Canova e Thorvaldsen a Milano. Una grande celebrazione della scultura

La città di Milano è, in queste settimane, teatro di un grande evento, che, per la prima volta, pone a paragone diretto due fra i massimi scultori del Neoclassicismo europeo, Antonio Canova (Possagno, 1757 ‒ Venezia, 1822) e Bertel Thorvaldsen (Copenhagen, 1770 -1844). Lo scorso ottobre, infatti, i due maestri sono tornati a incontrarsi e confrontarsi nelle sale delle Gallerie d’Italia, dove, fino al 15 marzo 2020, sarà possibile visitare la mostra “Canova\Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna”.
Si tratta di un’esposizione enciclopedica: i curatori, Fernando Mazzocca e Stefano Grandesso, hanno infatti riunito a Milano ben centosessanta sculture, dipinti e bassorilievi, grazie anche ai generosi prestiti concessi dal Museo Thorvaldsen di Copenhagen e dall’Ermitage di San Pietroburgo, istituzione, quest’ultima, che custodisce alcune delle massime realizzazioni di Antonio Canova.
Il più celebre gruppo canoviano proveniente dalla città russa, Le tre Grazie (1812-1817), accoglie i visitatori non appena si accede alle Gallerie, insieme alla controparte, dal soggetto analogo, realizzata da Thorvaldsen fra il 1820 e il 1823: la sala di ingresso è infatti incentrata sul confronto fra i due capolavori, mediante un allestimento scenografico e suggestivo.
Il percorso vero e proprio ha però inizio dalle sale circostanti, che propongono una dettagliata analisi del retroterra culturale nel quale si mossero e operarono i due artisti, dei quali abbiamo fin da subito modo di conoscere le fattezze, grazie ai numerosi autoritratti, scolpiti e dipinti – oltre ad essere scultori, sia Canova che Thorvaldsen erano  infatti anche valenti pittori e disegnatori – che coprono l’arco di tempo dalla giovinezza sino alla maturità.

Fig. 1[9044]
Fig. 1. A sinistra: Giuseppe Bossi, Antonio Canova, 1810, Milano, Galleria d’Arte Moderna e Rudolph Suhrlandt, Bertel Thorvaldsen, 1810, Copenhagen, Museo Thorvaldsen.          

Le sezioni seguenti offrono invece una nutrita selezione di tele e incisioni raffiguranti gli studi dei due artisti a Roma, la città nella quale si svolse la maggior parte della loro carriera, dove si conobbero e rivaleggiarono, nonché una lunga serie di ritratti dei due, effigiati da amici e ammiratori, come Andrea Appiani (Milano, 1754 – 1817) e Giuseppe Bossi (Busto Arsizio, 1777 – Milano, 1815), che colgono con esattezza lo sguardo benevolo di Canova, amatissimo per le sue eccellenti doti umane oltre che per il talento, e il cipiglio più romantico ed eroico di Thorvaldsen. Ai ritratti più intimi ne seguono molti altri di carattere celebrativo – i due erano considerati una sorta di reincarnazione di Fidia, Lisippo e Apelle, i mitici scultori dell’antica Grecia – fra i quali spicca per imponenza la grande opera di Giovanni Ceccarini (Roma, 1790 – 1861) raffigurante Antonio Canova sedente in atto di abbracciare l’erma fidiaca di Giove, del 1817-1820.
Questa prima parte dell’esposizione si conclude con alcune riproduzioni in bronzo e in gesso delle opere più celebri dei due maestri, che testimoniano, insieme alle accurate incisioni che propongono talvolta dei veri e propri cataloghi della loro produzione, l’incredibile popolarità di cui godettero le loro realizzazioni, moltiplicate e diffuse in modo quasi “industriale” in tutti i formati e nei materiali più disparati, trasformate in oggetti di decoro e di arredamento, e per questo motivo in grado di giungere anche al pubblico non specializzato.
La prima, lunga parte introduttiva, che costituisce da sola quasi metà dell’esposizione, offre alcuni spunti di riflessione che invitano a soffermarsi sul concetto di Neoclassicismo non solo come corrente estetica, di recupero della cultura classica, con i suoi ideali di perfezione e grazia, ma anche come fenomeno perfettamente calato nel suo tempo. La committenza sempre più borghese, gli studi degli artisti che divengono luoghi pubblici, aperti ai visitatori, e lo scardinamento della tradizionale gerarchia che vedeva la scultura subordinata alla pittura ci ricordano che il Neoclassicismo fu pur sempre un prodotto dell’epoca illuminista, di quei decenni, a cavallo fra Settecento e Ottocento, nei quali l’Europa si apriva all’industrializzazione e a una nuova scala di valori, basati sulla razionalità e sulla laicità dei modelli.

Fig. 2[8875]
Fig. 2. Veduta della sala di ingresso con, a sinistra, le Tre Grazie di Antonio Canova (1812-1817, San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage) e, a destra, Le Grazie con Cupido di Bertel Thorvaldsen (1820-1823, Copenaghen, Thorvaldsen Museum).

Dopo questo lungo preambolo, l’attenzione torna alla sala centrale, dove, come si accennava all’inizio, torreggiano i due gruppi delle Grazie, quello canoviano, movimentato, morbido e sentimentale, al quale si contrappone quello di Thorvaldsen, più austero e purista anche nella lavorazione del marmo, di un bianco ottico e assoluto. Le due opere sono circondate da altri esemplari, sempre riconducibili ai due scultori, incentrati sul tema della danza: la scelta di tale allestimento rientra in un progetto ben preciso, ideato dall’architetto Alessandro Lucchi, dello Studio Lucchi & Biserni. Il concetto, come si legge nella cartella stampa, è quello di proporre “una versione moderna e dinamica del teatro di Epidauro: al centro, le Grazie di Canova e quelle di Thorvaldsen sono circondate dalle quattro danzatrici che fluttuano in un vorticoso girotondo; qui quattro sedute ripropongono i gradoni del teatro greco (cavea – orchestra – scale)”.

Fig. 3[9042]
Fig. 3. Bertel Thorvaldsen, Trionfo di Alessandro Magno in Babilonia, 1822, Pavia, Musei Civici.

Il percorso prosegue poi in un susseguirsi di sale, nelle quali si avvicendano capolavori ed esemplari unici, suddivisi per aree tematiche; difficile rendere conto in poche righe della ricchezza, sia qualitativa che numerica delle opere esposte. Una vasta sezione è dedicata alla produzione ritrattistica: fra i diversi personaggi effigiati da Canova, non manca il committente più prestigioso, Napoleone, idealizzato, dallo sguardo deciso ed eroico; al futuro imperatore si dovette il diffondersi della fama dello scultore ben oltre i confini italici.
Assolutamente degno di nota è poi il lungo fregio di Thorvaldsen avente per soggetto il Trionfo di Alessandro Magno in Babilonia, del quale è esposta una riduzione in gesso del 1822, conservata nei Musei Civici di Pavia. Inizialmente commissionato da Napoleone nel 1797 per il Palazzo del Quirinale, il fregio finale, in marmo di Carrara, venne infine destinato da Giovanni Battista Sommariva (Sant’Angelo Lodigiano, 1762 – Milano, 1826), segretario della Repubblica Cisalpina, ad ornare la propria villa a Tremezzo, sul Lago di Como; il funzionario, nel 1818, così scriveva al figlio: “Ti parlerò poi di persona in rapporto al portentoso bassorilievo di questo Fidia-Thorvaldsen”.

Fig. 4[9041]
Fig. 4. A sinistra: Bertel Thorvadsen, Ganimede, 1819-1824, San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage e Antonio Canova, Ebe, 1800-1805, San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage.

La mitologia greca fu la fonte privilegiata dalla quale i due scultori attinsero idee e immagini per le proprie opere, non solo per richiamare gli ideali di equilibrio e perfezione cari alla cultura dell’epoca, ma anche come veicolo di ideali universali. Chi meglio della dea Venere poteva impersonare il concetto di bellezza? In mostra è possibile ammirarne diversi esemplari, da quella pudica e più terrena di Canova, che, uscendo dall’acqua, si nasconde da sguardi indiscreti, a quella trionfante e distaccata di Thorvaldsen, che esibisce con orgoglio il pomo d’oro appena conquistato, passando per le versioni realizzate da allievi e seguaci. Ganimede ed Ebe, i coppieri degli dei, incarnano la giovinezza: il primo non fu mai preso in considerazione da Canova, ma venne rappresentato svariate volte da Thorvaldsen, sia nell’atto di mescere del vino, sia accompagnato da Giove in forma di aquila. Fra gli esemplari di Ebe spicca invece la magnifica versione canoviana proveniente dall’Ermitage, in movimento, con la veste gonfiata dal vento, la brocca e il calice in oro.

Fig. 5[9045]
Fig. 5. A sinistra: Antonio Canova, Amore e Psiche, 1800-1803, San San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage e Bertel Thorvadsen, Amore e Psiche, eseguito nel 1861 da Georg Christian Freund, dal modello originale del 1807, Copenaghen, Thorvaldsens Museum.

Uno dei temi più amati e rappresentati dalla scultura e dalla pittura tra Neoclassicismo e Romanticismo è quello di Amore\Cupido, rappresentato da solo, nel corpo di un bambino o di un adolescente, oppure affiancato da Psiche, in riferimento al racconto narrato da Apuleio nelle Metamorfosi. Un’intera sala è dedicata alle varie declinazioni di questo mito: vi troviamo una delle numerose versioni canoviane, con i due protagonisti in posizione stante, più coinvolgente e “mediterranea”, e la risposta danese di Thorvaldsen, nordica e distaccata nella sua simmetria quasi perfetta, oltre ad una lunga serie di dipinti sul tema, realizzati da autori italiani ed europei. In questa e in alcune altre sezioni, la scelta di posizionare le sculture su basamenti addossati ai lati dello spazio penalizza purtroppo la fruizione delle stesse, dal momento che il visitatore si vede obbligato a sostare frontalmente ad esse; gli specchi fumé che ricoprono le pareti sopperiscono solo in parte alla possibilità di visionare le opere a trecentosessanta gradi. Questa scelta allestitiva costituisce uno degli aspetti meno convincenti della mostra, che, in linea con le precedenti esposizioni che hanno avuto luogo alle Gallerie d’Italia, si configura come un evento manualistico per ricchezza di contenuti e di materiali. Un poco ridondante la parte introduttiva, incentrata sui “personaggi” Canova e Thorvaldsen, forse condensabile in un numero minore di sale e contenente opere non indispensabili; lo stesso vale per alcuni dipinti che si incontrano lungo il percorso, coerenti con il periodo preso in esame, ma di importanza marginale e di qualità non paragonabile alla maggior parte delle altre opere. Proseguendo di sala in sala, talvolta si perde di vista il concetto sul quale si impernia l’esposizione, ovvero la messa a paragone critica e filologica della produzione dei due artisti e ci si lascia piuttosto abbagliare e rapire dalla bellezza e dalla perfezione delle opere, esaltate dall’illuminazione soffusa e dal contrasto con il colore scuro dell’allestimento; questa non è necessariamente una cosa negativa, perché, qualunque sia lo spirito con il quale si intenda visitarla, questa mostra costituisce un’occasione imperdibile e rigenerante per immergersi nell’atmosfera di un’epoca che scelse di credere al talento umano, alla grazia, all’equilibrio e alla razionalità.

                                                                                                                                        Chiara Franchi

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