Canova e i suoi “volti ideali” alla GAM di Milano

“In questa diletta visione marmorea / al di sopra delle opere e dei pensieri dell’uomo / ciò che la natura avrebbe potuto ma non volle fare / Bellezza e Canova possono!”

Attraverso questi versi, nel 1812 il poeta inglese Lord Byron (George Gordon Noel Byron; Londra, 1788 – Missolungi, 1824) celebrava l’erma di Elena, fra le teste muliebri più conosciute e apprezzate generate dal talento e dallo scalpello di Antonio Canova (Possagno, 1757 – Venezia, 1822); il viso della regina di Sparta si inseriva nella fortunata produzione dei cosiddetti “volti ideali”, una serie di erme e busti ai quali è dedicata l’omonima mostra in scena presso la Galleria d’Arte Moderna di Milano fino al prossimo 15 marzo. 
I curatori, Paola Zatti e Omar Cucciniello, conservatori della Galleria, hanno riunito circa quaranta opere, alcune mai esposte in Italia, ideando un percorso che, nelle sue cinque sezioni, si pone come parallelo e complementare alla più ampia esposizione su Canova e Thorvaldsen allestita presso le Gallerie d’Italia, della quale abbiamo avuto modo di parlare nelle scorse settimane. A differenza di quest’ultima, la mostra alla GAM è interamente incentrata sul maestro veneto e su un arco creativo e temporale assai specifico, che interessa l’ultimo decennio di attività dello scultore; si confermano invece gli importanti prestiti effettuati da musei stranieri, fra i quali ritroviamo, ad esempio, l’Ermitage di San Pietroburgo.

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Fig. 1. Una sala della mostra.            

L’esposizione illustra le vicende dei “volti ideali” sin dalla loro genesi, risalente al 1811: in quel periodo Canova, ormai cinquantenne, era probabilmente l’artista più celebre e richiesto in Europa. Già Ispettore generale delle Antichità e Belle Arti dello Stato della Chiesa, favorito di Napoleone e della sua famiglia, l’artista era conteso dallo zar, dal papa e da numerosi esponenti dell’aristocrazia; echi della sua fama erano giunti persino negli Stati Uniti. La scelta di orientare la propria produzione verso la realizzazione di busti nasceva da esigenze di natura sia pratica che creativa: meno impegnativi rispetto alle figure intere, essi permettevano allo scultore di far fronte alle numerosissime richieste in breve tempo e, rispetto ai ritratti, permettevano una maggiore libertà espressiva, dal momento che l’opera finale era svincolata dalla somiglianza al committente.

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Fig. 2. A sinistra: Antonio Canova, Ritratto di Elisa Baciocchi Bonaparte, 1812, Possagno, Museo e Gipsoteca Antonio Canova; a destra: Antonio Canova, Musa, 1816-1817 (dal prototipo del 1811), Fort Worth, Texas, Kimbell Art Museum.

Il confronto fra il ritratto di Elisa Bonaparte Baciocchi, sorella di Napoleone, eseguito nel 1812 e il busto della musa Clio (1811) che inaugura la serie di volti dedicata ai personaggi della mitologia, permette di cogliere i rapporti che intercorrono a doppio filo fra i due generi. L’effigie di Elisa, pur essendo idealizzata, conserva una certa fedeltà ai lineamenti della donna, alla loro vera natura: è esente dalla perfezione che riscontriamo nel volto di Clio, concentrazione assoluta della perfezione dei canoni di bellezza greca, rintracciabili nella regolarità del volto ovale, nelle labbra carnose e nel naso sottile ed elegante; superfluo ricordare che lo scultore era giunto a tale risultato in seguito ad anni di pratica sui modelli dell’antichità studiati a Roma.

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Fig. 3. Antonio Canova, Elena (prototipo in gesso), 1811, Possagno, Museo e Gipsoteca Antonio Canova.

Le sezioni che seguono prendono in analisi altri esemplari di bellezza canoviana, riuniti in base ai soggetti che essi ritraggono: così, la sala successiva a quella dedicata a Clio, la figura che funse da fortunato prototipo, è incentrata sulla raffigurazione di Elena, la cui prima versione risale a sua volta al 1811. L’androgino viso della regina di Troia presenta minime varianti rispetto a quello della musa: vi ritroviamo il medesimo cipiglio pensoso e vagamente malinconico. Ciò che la caratterizza e la rende riconoscibile è il dettaglio del guscio che corona la sua capigliatura, riferimento alla vicenda della sua nascita: secondo il mito, la donna sarebbe stata generata da un uovo, in seguito all’unione di Zeus con la dea Nemesi. Una citazione dotta, così come colta era Isabella Teotochi Albrizzi (Corfù, 1760 – Venezia, 1836), la destinataria dell’erma: letterata e saggista di origini aristocratiche, la Teotochi animava a Venezia un fervente salotto letterario, nelle cui sale trovò collocazione il busto donatole da Canova, esposto all’ammirazione dei frequentatori del salon. Fra essi si annoveravano i massimi intellettuali dell’epoca, come il già citato Lord Byron, ma anche Ugo Foscolo, Ippolito Pindemonte e Johann Wolfgang Goethe, che contribuirono, grazie ai loro versi e ai resoconti, a diffondere la notorietà di Elena in Europa e a consacrare la fortuna di questo genere.

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Fig. 4. A destra: Antonio Canova, Vestale, 1819, Milano, Galleria d’Arte Moderna; a sinistra: Adolfo Wildt, Vergine, 1924, Milano, Pinacoteca di Brera.

Come abbiamo modo di apprendere proseguendo con la visita, Canova, nella sua ricerca sulle varie declinazioni della bellezza femminile, attinse a fonti disparate, dalle più convenzionali a quelle ritenute, all’epoca, quasi inedite. L’indagine sul tema della Vestale, ad esempio, si pone perfettamente in linea con i tempi: questa figura aveva infatti affascinato e popolato il panorama culturale europeo sin dagli inizi del Settecento. L’immaginario ispirato dalle mitologiche sacerdotesse della dea Vesta, personificazioni della purezza, non solo costituiva un richiamo ideale ai principi della Roma repubblicana, ma permetteva, almeno nell’ambito delle arti figurative, di declinare in infinite variazioni il topos, più estetico che simbolico, della figura femminile velata. Canova, tra il 1818 e il 1822, ne realizzò tre versioni, ispirandosi direttamente alla cosiddetta “Zingarella” del Museo archeologico di Napoli (I – III secolo d.C.). Accanto alle Vestali sono poi esposti diverse altre interessanti variazioni sul tema, dalla Dama Velata di Raffaele Monti (Milano, 1818 –1881), del 1845, che emerge per il virtuosismo del velo che cela interamente il volto della donna e ne lascia appena indovinare i lineamenti, fino all’interpretazione novecentesca di Adolfo Wildt (Milano, 1868 – Milano, 1931), il più grande esperto di lavorazione del marmo del secolo: la sua Vergine (1924), sembra affiorare dal basamento come da uno specchio d’acqua, così reale da sembrare inquietantemente viva.

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Fig. 5. Antonio Canova, Beatrice, 1813-1819, Possagno, Museo e Gipsoteca Antonio Canova.

L’esposizione prosegue illustrando un aspetto della produzione di Canova meno noto e meno in linea con i dettami neoclassici, ma assai precursore dei tempi: il rapporto con l’arte del Rinascimento, comprovato dai taccuini dello scultore, contenenti disegni e studi tratti dai maestri del Quattrocento, ammirati in occasione dei numerosi viaggi in Toscana. A questa precoce riscoperta corrispose la scelta, anticipatrice delle istanze romantiche, di sostituire ai soggetti della mitologia greco-romana i personaggi della letteratura medievale, come la Beatrice elaborata fra il 1813 e il 1819: meno rigorosa nei lineamenti e nella capigliatura, essa coniuga lo stile classicheggiante proprio dello scultore con un nuovo gusto neo-quattrocentesco che interessa, ad esempio, anche il contemporaneo gruppo delle Grazie.      

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Fig. 6. A sinistra: Antonio Canova, Filosofia (prototipo in gesso), Possagno, Museo e Gipsoteca Antonio Canova; a destra: Giulio Paolini, Mimesi, 1975, Torino, proprietà dell’artista.

L’ultima sala della mostra è infine dedicata ad una serie di figure allegoriche, come la Pace e la Filosofia, ideate sull’onda del nuovo corso che interessa la produzione dell’ultimo Canova. Tali figure simboliche, pur presentando minime variazioni rispetto alle prove precedenti, sono interessate da un accentuato rigore e da un maggiore arcaismo, a sottolineare il loro personificare dei concetti astratti e, allo stesso tempo, sembrano riaffermare l’universalità dei valori della classicità, ma anche la loro lontananza dall’imperfetta dimensione umana. La contemporaneità di questa interpretazione trova riscontro nella conclusione del percorso, dove troviamo Mimesi, opera dell’artista concettuale Giulio Paolini (Genova, 1940): due calchi in gesso della testa della Venere de’ Medici (I secolo a.C.), identici, intrattengono un muto dialogo fra di loro, uno di fronte all’altro, indifferenti alla presenza del visitatore, come a voler ribadire la nostra incolmabile distanza dal loro mondo e i nostri limiti.
La decisione di affidare la chiusura della narrazione ad un artista concettuale si rivela l’ultima di una serie di scelte fortunate, che rendono l’esposizione gradevole ma, allo stesso tempo, interessante e mai banale. I costanti riferimenti a linguaggi ed artisti di altre epoche, infatti, nonché la presenza di modelli e testimonianze grafiche e documentarie, conferiscono ampio respiro ad una mostra tutto sommato di piccole dimensioni, che, proprio per questo motivo, potrebbe lasciare, in un primo momento, un poco perplessi. In realtà, la relativa esiguità dei numeri è dovuta al fatto che ogni opera è attentamente scelta, sia in merito a ciò che racconta e rappresenta per sé stessa, sia in relazione alle altre: il risultato finale, dunque, esula dall’essere, come spesso purtroppo accade, solo una selezione di belle opere da ammirare, come fossero ripiegate su di loro, fuori da ogni contestualizzazione storica e critica. Interessante anche la scelta allestitiva di collocare le “teste” su essenziali pilastri bianchi, come a reinterpretare il concetto di erma greco-romana in chiave moderna, senza stravolgere la perfetta integrazione fra le opere e le sale squisitamente neoclassiche della Galleria.

                                                                                                                                                         Chiara Franchi

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