Al primo piano della Galleria d’Arte Moderna di Milano, fresca di restauro e di riallestimento, si celebra proprio in queste settimane un’importante ricorrenza: il centenario della scomparsa dell’artista divisionista Angelo Morbelli (Alessandria, 1853 – Milano, 1919). L’occasione per ricordare questo avvenimento è offerta dalla mostra “Morbelli 1853 – 1919”, una piccola ma significativa monografica visitabile fino al prossimo 16 giugno, che, mediante un itinerario articolato in sei sale, permette di ripercorrere le tappe principali della carriera del pittore, piemontese di origine ma milanese di adozione. L’esposizione è a cura di Paola Zatti, con la collaborazione di Alessandro Oldani, Giovanna Ginex e Aurora Scotti, e, oltre a vantare prestigiosi prestiti sia italiani, sia internazionali, porta all’attenzione del panorama milanese la figura e la produzione dell’artista, a distanza di ben settant’anni dall’ultima mostra a lui dedicata.
Nella città meneghina Morbelli giunge nel 1867, appena adolescente, per iscriversi ai corsi dell’Accademia di Brera. Il suo destino è comune a quello di altri artisti esordienti che, di lì ad una decina di anni, saranno annoverati fra i massimi esponenti della pittura italiana in Europa: Giovanni Segantini (Arco, 1858 – Monte Schafberg, 1899), Gaetano Previati (Ferrara, 1852 – Lavagna, 1920), Emilio Longoni (Barlassina, 1859 – Milano, 1932), Giuseppe Pellizza da Volpedo (Volpedo, 1868 – 1907). Ciò che accomuna queste notevoli personalità è l’amicizia con Vittore Grubicy de Dragon (Milano, 1851 – Milano, 1920), giovane collezionista e “talent scout” che, nel 1876, proprio a Milano aprirà insieme al fratello Alberto (Milano, 1852 – Laglio, 1922) la Galleria Grubicy, destinata a divenire uno dei punti nevralgici della promozione europea degli artisti di nuova generazione.
Il linguaggio pittorico dal quale gli studenti di Brera prendevano le mosse, in quegli anni, si rifaceva a due tendenze per certi versi opposte: da una parte continuava ad esercitare un non trascurabile influsso la tradizione verista e scapigliata, ravvisabile, soprattutto sul piano tecnico, nella luminosità diffusa e nel dissolversi delle forme sulla tela; dall’altra, tuttavia, i soggetti più frequenti si rifacevano alla grande tradizione romantica e risorgimentale, ancora ben presente in ambito accademico, dove ancora perduravano gli insegnamenti dell’ormai anziano Francesco Hayez (Venezia, 1791 – Milano, 1882).
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È in questo particolare contesto che si colloca l’esordio di Morbelli, documentato nella prima sala dell’esposizione: nel 1880, la sua opera Goethe morente, in occasione di una mostra studentesca, lo rende noto al pubblico e alla critica e ciò, come era avvenuto l’anno precedente con Segantini e il suo Coro di Sant’Antonio, porterà l’aspirante pittore a firmare un contratto con la Galleria Grubicy, alla quale resterà legato pressoché fino alla fine del secolo.
A partire dai primi anni Ottanta, gli ex compagni di Accademia, ora “colleghi” presso la Galleria, prendono strade differenti: Morbelli decide, come Previati, di restare a Milano, mentre Segantini si trasferisce in Brianza, dove nel giro di due anni viene raggiunto da Emilio Longoni.
Complice anche la sapiente regia dei fratelli Grubicy, che dalla loro base operativa di Milano tengono ben vivi i rapporti commerciali con la nuova clientela borghese, durante gli anni Ottanta dell’Ottocento si assiste ad un intensificarsi della produzione pittorica. La varietà dei percorsi intrapresi dagli artisti e delle loro scelte di vita non riesce tuttavia a negare quel substrato comune dal quale essi prendono le mosse e che, più o meno inconsciamente, continuerà ad influenzare tutta la loro carriera. Questo fenomeno si manifesta, ad esempio, nella omogeneità delle tematiche trattate ed interessa da vicino, naturalmente, anche lo stesso Morbelli.
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Un genere particolarmente praticato dai protetti di Grubicy è quello che riguarda le ambientazioni bucoliche: se il primo nome che corre alla mente è ancora una volta quello di Segantini, con i suoi paesaggi della Brianza e le sue scene di vita contadina, l’esposizione alla GAM ci ricorda che Morbelli, nonostante l’attività prettamente cittadina, possedeva una villa immersa nel verde della Colma di Rosignano, sulle colline del Monferrato, e che tale località divenne il soggetto di numerosi suoi dipinti. L’artista ebbe tuttavia modo di indagare da vicino anche gli scenari urbani, in quegli anni in piena trasformazione, sull’onda della rivoluzione industriale; ne è un esempio l’opera La Stazione Centrale di Milano, realizzata fra il 1887 e il 1889, che documenta la nuovissima stazione milanese (demolita nel 1931) sorta nell’attuale Piazza Repubblica, uno dei primi edifici cittadini eretti in ferro e vetro, secondo le più avanzate tecnologie costruttive.
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Un altro tema comune a Morbelli e ai compagni è quello, assai vasto, che riguarda l’indagine della donna: nelle opere presenti nella sezione della mostra ad essa dedicata, vediamo affiorare in particolar modo due tipologie di figure femminili, fra di loro antitetiche: da una parte la madre, con tutti i suoi sottintesi e rimandi alla sacralità e alla religiosità, dall’altra la prostituta. Sono gli archetipi che di lì a qualche anno popoleranno molte delle opere letterarie decadentiste, ma negli anni Ottanta dell’Ottocento esse risultano ancora sospese fra il linguaggio verista e una leggera eco simbolista, che comincia proprio in questi anni ad affacciarsi alla produzione pittorica.
![Figura 4[283].JPG](https://letterarti.files.wordpress.com/2019/05/figura-4283.jpg?w=736)
Tuttavia, ciò per cui Morbelli è passato alla storia riguarda una serie di dipinti – esposti in una sezione dedicata della mostra – alla quale egli si dedicherà per tutto il corso della sua carriera, dagli inizi degli anni Ottanta alla morte, e che gli varrà il soprannome di “pittore dei vecchioni”. I “vecchi” a cui la vivace espressione fa riferimento sono gli ospiti del Pio Albergo Trivulzio di Milano, ai quali Morbelli, dopo aver abbracciato, come molti colleghi, la causa del verismo sociale, dirige la propria attenzione.
Il Pio Albergo Trivulzio – istituto tuttora esistente, inglobato oggi nell’“Azienda di servizi alla persona Istituti Milanesi Martinitt e Stelline e Pio Albergo Trivulzio” – era nato nella seconda metà del Settecento per volontà del principe Antonio Tolomeo Gallio Trivulzio (Milano, 1692 –1767), nell’alveo del riformismo illuminato promosso dall’Impero Austroungarico. Il suo scopo era quello di offrire un luogo di accoglienza e cura agli anziani meno abbienti della città di Milano e ciò che Morbelli documenta e scandisce nelle sue tele sono proprio i momenti vissuti dagli ospiti, sia per quanto riguarda la quotidianità – con le scene dei pasti nel refettorio, ad esempio – sia in occasioni di particolare importanza, come in Giorno di festa al Pio Albergo Trivulzio, datato 1892. Nel dipinto, come in molti altri della stessa serie, protagonista è il grande salone del Pio Albergo, con le sue lunghe file di panche foderate di cuscini e le pareti color ocra, sulle quali si riflette la luce del sole filtrata dalle finestre. In questo caso, l’ambiente è popolato da pochi anziani intenti a sonnecchiare e appare molto più spoglio di altre opere altrettanto emblematiche, come in Giorni … ultimi!, nella quale la sala, ripresa da un’angolazione più ampia che permette di scorgere il soffitto a travi e la stufa addossata alla parete di fondo, appare affollata di uomini. Giorno di festa al Pio Albergo Trivulzio, nel 1900, varrà all’artista due fra i massimi riconoscimenti: la medaglia d’oro all’Esposizione Universale di Parigi e il conferimento della Legion d’Onore, la più alta onorificenza francese.
Iniziato da Vittore Grubicy alle nuove teorie del colore e della percezione ottica, come i suoi colleghi della Galleria, Morbelli nel 1891 apre il nuovo decennio con l’esposizione alla Triennale di Brera delle opere Parlatorio del Pio Albergo Trivulzio e Alba Barcellona, le quali, insieme alle Due madri di Segantini e Maternità di Previati sono da annoverare fra i primissimi esempi di applicazione del divisionismo. Lo studio della nuova tecnica, alla quale Morbelli si dedica in modo scientifico mediante la lettura dei più recenti trattati di fisica ottica, apre all’artista la possibilità di effettuare nuove sperimentazioni all’aperto, sui paesaggi naturali offerti dalle colline del Monferrato.
![Figura 5[284].JPG](https://letterarti.files.wordpress.com/2019/05/figura-5284.jpg?w=736)
Parallelamente, il pittore prosegue nella propria “missione” di denuncia delle fasce più deboli della società, con una dedizione tale da decidere, nel 1901, di trasferire il proprio atelier all’interno del Pio Albergo Trivuzlio, per poter cogliere i propri soggetti prediletti ancora più da vicino e in modo sistematico. Si situano in questa tarda fase della carriera dell’artista alcuni capolavori, come il dipinto Sogno e realtà, massima sintesi di tecnica divisionista e tematica simbolista, espressa nella riscoperta forma del trittico.
Da un lato, la mostra di cui si è cercato di rendere conto in questo articolo è stata indubbiamente rivelatrice: essa, banalmente, ha portato all’attenzione del grande pubblico, anche quello non specializzato che sempre più spesso – e per fortuna – affolla le sale dei musei, l’opera di un artista che è forse più noto “per sentito dire”, ma ancora poco emblematico, soprattutto se letto alla luce di quella che fu la più vasta e diversificata avventura divisionista. Nonostante, infatti, il grande successo di pubblico e di critica – ricordiamo di nuovo il trionfo all’Esposizione Universale di Parigi e il conferimento della Legion d’Onore – del quale godette in vita Morbelli, la sua popolarità è andata scemando nel corso dei decenni successivi alla sua morte e il suo nome è scivolato un poco nelle retrovie. Certo, la sua pittura manca della potenza di colore e della grandiosità delle tele di Segantini, non è “fatata” come le delicate opere di Previati e i “vecchioni” hanno forse meno impatto rispetto ai battaglieri proletari in rivolta raccontati da Pellizza. Eppure, la mostra alla GAM ci racconta di un percorso unico, quello di un artista che riuscì a comprendere e fissare in modo così esatto gli avvenimenti e i mutamenti dei quali fu testimone da riuscire a renderli quasi iconici, nonostante l’apparente modestia dei suoi soggetti, privi di eroismo ma dotati di una dignità assai concreta e umana.
Raccontare la vita e l’opera di un artista senza banalizzarle, rendere conto del suo iter creativo, dall’esordio all’apice della carriera, non è mai una cosa semplice e, forse per evitare il pericolo di rendere una mostra uno sterile elenco di fatti, date e titoli, da qualche tempo a questa parte viene privilegiata la narrazione tematica, a discapito di quella cronologica. È stata operata la medesima scelta anche per questa mostra: come spesso accade, la linearità del racconto risulta quindi un poco frammentata, mentre le tematiche generali alle quali le singole opere sono ricondotte vengono più che altro accennate. Si è cercato in questo articolo di ricomporre i frammenti e di trovare un compromesso fra i due modi di operare: ecco perchè l’andamento “per sezioni” è diluito in una panoramica più generica della biografia di Morbelli, concentrata in particolare sul ruolo determinante – ma spesso trascurato – avuto dalla Galleria Grubicy nel costituirsi del linguaggio divisionista e simbolista.
Infine, un aspetto interessante dell’allestimento sono i richiami ad altri artisti coevi a Morbelli, tutti ben rappresentati all’interno della GAM, che invitano quindi l’osservatore a non fermarsi alla sola esposizione, ma ad approfondire il proprio percorso lungo le numerose e magnifiche sale della Galleria.
Chiara Franchi
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