Avevo vent’anni.
Questo l’incipit diretto e autobiograficamente veritiero della raccolta di riflessioni che Paul Nizan partorisce durante la sua rotta su Aden, porto nel Mar Rosso, allora sotto il controllo britannico. È il 1926 e il poco più che ventunenne Nizan studia filosofia con Jean Paul Sartre all’École normale supérieure. Sono anni travagliati da crisi esistenzialiste, da una costante indolenza verso l’ambiente intellettuale e universitario parigino e dalla ricerca di un senso di appartenenza anche e soprattutto politica.
Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.
E infatti la sferzata arriva subito, sulla stessa riga e racchiusa fra due punti che non fanno altro che rafforzarne perentorietà. Nizan è tagliente e ci sbatte immediatamente sul naso la sua rabbia e la sua insoddisfazione. Veniamo distolti bruscamente da quello che, a prima vista, avrebbe potuto sembrarci come l’inizio di un racconto in cui la giovinezza appare sotto una luce eroica. Non ci sono spiragli attraverso cui possa filtrare la particolare aura agrodolce, sognante e spavalda che solitamente sembra avvolgere i viaggi più o meno avventurosi di tutti quei personaggi letterari incastrati fra l’adolescenza e l’età adulta. Si tratta di un’età in cui, per citare il film premio Oscar di Gabriele Salvadores, Mediterraneo (1991), «non hai ancora deciso se mettere su famiglia o perderti per il mondo».

Eppure non è questo interrogativo ad attanagliare l’animo dell’autore, che, se per quanto riguarda la scelta di continuare a spostarsi e girovagare viene via via maturando idee e consapevolezza, si dimostra invece fin dall’inizio fermo nel suo disprezzo per il «mettere su famiglia». Gli obblighi e le convenzioni sociali che derivano e che sono racchiuse in questa espressione non gli sembrano altro che insopportabili imposizioni borghesi, non indispensabili quindi alla totale realizzazione personale di ogni individuo, contrariamente a quanto il costume imperante vorrebbe farci credere.
Ogni cosa rappresenta una minaccia per il giovane: l’amore, le idee, la perdita della famiglia, l’ingresso fra i grandi. È duro imparare la propria parte nel mondo […].
In noi vi sono divisioni, alienazioni, conflitti e concordati. Possono ben dirci che questa è l’età delle coscienze inquiete […].
[D]overi, famiglia, patria, rispetti, denaro. Troppi nemici per le nostre forze […].
Ecco qua: stiamo per entrare in una prigione di cui non arriviamo a immaginare il regime in tutti i suoi particolari […]. [C]i incombono minacciose menomazioni e costrizioni effettive che noi non sappiamo individuare […].
Fin dalla facile infanzia ci vanno addestrando a una docile schiavitù; nessuna possibilità perciò di scovare dentro di noi le sorgenti della speranza […]. Nessuna possibilità di capire che soffriamo dell’inazione dei nostri bisogni umani […].
È la descrizione di un vero e proprio plagio delle coscienze e Nizan sembra più che mai deciso a spezzare qualsiasi legame con questo stile di vita a cui si sente atrocemente destinato fin dalla nascita. Ma come fare? La risposta ci viene forse suggerita da un passo tanto confuso quanto suggestivo, dove l’insaziabilità e il desiderio di evasione sembrano condurre lo scrittore e noi con lui verso l’unica soluzione praticabile:
È duro essere l’ago di una bussola impazzita per un uragano o un’aurora boreale, roteante verso tutti i punti cardinali, in un’ombra trafitta da suoni, fuochi, grida, in cui la pazzia fa la vezzosa mostrando il suo bel viso agli angoli delle strade.
Viaggiare. Viaggiare e assecondare quella che sembra essere una spinta vitale troppo urgente e violenta per poter sopportare un solo altro attimo di inerzia e piattume. Lasciare Parigi, allontanarsi fisicamente dalla cultura accademica francese e dalla società borghese. Partire per Aden è «recuperare una connessione sentimentale con la vita»[1] in un tentativo simile a quello che, non più nel primo bensì nel secondo dopoguerra, avrebbero cercato di compiere anche gli scrittori della beat generation.

Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Gregory Corso e William Burroughs avrebbero sentito, negli anni Cinquanta dello stesso secolo, la medesima pesantezza avvertita precedentemente da Nizan. A fornire la solida base per le sbarre della prigione sono questa volta l’american way of life, uno stile di vita controllato, medio, privo di sconvolgimenti e perciò molto simile alla condizione di inerzia lamentata dall’autore francese e l’ambiente accademico della Columbia University, obsoleto e di una sterile rigidità. I beat vogliono sfuggire a questo scenario a loro giudizio desolante e scelgono così di condurre esistenze sregolate, al limite, itineranti alla ricerca di una verità preclusa a tutti coloro che invece si accontentano di attenersi a un copione già scritto. Kerouac e i suoi compagni vogliono sviscerare ogni aspetto del mondo circostante. Oggetto della loro ricerca è la spiegazione più profonda del senso della vita. Si tratta di una conoscenza che, una volta acquisita, libera da qualsiasi credenza e costrizione e non differente è la libertà di cui è affamato Paul Nizan.

Ma la ricerca del nostro autore francese non va a buon fine. Durante le lunghe ore di viaggio sulla nave diretta al porto sul Mar Rosso e, successivamente, una volta sbarcatovi e osservati i ritmi di vita lì condotti, Nizan non può fare a meno di incorrere in un grande paradosso, lo stesso che ha portato la maggior parte dei beat a morire prematuramente e a consumarsi in una lenta dissoluzione:
Viaggiatori siete sempre più vuoti e tremanti, malati dell’agitazione del vostro malanno! Avrete buon gioco a rassicurarvi ripetendo che siete liberi, che questo almeno non vi sarà tolto. Ma la libertà del mare e delle vie è assolutamente immaginaria: all’inizio dei viaggi assomiglia alla libertà, perché è messa a confronto con l’orrenda schiavitù della vita, che precedeva il mare. Ma ecco a cosa si riduce: alla possibilità di fare certi movimenti fisici […]. Le vie di terra e dei mari hanno scarsa densità di abitanti e quelli che ci vivono non sono gente che ordini o proibisca questo o quel movimento […]. Questi atti, li chiamereste libertà […]?
Fuggire, fuggire sempre, per non pensare più che siete mutilati?
È la maturazione dell’idea sul perdersi per il mondo, è l’opinione che Nizan sviluppa e che non si rivela purtroppo essere positiva. Non esistono infatti illuminazioni che colpiscano chiunque si diriga alla ventura, non è il semplice spostamento fisico a dover essere identificato con la libertà. Di quest’ultima l’autore dà infatti tutt’altra definizione: si tratta di qualcosa che ha a che fare con il nostro animo e con il nostro equilibrio mentale più che con l’ambiente esterno in cui scegliamo di stabilirci. Cambiando semplicemente paese o regione si ottiene ben poco. Aden infatti non si rivela altro che una colonia britannica dove, pur con qualche variazione, l’organizzazione sociale non è dissimile da quella francese. A questa scoperta non viene ovviamente fatta mancare la denuncia del sistema di sfruttamento coloniale, ma anche nell’affrontare un tema così scottante e complesso, Aden Arabia non riesce a liberarsi da un senso di precarietà e di insoddisfazione per il nulla in cui sembra essersi risolta l’avventura del viaggio. La conclusione a cui infatti lo scrittore giunge non è dissimile da quella che già saggiamente Seneca aveva esposto nel De tranquillitate animi:
Si intraprende un viaggio dietro l’altro e si alternano spettacoli a spettacoli. Come dice Lucrezio, in questo modo ciascuno fugge sempre a se stesso. Ma a che gli serve, se non riesce a sfuggirsi? Sempre si segue e si incalza da solo, compagno di viaggio insopportabile. Dunque dobbiamo sapere che non è dei luoghi la colpa per cui ci tormentiamo, ma nostra […].
Il tentativo di romanticizzare la strada e il senso di libertà che sfuggire ai nostri obblighi quotidiani ci procura si rivela fallimentare. In questo diario di viaggio la fragilità della giovinezza appare insuperabile, nessun rimedio può alleviarla. Voltare risolutamente le spalle a quella che riteniamo essere la fonte delle nostre preoccupazioni ci porta solamente un breve sollievo. Una volta infatti cercata una via di fuga altrove, non potremo comunque evitare di trovarci, lì, proprio in quell’altrove dai contorni un tempo fiabeschi, chiusi in un’altra gabbia, schiacciati da altre incombenze.

È questo il messaggio che Nizan, servendosi di una prosa filosofica e spesso oscura, vuole comunicarci: non esistono scappatoie, il sentiero per la tanto agognata libertà è impervio e gli ostacoli sono nel nostro stesso animo. Non ci sono certezze, non c’è una ricetta da seguire scrupolosamente. Possiamo solo imparare a convivere con la precarietà che spesso sentiamo intorno e dentro di noi e perseverare nel costante sforzo di poter un giorno sentirci stabili sulla «cima» di noi stessi, dopo esserci inerpicati per il ripido sentiero scosceso che ci attraversa.
Federica Rossi
[1] P. Nizan, Aden Arabia, Edizioni dell’asino, Roma 2019.
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