimali, facevano anticamente parte di un complesso più ampio di cui oggi non si sa praticamente nulla e sono riunite in mostra per la prima volta. Lì accanto sono raccolte altre opere del pittore varesino. Ad esempio, si può ammirare il polittico proveniente dalla chiesa di Santa Maria Annunciata di Brunello eseguito da De Tatti nel 1519 per la famiglia Bossi (imparentata con il pittore per via materna), il cui stemma è richiamato dall’orso trascinato da San Giuseppe, presente nella predella dell’opera raffigurante la Fuga in Egitto. Nella parte terminale del polittico invece si trova raffigurata una Vergine Annunciata e un Angelo Annunciante che riprendono una composizione di analogo soggetto di Raffaello, andata perduta, ma conosciuta attraverso l’incisione di Marco Dente datata a prima del 1519 che evidenzia quanto il linguaggio figurativo di De Tatti fosse aggiornato sulle novità raffaellesche più “alla moda” del momento in un dialogo costante con i più grandi pittori del suo tempo.

Di fronte emergono, ridotti a poco più che stracci, i grandiosi affreschi del perduto oratorio di San Bernardino a Gazzada Schianno dipinti da De Tatti verosimilmente tra il 1513 e il 10 gennaio 1515. In questi affreschi si fanno evidenti, ancora una volta, i riferimenti figurativi del pittore varesino: il Bramantino, delle cui enigmatiche architetture si può trovare una eco nei pallidi castelli e nei villaggi che costellano gli sfondi della Crocifissione e dell’Adorazione del Magi, e Vincenzo Foppa nella scena raffigurate la Predica di San Bernardino.

Salendo le scale si arriva al mezzanino in cui si trovano quattro tavole raffiguranti la Natività attraverso le quali si vuole illustrare il meccanismo di funzionamento delle botteghe e in particolar modo l’uso di riprodurre le tipologie di immagini sacre che, nel tempo, erano andate incontro ad una maggior fortuna. Sono opere i cui autori non si conoscono ma che hanno alle spalle gli stessi riferimenti figurativi alla base del linguaggio stilistico di Francesco De Tatti: Bramantino, Bernardo Zenale e per certi versi anche Leonardo Da Vinci. Le quattro Natività enfatizzano inoltre le figura di San Giuseppe, il padre putativo di Gesù. Mi ha incuriosito questa sezione della mostra poiché spinge il visitatore ad un “gioco” che piace tanto agli storici dell’arte. Si chiama trova le differenze! Così la Natività di Amsterdam di forte matrice bramantinesca è simile a quella della Ca’ Granda ma solo nella parte destra, mentre quella nella chiesa di Santa Maria Assunta di Magenta somiglia molto a quella della Ca’ Granda di Milano ma senza i due angioletti, che invece si trovano nella versione di Tortona (dal forte sapore leonardesco), che riprende almeno in parte l’esemplare di Amsterdam ma senza angioletti che invece figurano nella Natività milanese. La figura di San Giuseppe poi è identica sia nella versione milanese sia in quella di Magenta che in quella di Tortona e la posizione del braccio, simile nei tre casi, discende direttamente dalla posa assunta da San Matteo nell’Ultima Cena di Leonardo.

Si imboccano ancora le scale e si arriva alla sala delle capriate, qui ci aspetta una selezione di guide storico-artistiche dedicate al patrimonio culturale ticinese, opere novecentesche dal sapore enciclopedico che avevano come scopo la schedatura di tutto il patrimonio presente sul territorio a prescindere dalla sua qualità più o meno elevata. Quanto ne avremmo avuto bisogno qui in Italia! Tutto attorno ci sono dei disegni di Johann Rudolf Rahn (Zurigo, 24 aprile 1841 – 28 aprile 1912), che raffigurano i monumenti più importanti del Cantone come il Castello di Locarno, il Castello di Montebello a Bellinzona; schizzi di opere di Giovanni Antonio da Montonate e alcune copie tardo seicentesche di due scomparti del bellissimo, ma purtroppo disperso in mezza Europa, polittico Torriani di Bernardino Luini, un tempo nella chiesa di San Sisinio a Mendrisio: quanta emozione se si fosse riusciti a ricomporlo interamente in mostra! Avanzando ancora, ecco che ci si imbatte in due esemplari dedicati allo stesso tema: l’Assunzione della Vergine; una versione appartiene alla mano di uno scultore lombardo anonimo, l’altra dovrebbe spettare ai fratelli Giovanni Pietro e Giovanni Ambrogio De Donati a cui è attribuita, tra l’altro, la magnifica Pietra dell’Unzione della Pinacoteca di Varallo Sesia, cui Giovanni Testori ha dedicato parole memorabili.

Passando oltre si entra in un ambiente in cui si trova una serie di cinque vetrate raffiguranti Dio padre, la Madonna con il Bambino, San Giovanni Battista, San Pietro e i Donatori. Queste vetrate, conservate nel Museo Nazionale Svizzero di Zurigo ma provenienti dalla Collegiata di San Vittore Mauro di Poschiavo nel Cantone dei Grigioni, presentano chiari riferimenti alla cultura figurativa dei De Donati e di Bernardo Zenale e sono realizzate molto probabilmente da Domenico Cazzanore, un maestro vetraio originario di Como, su un disegno di chiara matrice zenaliana ancora da identificare con precisione. Dispiace non aver potuto vedere la cosiddetta Pala Quadri (1525 cica), dal nome del suo committente Francesco Quadri (o Quadrio), dipinta da Bernardino Luini. L’opera, in cattivo stato di conservazione, deve finire il delicato intervento di restauro prima di essere esposta in mostra. La tela, che dopo varie peripezie oggi si trova ad Oxford, era la pala d’altare della cappella (la seconda a destra) della chiesa di Santa Maria degli Angeli a Lugano dedicata a San Giovanni Battista e di patronato della famiglia Quadri (oggi dedicata a Sant’Antonio da Padova). Di fronte alla brutta riproduzione in bianco e nero della pala Quadri si trova l’ultima opera della mostra: il trittico di Callisto Piazza da Lodi (documentato dal 6 maggio 1523 al 30 agosto1561, morto a Lodi, prima del 19 febbraio 1562) , pala dell’altare maggiore (1541-1551) della chiesa di Santa Maria degli Angeli a Lugano. Lo scomparto centrale con l’Assunzione della Vergine, oggi in una collezione privata di Firenze, era già stato portato nella mostra del 2010-2011, mentre i due scomparti laterali, rispettivamente uno con San Paolo e San Francesco d’Assisi e l’altro con San Pietro da Verona e San Bernardino da Siena, arrivano dal Museo d’Arte Sorlini di Calvagese della Riviera e sono qui esposti per la prima volta.

Mentre queste due tavole fanno ormai parte della collezione poc’anzi citata, lo scomparto centrale è oggi come allora sul mercato antiquario. La speranza è quella che la Pinacoteca Zust o qualche generosissimo ticinese acquisti l’opera e la faccia rientrare quanto meno nel territorio in cui si trovava secoli fa. Certo è che la tavola ha tutt’altri costi rispetto alla piccola predella di Francesco De Tatti, ma come si dice, la speranza è l’ultima a morire. Il Rinascimento nelle terre ticinesi non è un’esposizione facile da vedere, sia per le opere esposte, non sempre dei capolavori assoluti, sia per l’oggettiva difficoltà dei pittori, sia per la complessità di unire tutti gli spunti tematici che la mostra analizza.

Come già accennato all’inizio di questo testo, l’allestimento è opera dell’architetto Mario Botta, il cui primo maestro era stato incaricato di trasformare proprio la casa parrocchiale di Rancate in museo. Consapevole della propria missione artistica di dover lasciare un segno progettuale (sulla scorta delle lezioni di Scarpa e Albini) e al contempo che la sua impronta non deve mai rubare la scena alle opere in mostra, per l’occasione disegna espositori sobri ma non anonimi, dalle linee puriste e al contempo monumentali, realizzati in legno di cedro e ispirati nella forma ai cavalletti da studio di pittura. Sfrutta poi il nero di pareti e pavimenti per creare un vuoto nel quale le opere sono come immerse. Nella sezione della mostra in cui trovano posto le vetrate del Cazzanore, oggetti preziosi creati per dialogare con la luce, l’utilizzo della retroilluminazione si dimostra un’idea felice e indovinata, atta a ricreare almeno in parte il contesto originale per cui le opere erano state realizzate.
![Pinacoteca_Zuest_Il_Rinascimento_nelle_terre_ticinesi_2_allestimento[1].jpg](https://letterarti.files.wordpress.com/2019/01/pinacoteca_zuest_il_rinascimento_nelle_terre_ticinesi_2_allestimento1.jpg?w=736)
Il Rinascimento nelle terre ticinesi è stato il principio per sviluppare negli anni tematiche di ricerca che hanno arricchito e ampliato capillarmente la conoscenza della storia dell’arte lombarda. Bernardino Luini, Bramantino, Gaudenzio Ferrari, Francesco De Tatti erano tutti artisti presenti nella prima mostra di Rancate a cui sono seguite mostre monografiche che ne hanno indagato i percorsi artistici e ne hanno messo a fuoco, valorizzandole, le personalità, importantissime per la nostra Storia dell’arte. A quando dunque una mostra sui Piazza da Lodi?
Non bisogna soffermarsi alle sole emergenze figurative, certamente un’operazione indispensabile, ma bisogna conoscere anche tutto il variegato panorama figurativo che ha reso grandi quelle vette della storia dell’arte. Dopo tutto più si conosce e più si è liberi, di pensare e agire.
La storia dell’arte libera la testa!
Marco Audisio
Con un commento sull’allestimento di Niccolò Iacometti
Novara 29-12-2018
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