Giorgio De Chirico a Milano: la grande epopea del “pictor optimus”

A distanza di quasi cinquant’anni dall’ultima mostra a lui dedicata, Giorgio De Chirico (Volos, 1888 – Roma, 1978) torna a Milano, con una vasta mostra antologica allestista nelle sale di Palazzo Reale fino al prossimo 19 gennaio 2020. Era il 1970, infatti, quando al maestro, ormai ottantenne, venne dedicata la prima, fondamentale – sebbene tarda – personale, proprio all’interno del prestigioso polo espositivo lombardo, che ospita per questa nuova occasione quasi un centinaio di dipinti. Le opere sono state riunite dal curatore, Luca Massimo Barbero, grazie alla cooperazione con importanti istituzioni italiane e internazionali, come la Tate Modern di Londra, Il Centre Pompidou di Parigi, la Peggy Guggenheim Collection di Venezia, oltre ai numerosi musei milanesi, fra i quali ricordiamo il Museo del Novecento, Casa Boschi di Stefano e la Pinacoteca di Brera.
Raccontare la vita di un artista, trovare un denominatore comune fra le sue vicissitudini umane, il percorso creativo e l’eventuale impegno teorico e socio-politico non è certo un’impresa semplice; negli ultimi anni, quantomeno nel panorama milanese, abbiamo assistito all’alternarsi di due diverse metodologie: il procedere in senso cronologico da una parte e, dall’altra, l’assai più battuta via che vede il raggruppamento delle opere che compongono la produzione dell’artista secondo tematiche comuni, rendendo in questo modo la fruizione indubbiamente meno impegnativa.
L’approccio scelto per narrare De Chirico raggiunge un compromesso fra questi due metodi, offrendo una chiave di lettura per certi versi inedita, che unisce l’analisi della vita dell’artista, effettuata talvolta con estrema precisione storica, quasi anno per anno, alla individuazione dei contenuti delle opere, sulle suggestioni e le tematiche che compongono il complesso immaginario dechirichiano. L’intento, dichiarato dallo stesso curatore, non è solo quello di portare De Chirico all’attenzione e alla conoscenza del grande pubblico, ma, soprattutto, quello di smontare i grandi falsi miti ai quali egli viene spesso accostato, in particolare per ciò che riguarda il suo ruolo come fondatore della pittura Metafisica e il suo presunto rapporto conflittuale con le avanguardie, in favore di un’arte più rigorosa e classicista.

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Fig.1 Giorgio De Chirico, La partenza degli Argonauti, 1909, collezione privata.

La mostra si apre con una sala che illustra, sia attraverso gli esaurienti pannelli descrittivi, sia tramite le opere lì collocate, l’infanzia e la giovinezza di De Chirico, le molteplici suggestioni e le fonti visive da lui assorbite durante gli anni della formazione, avvenuta, per i primi diciassette anni della sua vita, in Grecia, dove i genitori dell’artista, entrambi italiani, risiedevano, per poi proseguire con una breve parentesi a Firenze e completarsi, a partire dal 1909, all’Accademia di Belle Arti di Monaco.
Per rappresentare gli anni dell’ infanzia e dell’adolescenza sue e del fratello Andrea – il quale, a sua volta pittore, adotterà lo pseudonimo di Alberto Savinio (Atene, 1891 – Roma, 1952) – De Chirico è influenzato dalla mitologia classica, in particolare per ciò che riguarda le leggende ambientate in Tessaglia, la regione nella quale egli aveva trascorso la sua infanzia: la prematura scomparsa del padre, Evaristo, avvenuta nel 1906, viene quindi resa attraverso la metafora di un Centauro morente, mentre l’abbandono della Grecia dei due fratelli, alla volta dell’Italia, diviene il pretesto per raffigurare la Partenza degli argonauti, opera nella quale Giorgio identifica sé stesso e Andrea nelle figure dei Dioscuri, i gemelli Castore e Polluce. La pittura di questo periodo risente dell’influsso della cultura mitteleuropea di fine Ottocento, sospesa fra romanticismo e simbolismo; l’atmosfera onirica e fiabesca dei dipinti, in particolare, denota una certa sensibilità agli insegnamenti dello svizzero Arnold Böcklin (Basilea, 1827 – San Domenico di Fiesole, 1901), a lungo attivo a Monaco proprio sul finire del secolo; De Chirico aveva avuto modo di conoscere la sua produzione sia perché la Grecia all’epoca era un protettorato tedesco, sia perché, come ricordato sopra, avrebbe completato la propria formazione proprio nella città bavarese.

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Fig. 2 Giorgio De Chirico, L’enigma di una giornata, 1914, San Paolo del Brasile, Museo di Arte Contemporanea dell’Università di San Paolo.

Un’altra imprescindibile fonte di ispirazione, in questo periodo, è costituita dallo studio della filosofia contemporanea, con una predilezione – come accade a molti artisti dell’epoca – per le opere di Nieztsche, in particolare L’Ecce Homo (1888), che suscitano in De Chirico quel particolare senso di mistero e di impotenza di fronte ai grandi enigmi dell’umanità che troverà concretizzazione in una nuova fase creativa.
A partire dalla seconda sala della mostra inizia quindi un lungo percorso dedicato a tale, decisiva svolta, che si concretizza nella fortunata serie, una delle più celebri dell’artista, delle Piazze d’Italia.
Scaturite da una sorta di allucinazione avuta a Firenze, unita alle meditazioni sul senso di straniamento e di malinconia propri delle riflessioni su Nieztsche, le Piazze di De Chirico proiettano l’osservatore in una sorta di mondo irreale, nel quale gli elementi della quotidianità ci appaiono in una luce surreale, da universo parallelo. Lo schema compositivo ricorrente è quello dello spazio rettangolare chiuso da portici, come fosse una sorta di quinta teatrale, all’interno della quale De Chirico dispone gli oggetti più disparati, senza nessuna logica apparente. Nell’Enigma di una giornata, ad esempio in una vasta piazza circondata da una struttura ad arcate, ad una misteriosa statua voltata di spalle fanno da contraltare sul fondo una ciminiera ed una locomotiva, topos anche della pittura futurista di questi anni, mentre la presenza umana è appena accennata dalle due piccole figure in lontananza.
Nel 1917, giunto a Ferrara per prestare servizio militare insieme al fratello, De Chirico incontra Carlo Carrà, reduce dall’esperienza futurista. Sarà proprio quest’ultimo a coniare la definizione di “pittura metafisica” per descrivere il nuovo linguaggio introdotto da De Chirico, al quale lo stesso Carrà aderisce, ad indicare una forma di creazione che tenta di trasporre in immagini riconoscibili l’universo esistente al di là (“meta”) della realtà quotidiana (“fisica”), solo parzialmente intuibile dalla coscienza.

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Fig. 3 Giorgio De Chirico, La sala d’Apollo (Violon), 1920, collezione privata.

Tuttavia, proprio negli anni in cui la “scuola della metafisica” raggiunge uno straordinario successo di critica, in Italia e in Europa, De Chirico decide di allontanarsi bruscamente da tale esperienza, per inaugurare un’ulteriore fase della propria carriera, votata ad un tipo di pittura classicista e romantica, contrassegnata da uno straordinario affinamento della tecnica pittorica; non si tratta più, però, del romanticismo onirico e sognante della fase giovanile, ma le nuove opere dell’artista rimangono permeate da quel senso di mistero e di irrealtà inquietante proprio della parentesi metafisica. In mostra è possibile ammirare un vero e proprio capolavoro di questi anni, la celebre Sala di Apollo: ambientata in un interno, l’opera mostra in primo piano una testa scultorea, un violino e uno spartito – le cui note sono però impossibile da suonare – a sintetizzare una delle passioni di De Chirico, la musica, insieme al nuovo corso classicista da lui intrapreso. Nonostante l’arcaicità della composizione, l’interno risulta architettonicamente coerente con le Piazze e conserva il medesimo senso di mistero.
Come viene correttamente osservato lungo il percorso espositivo, questa nuova coesione dechirichina al “ritorno all’ordine” che interessa l’arte italiana degli anni Venti, ha dato luogo ad una serie di fraintendimenti riguardanti l’operato dell’artista. In particolare, viene solitamente enfatizzata la sua affermazione come pictor optimus, il suo impegno in favore del recupero, soprattutto dal punto di vista tecnico e operativo, dell’arte del passato, con una sorta di generalizzazione che coinvolge in tale lettura critica anche la fase metafisica, in virtù della regolarità classica e arcaica di molte Piazze italiane. Occorre, al contrario, tenere presente che, in realtà, le opere metafisiche ebbero la propria consacrazione europea in occasione del viaggio effettuato dall’artisti a Parigi nel 1911, dunque in pieno ambiente avanguardistico, che fra i primi fautori vi furono Pablo Picasso e André Breton e che gli esiti di tale linguaggio sembrano piuttosto anticipare con sorprendente esattezza la pittura surrealista.

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Fig. 4 Giorgio De Chirico, Il figliol prodigo, 1922, Milano, Museo del Novecento.

In seguito a questa ulteriore manifestazione delle proprie capacità, non scevre dal desiderio di rifuggire da omologazioni o stereotipi, De Chirico, ormai artista maturo e affermato ritorna alla metafisica, inaugurando una serie di opere che si popolano di manichini e di statue; rappresentare l’uomo non è possibile, poiché, come già spiegato sopra, la realtà metafisica si pone al di là di quella visibile e concreta, ma i manichini risentono comunque di una certa umanizzazione, negli atteggiamenti e nei gesti. Nel Figliol prodigo, del 1922, ad esempio, attraverso l’abbraccio fra il figlio-manichino e il padre, una statua abbigliata in costumi ottocenteschi, l’artista esemplifica la riconciliazione fra pittura sperimentale e classicista.

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Fig. 5 A sinistra: Giorgio De Chirico, Portrait de l’artiste par lui- même, 1911, collezione privata; a destra: Giorgio De Chirico, Autoritratto, 1924-25, collezione privata, courtesy Phillips Auctioneers Ltd.

Un filone che attraversa tutta la produzione dechirichiana è quella che riguarda l’autoritratto, genere del quale l’artista fornisce numerosi esemplari, sin dai primi anni della sua carriera, che troviamo dislocati lungo le sale della mostra, a conferma del loro costituire un fil rouge. Se nel 1912 egli si rappresenta di profilo, in atteggiamento meditativo, una sorta di protagonista del romanticismo, negli anni Venti si ritrae invece in posa rinascimentale, abbigliato secondo la moda del diciannovesimo secolo: il corpo appare curiosamente privo di colore, a suggerire la consistenza di una statua, impressione accentuata dalla straordinaria resa delle mani che richiama gli esiti della statuaria cinquecentesca. Il punto di approdo sono i cosiddetti “autoritratti barocchi” degli anni Quaranta, nei quali ci appare un De Chirico fra il narcisistico e l’ironico, abbigliato con differenti costumi di scena, in particolar modo seicenteschi.

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FIg. 6 Giorgio De Chirico, I Bagni misteriosi, 1934-35, Parma, Collezione Barilla di Arte Moderna.

Le ultime sale sono dedicate al periodo che si snoda dagli anni Cinquanta agli anni Settanta; dopo aver partecipato – osteggiato dalla critica – alle più importanti esposizioni nazionali e internazionali, presentando irriverentemente esemplari di pittura classica e barocca, l’artista torna sui passi ferraresi: realizza due copie in serie delle Muse Inquietanti, capolavoro del 1917, considerato il manifesto della Metafisica e sviluppa la serie dei Bagni misteriosi, la cui origine risale agli anni Trenta. Il tema, come accade per le Piazze d’Italia, viene ideato dall’artista a partire da una sorta di visione, avuta in infanzia, che trasforma il tipico scenario di un lido marino in un abisso misterioso e surreale, caratteristiche accentuate dall’impossibilità di scandagliare l’acqua nella quale le silenziose figure sono immerse. Nel 1973, in occasione dell’iniziativa “Contatto Arte/città”, De Chirico disegnerà una versione scultorea nei Bagni misteriosi, da collocare all’interno di Parco Sempione, a Milano, al di fuori del Palazzo della Triennale; nella sede originale è collocata oggi una copia, mentre il gruppo originale è conservato presso il Museo del Novecento.
In conclusione, l’esposizione che abbiamo provato a raccontare in questo articolo, costituisce senza dubbio un’iniziativa ben riuscita, sia dal punto di vista scientifico, sia per quanto riguarda la gradevolezza della fruizione, e ha tutte le caratteristiche di un evento alla portata del grande pubblico, senza sacrificare gli apparati didascalici, scorrevoli ma allo stesso tempo esaurienti. Anche l’allestimento risulta particolarmente gradevole, nel suo minimalismo: le pareti bianche e le luci ben diffuse permettono di immergersi nell’atmosfera silenziosa e irreale delle opere, mentre l’assenza di confini netti fra una sala e l’altra rende l’esperienza simile ad un viaggio all’interno della lunga vicenda di De Chirico.

Chiara Franchi

 

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