“Ti ricordi, noi abbiamo fatto i poeti. Adesso io faccio il pittore”
“Alcune mie opere non sono che una specie di canovaccio delle mie poesie”
Sono passati trent’anni dall’ultima volta che è stata organizzata, a Milano, una grande mostra retrospettiva su questo pittore, annoverato nella rosa dei cinque più importanti artisti metafisici; insieme a De Chirico, Savinio, Carrà e Morandi. Così, nell’ambito di una ricerca, tale è stata definita, su quelle figure del secolo scorso alle quali non sempre viene dedicato uno spazio, benché temporaneo, dove potersi fare una riflessione, il Museo del Novecento ha portato in scena la pittura di Filippo De Pisis (Ferrara, 11 maggio 1896 – Milano, 2 aprile 1956) con lo scopo di raccontare quella dimensione intima, meditativa nonché erudita che gli fu propria.
Veramente sterminato è il catalogo completo delle sue opere, e l’Associazione per Filippo De Pisis di Milano, partner d’eccellenza, si occupa di tenerlo costantemente aggiornato. In ogni caso, se pensare di raccoglierle tutte in un solo luogo ed in una sola occasione sarebbe impossibile, oltre che insensato, anche per la curatela meglio intenzionata, grazie ad una collaborazione fra diverse istituzioni – Museo del Novecento in testa, insieme al Museo Nazionale Romano (che ospiterà l’esposizione nel 2020) e ad una lunga serie di prestatori –, Pier Giovanni Castiglioni e Danka Giacon sono riusciti ad offrire un saggio di pittura che è lo spaccato di una vita, proiezione di un animo sensibile e riverbero di molteplici interessi. Senza pretese, senza collegamenti balzani o voli pindarici (una formula che l’attiguo Palazzo Reale aveva già sperimentato con Carlo Carrà), una volta tanto emerge la vera personalità dell’artista, raccontata dagli stessi quadri che, con il loro approccio mite, quasi ad una sola voce, sussurrano direttamente all’intelligenza dell’osservatore in un coro a bocca chiusa che pervade il silenzio delle sale.

Lungo un percorso a ferro di cavallo, si svolge il racconto delle 10 sale e 90 opere (non tutte presenti). Decisamente promosso l’allestimento. I colori delle pareti fanno negli ambienti un clima riposante; le didascalie a terra, scritte in grandi e visibili caratteri su pedane alte non più di 20 cm, che hanno anche la funzione di mantenere l’osservatore alla corretta distanza, permettono una fruizione agevole; e ogni sala è introdotta da una cospicua nota storica riportata in Italiano e in Inglese su grandi fogli di carta dalla grammatura robusta. La sequenza delle opere esposte sceglie, ancora una volta, il criterio cronologico. Solo una cosa sembra stonare; il logo dell’evento, dall’aspetto troppo futurista.
Pure qui, come spesso accade, inizialmente sono le gigantografie ad accogliere il visitatore e, ricreando quella sensazione di sbirciare da una finestra aperta sul passato, gli fanno avere il primo contatto con il pittore. Nel breve tragitto da un angusto vestibolo al bookshop, attraverso il quale bisogna passare sia in entrata sia in uscita, ci viene così restituito il ritratto di un uomo nelle varie fasi della sua vita, capace di passare dagli abiti eleganti e ricercati, degni del suo rango sociale, oltreché del suo spessore culturale, all’umile casacca da lavoro. Non avrebbe potuto essere altrimenti, lui che era nato Luigi Filippo Tibertelli: figlio di una piccola nobiltà ferrarese – originaria probabilmente di Pisa, da cui De Pisis, nome che però nel frattempo la sua famiglia aveva smesso di usare –, il nostro poteva vantare una formazione umanistica ampia, e soprattutto una fame di sapere talmente inesauribile che, nel corso degli anni, già tuttavia quand’era ragazzino, era giunto a cibarsi di narrativa, in versi e in prosa, storia e vari campi delle scienze naturali. E mentre ancora la pittura sembrava destinata a rimanere uno dei suoi molteplici interessi, ma non la sua occupazione principale, essendo lui appassionato di botanica, aveva realizzato un vastissimo e complesso erbario che tutt’ora esiste presso l’università di Padova, caratterizzato dalla sorprendente meticolosità scientifica con la quale aveva campionato le specie e scritto le didascalie. Ovviamente in latino, disciplina che per mantenersi avrebbe persino insegnato al liceo.
Per questo motivo la mostra prende avvio dall’anno 1916, quand’egli, ventenne, incontrò Giorgio e Andrea De Chirico. Nel frattempo era riuscito a non farsi mandare in guerra, e nonostante avesse già alle spalle alcune esperienze grafico-pittoriche – dapprima condotte sotto la guida del precettore Odoardo Domenichini e dei fratelli Angelo e Giovanni Longanesi, successivamente rinsaldate dall’osservazione dei maestri rinascimentali ferraresi e veneti –, sembrava che fosse avviato verso una brillante carriera di scrittore. La vocazione letteraria che aveva scoperto di possedere in gioventù seguitava ad animarlo, e difatti egli aveva già cominciato a pubblicare ogni sorta di genere e sugli argomenti più disparati, attraverso organi di stampa e divulgazione a carattere sia locale sia nazionale.

Marina con conchiglie, un dipinto risalente proprio a quella data, viene presentato in mostra come il risultato dell’incontro con i padri nobili della pittura metafisica, e il vero inizio della poetica artistica di Filippo De Pisis. Francesco Arcangeli, storico dell’arte, (secondo quanto riferito dall’audioguida, un dispositivo completamente touch e multilingua) parla di quest’opera imponendo subito il rapporto fra il pittore novello e la grande esperienza della cultura figurativa iniziata con De Chirico.
Ne risulta un dipinto che pare diviso in tre registri, tutti e tre dialoganti con l’osservatore: in primo piano la natura morta dei bivalvi che accolgono, come una sorta d’intruso, oppure un fratello diverso, un frutto della terra, in secondo piano la passeggiata solitaria della figura in riva al mare che tanto ricorda l’esperienza tedesca del romanticismo ottocentesco alla ricerca del sublime, e per finire, nella metà superiore del quadro, un andirivieni d’imbarcazioni, ciascuna sulla propria rotta, ciascuna che ha scelto il proprio modo di navigare, a vela oppure a vapore.

Durante il primo soggiorno a Roma, dal 1920 al 1924, De Pisis espone, senza alcun successo né di vendite né di critica, presso la Casa d’Arte Bragaglia. Prosegue comunque il suo percorso di formazione, esortato anche da Armando Spadini, uno dei suoi estimatori, e nella capitale, visitando musei, chiese e siti archeologici, con il passare del tempo scopre che la pittura è la sua vera passione. Successivamente, fino al 1939, in Italia e soprattutto a Venezia, a Bologna, a Roma, a Cortina e nel Cadore, ritornò solo per trascorrere le proprie villeggiature estive, e per esporre alle mostre organizzate da Margherita Sarfatti, alle Biennali di Venezia e alla Quadriennale di Roma, presso le quali otterrà nel tempo anche l’onore di avere delle sale personali.
Dal 1925, comunque, visse a Parigi, dove continuò a frequentare il mondo intellettuale, e fu qui che riscosse i suoi primi veri consensi. Sentiva di avere un forte debito verso i propri maestri, contemporanei o passati, e fedele all’idea che “la pittura nasca solo dalla pittura” iniziò ad inserire nelle proprie opere dei quadri nei quadri, come testimoniano Natura morta con capriccio di Goya e Natura morta con quadro di De Chirico, rispettivamente de 1925 e del 1928.

In quegli stessi anni dipinse anche Le cipolle di Socrate e L’archeologo, la prima nel 1926 e la seconda nel 1928. De Pisis aveva scoperto che attraverso la pittura poteva veicolare i propri interessi letterari e antiquari, e sebbene non disdegnasse alcun tipo di soggetto, fu soprattutto nelle nature morte che l’esperimento metafisico sembrò trovare la sua giusta dimensione. L’accostamento fra aulico e ordinario, artificiale e naturale, assenza e presenza di vita nella sfera dell’inanimato, cui appartengono sia la scultura (a sua volta dipinta nell’opera) sia gli ortaggi, costituisce la chiave per leggere il primo dipinto. Mentre il secondo (parimenti con un’altra opera, quest’ultima intitolata Il piede romano, realizzata nel 1933, nella quale il trattamento della colorazione fa apparire quasi trasparente, proprio come un fantasma, il moncone della ciclopica scultura) offre un’idea dell’interesse che il pittore aveva per le rovine; non soltanto esse rappresentano l’ideale metafisico per eccellenza, ma in queste due opere sono colte nel loro vero e proprio essere rimanenze di un’antica civiltà decaduta e mezzo di comunicazione fra il passato e il presente, scoperte in luoghi aspri e sopraffatte dal tempo trascorso.

Sempre a Parigi, poi a Venezia, e dopo ancora persino a Londra (dove viene invitato ad esporre nel 1935), De Pisis cominciò a sviluppare un suo filone vedutista, affinando le proprie capacità di analisi e sintesi, e dimostrando di avere assimilato benissimo tanto gl’insegnamenti dei pittori settecenteschi veneti quanto la lezione di Manet. Una sola sala è dedicata, anche se solo parzialmente, alle rappresentazioni di Venezia, realizzate con tocchi di pennello molto grafici che danno solo l’impressione degli edifici e delle persone. Intorno a lui si radunavano i curiosi per vedere con quale ispirata velocità, eppure con quale accuratezza ritrae gli scorci cittadini. E però, ci fanno notare i supporti alla fruizione della mostra, De Pisis non si limitava ad imitare gli impressionisti, dai quali mutua la pittura en plain air, ma evita di registrare quello che vedeva come in un’istantanea fotografica ma cercando di arrivare alla rappresentazione di un cosiddetto “paesaggio interiore”.

E naturalmente, nella sua produzione artistica non avrebbero potuto mancare i ritratti. In questo senso, la mostra vuole fare leva su quella “profonda capacità d’introspezione psicologica” che emerge da numerose sue rappresentazioni di uomini e donne. Si veda a questo proposito il Ritratto dell’antiquario Rocchi, eseguito nel 1931. Come se provasse un empatico senso d’immedesimazione, De Pisis prediligeva comunque soggetti umili: vecchi montanari segnati dal lavoro, migranti, diseredate ed emarginati. Lo testimoniano opere come il Marinaio francese del 1930, o Allegro, del 1940; dipinti nei quali emerge subito uno stile molto diverso da quello degli inizi, perché (riferisce sempre l’audioguida) e fatto attraverso abrasioni, sfregamenti e cancellazioni invece che di tocchi, appoggi e stesure di colore.

Furono anni lieti e di fervente produzione, come raccontato pure nella sala che precede le ultime della mostra. Qui, il visitatore può sostare intorno ad un lungo tavolo e consultare gli esemplari delle pubblicazioni di e su De Pisis, oppure guardare lo stesso pittore all’opera mentre si lascia riprendere dall’occhio curioso e, a tratti, indiscreto di una telecamera. L’assenza del sonoro durante la proiezione fa di questa sala l’ambiente ideale dove concedersi un momento per sfogliare, a costo di lasciarli sgualciti, i diversi libri che vi sono lasciati a disposizione (opportunamente legati al piano d’appoggio), fra i quali si possono citare: La città dalle 100 meraviglie, di Filippo De Pisis, e Il mio sodalizio con De Pisis, dello scrittore Giovanni Comisso il quale gli fu sempre amico.
Tornato definitivamente in Italia allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Filippo De Pisis si recò a Bologna, Rimini, Vicenza, Milano, dove stabilì la sua prima residenza, e finalmente a Venezia. Qui realizzò due tele di grandi dimensioni, la Grande natura morta del 1944 e il Grande paesaggio del 1948, le quali si guardano nella penultima sala della mostra. L’opera con la quale si conclude, infatti, è Il cielo a Villa Fiorita, realizzato nel 1952, durante un ricovero presso la casa di cura di Brughiero dove trascorse gli ultimi anni segnati da grossi problemi di salute (oltreché dal conflitto fra la società dell’epoca e la sua omosessualità).

Nel parlare di quest’ultima opera, la voce dell’audioguida lascia spazio ai curatori, i quali desiderano congedare il visitatore con un augurio. Consci dei limiti che può avere una mostra, quello che dovrebbe restare è la memoria di un pittore di alta qualità formale ed immaginativa, forse uno dei più grandi del Novecento italiano, del quale potrete ancora vedere i migliori esempi della sua fecondissima produzione fino al 1 marzo 2020.
Niccolò Iacometti
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