Il Museo del Novecento di Milano, in modo parallelo e complementare al Mart di Rovereto, due fra le maggiori istituzioni italiane dedicate alla conservazione e alla diffusione del patrimonio artistico italiano dello scorso secolo, sarà teatro, fino al prossimo 24 febbraio, di una mostra dedicata a una delle più affascinanti e controverse figure femminili vissute nel Novecento: Margherita Sarfatti (Venezia, 1880 – Cavallasca, 1961).
A cura di Anna Maria Montaldo e Danka Giacon, con la collaborazione di Antonello Negri, l’esposizione milanese offre al visitatore la possibilità di immergersi nell’ambiente sociale e culturale che ha caratterizzato il capoluogo lombardo durante i primi decenni del XX secolo fino al definirsi di quel particolare stile Novecento che, grazie all’attività fondamentale della Sarfatti, divenne sinonimo non solo di un movimento pittorico, ma del gusto di un’intera epoca. In mostra, infatti, sono esposti circa un centinaio fra dipinti, sculture, documenti e fotografie, abiti ed esemplari di arredamento che, nella loro totalità, avvolgono il visitatore in quella stessa atmosfera che dovette respirare Margherita quando, nel 1902, poco più che ventenne si trasferì, insieme al marito, Cesare, da Venezia al capoluogo lombardo.

La Milano nella quale giunge Margherita è una città che ha già iniziato a distinguersi per dinamismo e progresso; lo testimonia, ad esempio, la fortunata Esposizione Universale del 1906, dedicata al tema dei moderni trasporti, mentre la vivacità mondana della metropoli è ben esemplificata in mostra dal dipinto Uscita dalla Scaladi Arnoldo Bonzagni (Cento, 1887 – Milano, 1918), artista che dedica gran parte della produzione proprio all’osservazione, con sguardo ironico, del bel mondo cittadino.
Giornalista e critica d’arte, rampolla di un’influente famiglia di origine ebraica, la Sarfatti è oggi ricordata soprattutto per il suo contributo fondamentale all’affermazione del cosiddetto “gruppo di Novecento” e a causa della controversa e duratura relazione, anche sentimentale, con Benito Mussolini (Dovia di Predappio, 1883 – Giulino di Mezzegra, 1945); tuttavia, la sua attività si estende ben oltre questi limitativi confini e affonda le proprie radici agli inizi del secolo, quando la giovane Margherita inizia a scrivere per l’“Avanti della domenica”, per poi essere promossa, nel 1909, a responsabile della sezione dedicata alla critica artistica della testata “Avanti!”. La vicinanza con l’ambiente socialista milanese, del quale l’”Avanti!” era l’organo di stampa ufficiale, la porta quindi ad entrare in contatto con il medico russo Anna Kuliscioff (Sinferopoli, 1855 – Milano, 1925), attivissima nella difesa dei diritti delle donne della classe operaia, e a aderire a quei valori di assistenzialismo e giustizia sociale che caratterizzano la nascente Società Umanitaria. Giungerà in questo contesto anche il fondamentale incontro con Mussolini, all’epoca a sua volta dirigente del PSI, con il quale la giovane avvierà un sodalizio, sia sul piano ideologico che su quello personale, che durerà vent’anni e attraverserà, pressoché immutato, tutte le fasi dell’evoluzione del pensiero politico del futuro duce.

In ogni caso, è proprio nell’ambito della Società Umanitaria, istituto filantropico tuttora esistente, che si occupava della formazione delle classi più svantaggiate, che Margherita avrà modo di collaborare, nel 1911, alla “Prima mostra di arte libera”: ad attrarla è soprattutto l’idea di avvicinare e rendere comprensibile il sistema culturale, ancora considerato elitario, ai nuovi ceti, come la piccola borghesia e il proletariato. All’esposizione partecipano, con opere a tema sociale, personalità del calibro di Carlo Carrà (Quargnento, 1881 – Milano, 1966), Luigi Russolo (Portogruaro, 1885 – Laveno-Mombello, 1947) e Umberto Boccioni (Reggio Calabria, 1882 – Verona, 1916). Proprio per quanto riguarda quest’ultimo, in mostra è possibile ammirare un suo capolavoro protofuturista, Crepuscolo, dipinto datato 1909. L’opera venne scelta dalla Sarfatti stessa come immagine di apertura dell’articolo dedicato alla prematura scomparsa dell’artista e, al di là del notevolissimo valore pittorico, offre un’interessante testimonianza dei rapidi cambiamenti che stavano avvenendo nella periferia milanese agli inizi del secolo. In questo caso specifico, Boccioni documenta la costruzione di una centrale elettrica nei sobborghi del quartiere di Porta Romana, dove egli stesso alloggiava: campagna e città si sovrappongono senza un limite definito, la strada pullula di uomini e mezzi di trasporto, eppure, all’orizzonte, il fumo grigio che esce da alcune ciminiere non riesce ad offuscare le accese sfumature, quasi bucoliche, del sole al tramonto.
Nel 1914 l’avvocato Cesare Sarfatti, marito di Margherita, ottiene la carica di consigliere comunale di Milano; questo evento, unito al sostegno alla causa interventista di cui la coppia farà mostra e alla vicinanza al mondo cattolico, determina il loro definitivo allontanamento dall’ambiente socialista. Nonostante i successi sociali e professionali, la loro esistenza è segnata da un tragico fatto: la morte, al fronte, del figlio diciassettenne Roberto (Venezia, 1900 – Col D’Echele, 1918), caduto nel corso di uno scontro sull’Altopiano dell’Asiago.

Gli anni Venti vedono Margherita nel ruolo di animatrice di un vivace salotto culturale, nella sua abitazione in Corso Venezia; alle serate partecipano numerosi intellettuali, come il “vicino di casa” Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d’Egitto, 1876 – Bellagio, 1944), galleristi, giornalisti ed esponenti del mondo politico e imprenditoriale. Sta sorgendo una nuova idea di sistema dell’arte, più moderna; la critica, attraverso le pagine dei quotidiani, guarda al “neonato” pubblico borghese, spesso gli industriali si fanno anche mecenati. In questo acceso ambiente non mancano, ovviamente, gli artisti: la maggior parte di coloro che frequentano casa Sarfatti, sebbene provenienti da diverse esperienze, sono accomunati dall’anti-avanguardismo, in favore di un ritorno, senza negare le ultime conquiste della contemporaneità, ad un linguaggio figurativo, classico e lineare. Portavoce di questo nuovo modo di intendere l’arte è l’ex futurista Mario Sironi (Sassari, 1885 – Milano, 1961), prediletto da Margherita, la quale aveva avuto modo di conoscerlo già in occasione della “Prima mostra di arte libera”; di lui, la critica apprezza soprattutto l’abilità nel trasfigurare “con schietto idealismo italico” scene di vita contemporanea in immagini dall’aura classica ed eterna. Un esempio di tali scenari di desolante, ma crescente industrializzazione, è offerto in mostra dal dipinto Paesaggio urbano, del 1924.
Insieme a Sironi trovano spazio anche Achille Funi (Ferrara, 26 febbraio 1890 – Appiano Gentile, 1972), Leonardo Dudreville (Venezia,1885– Ghiffa,1976), Anselmo Bucci (Fossombrone, 1887 – Monza, 1955), Emilio Malerba (Milano, 1880 – 1926), Pietro Marussig (Trieste, 1879 – Pavia, 1937) e Ubaldo Oppi (Bologna, 1889 – Vicenza, 1942). I sette, nel 1922, firmano il manifesto Contro tutti i ritorni in pittura, il quale, attraverso l’affermazione scritta di quei valori che già da mesi venivano discussi, sancisce la nascita ufficiale del movimento artistico di Novecento. Tale nome, apparentemente banale, esprimeva in realtà il desiderio, condiviso da tutti gli aderenti al gruppo, di dare vita ad una nuova, grande stagione artistica italiana, la quale, al pari di quella dei gloriosi secoli del Quattrocento e del Cinquecento, potesse diffondersi nel resto del mondo ed essere immediatamente identificata, senza necessità di ulteriori presentazioni.

La Sarfatti, l’anno successivo, organizza la prima esposizione del gruppo, che ha luogo presso la Galleria dell’amico Lino Pesaro (1879 – 1938), all’interno del Palazzo Poldi Pezzoli, a Milano; all’inaugurazione, la critica riesce ad ottenere un intervento di Benito Mussolini, da poco nominato Capo del Governo. Nonostante l’appoggio del premier, Novecento non si configurerà mai come vera e propria arte di stato, anche a causa della sua breve vita: dopo la partecipazione, nel 1924, alla XIV Biennale di Venezia, il movimento si scioglie e i suoi componenti proseguono le proprie ricerche su vie differenti. Accanto a Margherita, e allo stesso Mussolini, rimarrà soprattutto Sironi, che, non discostandosi da quanto affermato e teorizzato durante l’esperienza novecentista, si farà massimo interprete della nuova arte fascista, improntata alla solennità e ad una funzione educativa e didascalica.

La Sarfatti prosegue nella propria opera di ricerca e promozione di un linguaggio che diventi per eccellenza italiano e i passi successivi vengono da lei mossi, potremmo dire, dal particolare all’universale. Reduce dalla breve esperienza con il ristretto gruppo di Novecento, la critica si dedica infatti all’individuazione di tutti quegli artisti, anche appartenenti alla generazione passata, che si distinguono per uno stile improntato a “concretezza e semplicità”, che lei nomina “Novecento Italiano”. Sono molte le personalità da lei individuate: fra di esse troviamo, ad esempio, lo scapigliato Medardo Rosso (Torino, 1858 – Milano, 1928), nonché l’ormai già affermato maestro del marmo Adolfo Wildt. Di quest’ultimo sono esposti in mostra due capolavori: il ritratto scultoreo della stessa Margherita, realizzato nel 1930, e l’inquietante ritratto-maschera di Benito Mussolini, una delle molte effigi che Wildt realizzò per il duce.
Sono, questi, gli anni di massimo splendore della carriera della Sarfatti; nel 1925 viene edita a Bologna la sua opera Segni colori e luci. Note d’arte(Zanichelli), che raccoglie tutti gli scritti da lei pubblicati in precedenza; nel 1926 è la volta di Dux(Milano, Mondadori), biografia celebrativa di Mussolini, e della prima, fortunata mostra di Novecento Italiano, presso la Permanente di Milano, replicata poi nel 1929.
Ma Mussolini e le sue tendenze politiche, a cui la Sarfatti è sempre strettamente legata, stanno volgendo verso una nuova, ancora più drammatica direzione: in quello che è ormai a tutti gli effetti un clima dittatoriale, il duce decide infatti di spostare definitivamente il baricentro, non solo istituzionale, ma anche culturale, a Roma, scelta sancita dalla fondazione delle Quadriennali. Margherita viene gradualmente estromessa dalle vicende culturali e, in ogni caso, non approva le derive estremiste del governo e la sempre crescente vicinanza alla Germania di Hitler. Il culmine della crisi giunge con l’emanazione delle leggi razziali, nel 1938: nonostante sia convertita al cattolicesimo, Margherita ha origini ebraiche e non le resta dunque che abbandonare l’Italia. Ripara in Sud America, dove vivrà, negli anni successivi, fra Uruguay e Argentina, per poi fare ritorno in Italia solo a guerra conclusa. Trascorrerà infine gli ultimi anni della propria vita a Cavallasca, nei pressi di Como, dove si spegne nel 1961.
La mostra in questione, di cui si è cercato di rendere conto nel presente articolo, è assai interessante e, nonostante le ridotte dimensioni, presenta una complessità non indifferente. I livelli di lettura sono infatti molteplici, così come gli spunti che offre, e, per questi motivi, riteniamo che per apprezzare al meglio l’esposizione sia consigliabile avere qualche conoscenza di base sulle vicende artistiche e storiche che hanno interessato lo scorso secolo. I due “macrotemi” che vi vengono trattati, ovvero le vicende del gruppo di Novecento e il personaggio di Margherita Sarfatti, sono spesso oggetto di confusione o banalizzazioni: per quanto si tratti di questioni diffusamente conosciute, infatti, raramente vengono approfondite in modo adeguato e con la dovuta attenzione. Il movimento di Novecento viene generalmente incluso fra le tendenze al ritorno al figurativismo che hanno interessato gli anni successivi all’exploit delle avanguardie, mentre per quanto riguarda la Sarfatti, la sua figura, come già accennato all’inizio, viene usualmente relegata alla sola attività critica degli anni Venti e al controverso rapporto con Mussolini. Questa mostra costituisce quindi un’occasione fondamentale per approfondire la conoscenza di questo interessante, sicuramente controverso personaggio e la speranza è che in futuro si spendano altre energie per favorire una riscoperta critica e obiettiva delle numerose figure dimenticate, soprattutto quelle femminili, che hanno contribuito all’evolversi del panorama culturale dello scorso secolo.
Chiara Franchi
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