Preraffaelliti, Amore e Desiderio. Una Mostra per far conoscere i Rivoluzionari della pittura.

I Preraffaelliti non avrebbero potuto essere che figli dell’Ottocento, di quell’Ottocento romantico e già (un po’) decadente che cercava nel passato un’alternativa, più che una semplice evasione colta, alle dinamiche frenetiche e all’imbarbarimento dei costumi dell’epoca contemporanea. Proprio perché l’Ottocento è stato anche un secolo pieno di sfaccettature, è bene ricordare che i Preraffaelliti non hanno goduto di quella notorietà e di quell’interessamento che, nel bene e nel male, da parte della critica, ha condotto un altro movimento, quello degli Impressionisti, fino alla fama pop-culturale dei giorni nostri. Quella che è stata inaugurata il 19 giugno scorso a Palazzo Reale-Milano, in una sala conferenze gremita di persone e alla presenza delle massime autorità scientifiche sull’argomento, infatti, è soltanto l’ultima di un esiguo numero di mostre che sono state dedicate, dalla fine degli anni Ottanta, in Italia, a questa confraternita di pittori.

Effettivamente, spiegano Carol Jacobi, curatrice della mostra e Andrea Schlieker, rappresentante della Tate Gallery di Londra, la loro era proprio una confraternita ispirata alle corporazioni medievali degli artigiani. Addirittura, all’inizio fu una società segreta con il suo acronimo (PRB, Pre-Raphaelite Brotherhood) e il proprio manifesto; in anticipo sui Futuristi. Di questo non c’è da sorprendersi visto che il padre di Dante Gabriel Rossetti, figura più importante di questo nuovo movimento artistico, era un italiano, poeta e militante carbonaro che aveva dovuto riparare nella Gran Bretagna della futura regina Vittoria e lì aveva cominciato ad insegnare letteratura italiana al King’s College. Cosa pertanto non meno sorprendente è lo stretto legame che questi pittori ebbero con l’Italia e la poesia; Rossetti fu anche traduttore e a sua volta compositore di liriche stilnoviste, e la narrativa, dal ciclo bretone a Shakespeare, esercitò altrettanto fascino da riversarsi nella loro produzione.

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Fig. 1 Da sinistra a destra, dall’alto in basso: Dante Gabriel Rossetti (1828-1882), John Everet Millais (1829-1896), William Holman Hunt (1827-1910), Edward Coley Burne-Jones (1833-1898) fotografato insieme a William Morris (1834-1896), Ford Madox Brown (1821-1893), John William Waterhouse (1849-1917).

Nel 1848, l’anno delle grandi rivoluzioni europee, quelli che sarebbero diventati i Preraffaeliti erano all’incirca ventenni e, per questo motivo, la loro voglia di cambiare il mondo in cui vivevano era incontenibile. Così, in primo luogo, si rivoltarono contro quell’accademismo – al tempo incarnato dalla figura di Joshua Reynolds, pittore di corte – i cui esponenti, dacché si ritenevano allievi indiretti di Raffaello Sanzio, se n’erano dimostrati piuttosto gli ultimi epigoni. Ecco spiegata l’origine del nome Preraffaelliti, non già in polemica con la pittura del maestro italiano, che pure avrebbe influito sulla loro produzione più tarda, ma in opposizione a quanti nell’Ottocento lo copiavano e lo eleggevano ad unico modello legittimo di pittura.

Domenico Piraina, direttore di Palazzo Reale, sostiene di avere avuto buoni motivi per aver voluto che questa mostra seguisse quella di Ingres; da una parte colui che meglio seppe interpretare la cultura raffaellesca, dall’altra coloro i quali scelsero di intraprendere altre strade. E tutti quanti, ad ogni modo, legati da quel filo conduttore che è il rapporto con l’Italia, sempre un po’ chiamato a motivo, non del tutto giustificato, di autocelebrazione. Ciononostante è un fatto che i Preraffaelliti trovarono ispirazione nei maestri del Medioevo e del Rinascimento (storiograficamente, il secondo viene anche inteso come la conclusione del primo), che Firenze diventò meta turistica prediletta della upper class britannica, affamata di un provvidenziale collezionismo e che in questo modo nacquero i nuclei d’arte italiana della National Gallery e della successiva Tate. Soprattutto le pale d’altare tardogotiche, nelle quali il compito di portare luce è affidato sia alla colorazione delle figure sia alla doratura dei fondi, diventarono punto di riferimento per gli studi dei Preraffaelliti. Sono stati citati non per caso gli Impressionisti; se nei loro quadri gli effetti luminosi volevano essere fermati come in un’istantanea, per i Preraffaelliti erano motivo di un lavorio lento e cogitabondo che Piraina inserisce nel clima d’incipiente positivismo il quale pervadeva tutta l’età vittoriana. Sempre divisa tra i cosiddetti revival e l’incedere del progresso industriale. Dove il neogotico del palazzo di Westminster faceva da contraltare all’innalzarsi di ciminiere sopra i tetti delle chiese e delle abitazioni, e all’introduzione dei primi oggetti frutto dell’impiego dei nuovi processi meccanizzati rispondeva William Morris, seguace della corrente preraffaellita, con il movimento Arts and Crafts per la salvaguardia dell’artigianato. Per questo motivo, seppure da una parte volessero tornare alle cortesie medievali, i Preraffaelliti sapevano che la pittura poteva essere uno strumento di indagine scientifica, “lenticolare”. Da qui, l’invito della curatela a soffermarsi per osservare i dettagli racchiusi nei dipinti.

Allo stesso tempo, però, i Preraffaelliti si opposero alla morale della nuova società borghese, attaccandone l’estetica del capitalismo e interessandosi alle posizioni di quanti scrutavano la faccia nascosta del lavoro. Nei loro dipinti, con grande sdegno dei contemporanei, fra questi Charles Dickens, la raffigurazione di Gesù nella bottega del padre divenne occasione per ritrarre gli artigiani logorati dalla fatica; e che proprio il maggiore esponente della letteratura impegnata sui temi sociali nell’età vittoriana se ne risentisse dimostra come fondere religione, realismo e attivismo politico non fosse affatto concepibile. Fra le opere in mostra c’è n’è un’altra, realizzata da Ford Madox Brown, nel 1856, che partendo dall’immagine di Cristo, stavolta raffigurato nell’episodio della lavanda dei piedi, sposa una visione nobilitante del lavoro manuale e tesa ad umanizzare e tradurre in un contesto più laico il messaggio evangelico.

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Fig. 2 Ford Madox Brown, Gesù lava i piedi di Pietro, 1852-56, olio su tela, cm 116.8×133.3, Tate Gallery, Londra.

Muovendo da queste premesse e come risultato di una collaborazione fra musei tanto virtuosa quanto forse non pienamente sfruttata, Milano raccoglie e, soprattutto, accoglie diciotto artisti che avevano gravitato intorno a queste nuove suggestioni estetiche. Nel vestibolo d’ingresso i visitatori possono leggere e comparare le loro biografie, dopodiché inizia la visita vera e propria. Il criterio espositivo adottato è ancora una volta quello tematico, e ogni sala, contraddistinta da un colore diverso, è accompagnata da un conciso pannello esplicativo che richiama nello sfondo gli eleganti motivi arborei delle tappezzerie Arts and Crafts. A sottolineare il legame che la confraternita ebbe con il passato, in una commistione fra iconografia del Medioevo e un purismo quasi postmoderno, il progetto museografico divide le stanze che ospitano più di una tematica per mezzo di pareti nelle quali si aprono passaggi a sesto ribassato, con piccoli rosoni quadrilobati negli angoli dei rinfianchi e talora affiancati da finestre ogivali che proiettano sul pavimento l’ombra dei loro disegni ramificati.

Come già successo in altre occasioni, il filo conduttore è snodato su un doppio binario: quello dei dipinti, in buona parte dedicati alle donne, reali o idealizzate, storiche o contemporanee, ritratte da questi pittori e quello di un ampio corpus di incisioni, disegni e schizzi preparatori. Protagoniste indiscusse della mostra sono, in una sala verde smeraldo, l’Ophelia di John Everet Millais (1852) che viene assunta a immagine della condizione femminile nell’Ottocento, e più avanti – ma anticipata da una riproduzione su materiale plastico, di dubbio valore anche solo decorativo – la Monna Vanna di Dante Gabriel Rossetti (1866), autore di un altro bellissimo quadro in esposizione, ovvero Beata Beatrix (1872). La protagonista di questa tela è una donna sensuale, raffigurata in un contesto silvestre ricco di allegorie mistico-religiose, memento mori e richiami alla speranza salvifica dell’Alighieri che la sospendono fra perdizione terrena, ovvero l’abuso di laudano e la sua condizione di mezzo per raggiungere la beatitudine dell’anima.

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Fig. 3 A sinistra: Dante Gabriel Rossetti, Monna Vanna, 1866, olio su tela, cm 88.9×86.4, Tate Gallery, Londra. Al centro: John Everet Millais, Ophelia, 1851-52, olio su tela, cm 76.2×111.8, Tate Gallery, Londra. A destra: Dante Gabriel Rossetti, Beata Beatrix, 1864-72, olio su tela, cm 86,4×66, Tate Gallery, Londra.

Prendete vostro figlio, Signore, dipinto incompiuto al quale Ford Madox Brown lavora a più riprese negli anni Cinquanta dell’Ottocento, traspone l’iconografia della Madonna col bambino nella contemporaneità del pittore ma, sostanzialmente, a prima vista rappresenta una ragazza inglese nell’atto di porgere un neonato al padre di quest’ultimo che lo spettatore vede soltanto perché riflesso in uno specchio, posizionato come un’aureola dietro la testa della giovane. La lezione di scrittura di Kit, realizzato da Robert Braithwaite Martineau nel 1852, è il ritratto di un ragazzo e una ragazza, uno chino sul quaderno ad esercitarsi nella calligrafia, l’altra intenta a cucire diligentemente, in un ambiente simile alla bottega di un antiquario dove riconosciamo facilmente un’armatura e i disegni per una vetrata medievale. Il tempio dell’Amore, una delle ultime opere che s’incontrano, insieme a Il cerchio magico di John William Waterhouse (1886), è una tela monumentale di Edward Coley Burne-Jones, realizzata nel 1872 circa, e viene chiamata per esemplificare la passione che i Preraffaelliti, e in particolare questo pittore, nutrivano per gli artisti del Rinascimento italiano, da Botticelli a Michelangelo, da Ghirlandaio a, come in questo caso, Andra Mantegna.

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Fig. 4 Robert Braithwaite Martineau, La lezione di scrittura di kit, 1852, olio su tela, cm 52.1×70.5, Tate Gallery, Londra.

I più accorti noteranno che anche stavolta non mancano i grandi assenti, da Ecce Ancilla Domini (1850) di Rossetti, il quale risulta comunque l’artista più presente di questa rassegna, parlando solo dei quadri dipinti, al Lavoro (1865) di Madox Brown fino alla Scala d’oro (1880) di Burne-Jones. Ne risulta un’esposizione disomogenea in alcuni punti, attraente ma in qualche modo simile a quelle trattazioni che occupandosi di argomenti vasti, e volendoli raccontare in ogni loro possibile sfaccettatura, riescono maldestramente a fare i conti con lo spazio a disposizione e il bisogno, anzi la necessità di selezionare in un modo o nell’atro il materiale raccolto. E questo non può che andare a scapito dell’ennesima iniziativa lodevole, riuscita nell’intento di avere portato una volta in più artisti scarsamente presenti all’attenzione della gente alle nostre latitudini, ma incapace di superare quelle logiche imprenditoriali che negli ultimi tempi hanno trasformato i nostri musei da luoghi in cui si crea un sapere sempre nuovo a macchine produttrici dell’utile monetario.

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Fig. 5 A destra: Ford Madox Brown, Prendete vostro figlio, Signore, 1851-57, olio su tela, cm 70.5×38.1, Tate Gallery, Londra. A sinistra: Edward Coley Burne-Jones, Il tempio dell’Amore, 1872, olio su tela, cm 213.4×92.7, Tate Gallery, Londra.

Preraffaelliti, amore e desiderio sarà in scena fino al 6 ottobre 2019.

Niccolò Iacometti

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