Si possono raccontare cose d’arte, intercettando un pubblico vasto, un pubblico “televisivo”, diremmo oggi, senza per forza scadere in uno storytelling sensazionalista o nell’eccessiva semplificazione dei contenuti? Agli occhi di un nostro stretto contemporaneo potrebbe sembrare un’ardua impresa, ma evidentemente fino a circa sessant’anni fa c’era una maggiore fiducia che il prossimo, anche se non era un esperto, quale che fosse la materia, facesse valere le basi di quell’insegnamento che ancora oggi si dovrebbe impartire nelle scuole, e quindi s’impegnasse a colmare le proprie lacune qualora si fosse trovato ad affrontare argomenti non proprio quotidiani con più diligente curiosità e apertura mentale.

Nel 1963, la BBC trasmise una serie di sei conversazioni sull’architettura tenute dall’eminente studioso John Summerson (Darlington, 1904 – Londra, 1992) destinatario negli anni seguenti di onoreficenze ed incarichi accademici. Da quest’esperienza, squisitamente divulgativa, passata all’epoca non già in televisione, mezzo ancora nuovo, bensì alla radio, nacque un libro che, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1971, per Einaudi, otto anni dopo sarebbe stato riproposto in una seconda edizione, corretta in alcune considerazioni e dal più ampio apparato iconografico. Non già una storia dell’architettura classica, piuttosto una guida ermeneutica, la spiegazione di un dialogo botta-e-risposta tra l’architettura italiana e quella britannica, con qualche sguardo occasionale ma non inefficace alla Francia, e potremmo dire che traspaia dalla sua prosa il piglio a tratti conversativo e confidenziale del format originale. Il linguaggio classico dell’architettura, venuto alla luce per incontrare e incoraggiare gli appassionati, oggi è diventato una pietra basamentale dei corsi universitari; per questo motivo, come si apprende chiaramente già dalle prime righe, Summerson presuppone che il lettore abbia chiaro almeno in teoria cosa s’intenda per architettura classica e cosa la renda perfettamente distinguibile (che differenza intercorra fra i due massimi esempi londinesi, St. Paul e Westminster). Cosa sia però nello specifico, questo è un discorso molto più complesso.
L’architettura classica affonda sicuramente le radici nella costruzione dei templi greci e in quella degli edifici religiosi, militari e civili romani. Proprio attraverso i romani, presso i quali “architettura” voleva dire adoperare gli ormai famosi ordini (tuscanico, dorico, ionico e corinzio, ai quali il Rinascimento avrebbe successivamente aggiunto il composito), si sarebbe trasferito dal contesto sacro a quello laico un linguaggio riconosciuto quale veicolo di prestigio e significato. Sebbene però un edificio classico sia quello i cui elementi decorativi, armonicamente disposti, derivino dal vocabolario architettonico antico, il classicismo non può essere definito univocamente perché assume significati differenti, ma sempre utili, in tempi e contesti diversi. E posto che sia un errore, un peccato dell’Ottocento romantico, contrapporre antiteticamente per esempio gotico e classico, ma che sia al contempo un abuso di terminologia riferire al classicismo un edificio che ne adopera unicamente la sintassi delle proporzioni (gli schemi di armonia geometrica), Summerson parla di questo linguaggio come se fosse universale, fatto di elementi essenziali – spiegati e interpretati con piglio filologico, ma anche elaborati in una situazione di bilico fra creatività e critica, dai trattatisti rinascimentali – che si esprimono, consciamente o inconsciamente, nell’architettura di tutto il mondo, allusi da architetti diversi, trasversalmente ad ogni epoca: proprio alla contemporaneità è dedicato l’ultimo capitolo del libro.

Ci si accorge allora di come esista un filo conduttore che collega l’Anfiteatro Flavio al chiostro bramantesco di Santa Maria della Pace, o l’arco trionfale di Costantino al Tempio Malatestiano di Leon Battista Alberti (Genova, 1404 – Roma, 1472) e alla Somerset House of London. Oppure il tempietto di San Pietro in Montorio nella capitale papalina, opera in cui il Bramante (Fermignano, 1444 – Roma, 1514) rielaborò tematiche antiche, ad esperienze di molto successive, tramite un modello che l’architetto italiano fornì a sir Christopher Wren (East Knoyle, 1632 – Londra, 1723) da sviluppare ulteriormente nella cupola della cattedrale londinese di St. Paul, e a James Gibbs (Aberdeen, 1682 – Londra, 1754) nella Radcliffe Library di Oxford. Qualche decennio più tardi, Jacques-Germain Soufflot (Irancy, 1713 – Parigi, 1780) avrebbe letteralmente preso a modello la cupola di St. Paul per il suo progetto del Pantheon a Parigi, con un risultato che Summerson definisce un po’ troppo aereo rispetto al suo progenitore inglese.
Il latino dell’architettura, come pure viene definito, mette in connessione anche l’esperienza di Andrea Palladio (Padova, 1508 – Maser, 1580) a quella di Inigo Jones (Smithfield, 1573 – Londra, 1652), quella di Giulio Romano (Roma, 1499 – Mantova, 1546) alla corte dei Gonzaga con i palazzi inglesi del Sette e dell’Ottocento, Palazzo Farnese a Caprarola, progettato da Jacopo Barozzi (Vignola, 1507 – Roma, 1573), in qualche modo ancora debitore verso il Colosseo, all’edificio, non più esistente, della Sun Assurance a Londra di Charles Robert Cockerell (Londra, 1788 – ivi, 1863), un architetto già neoclassico.
Come se non bastasse, sorprende scoprire quale influenza abbia avuto un artista come Bartolomeo Ammannati (Settignano, 1511 – Firenze, 1592), per mezzo degli incisori fiamminghi, su un contemporaneo del Nord Europa come Robert Smythson (Londra, 1535 – Wollaton, 1614) autore della Wollaton Hall a Nottingham. E ancora, tornando a Vignola, il linguaggio si evolve nel passaggio dalla chiesa manierista del Gesù, tempio romano e manifesto fisico della compagnia fondata da Sant’Ignazio di Loyola, alle chiese, già barocche, di Santa Susanna, sempre a Roma, e di Val-de-Grâce a Parigi, rispettivamente progettate da Carlo Maderno (Capolago, 1556 – Roma, 1629) e François Mansart (Parigi, 1598 – ivi, 1666). Le incisioni di Giambattista Piranesi (Modigliano Veneto, 1720 – Roma, 1778) si possono legare invece con la prigione di Newgate a Londra, progettata da George Dance il Giovane (Londra, 1741 – ivi, 1825), e il Partenone con la High School di Edimburgo o il British Museum di Londra.
Tutti questi e molti altri esempi vengono analizzati nel libro, mettendo in evidenza i diversi modi in cui si è risolta la necessità di declinare il linguaggio classico dell’architettura al variare delle circostanze e, molto spesso, delle misure degli edifici da realizzare.

Nel passaggio anche solamente da una generazione di architetti all’altra, questo filo conduttore, questa catena di influenze consecutive e talvolta reciproche, si modifica continuamente. Tanto per cominciare, è bene porre l’attenzione su una cosa:
“[…] la grande conquista del Rinascimento non fu la rigorosa imitazione degli edifici romani (che fu lasciata ai secoli XVII e XIX), bensì la riconquista della grammatica dell’antichità come disciplina di carattere universale: quella disciplina ereditata dal più remoto passato dell’umanità e applicabile nella costruzione di tutti gli edifici di una qualche importanza”.
(Il linguaggio classico dell’architettura, p. 16)
Ecco individuata la chiave di lettura. Una grammatica – caratteristica propria di ogni linguaggio, perciò anche di questo – che nel corso dei secoli gli architetti hanno potuto studiare e rielaborare; l’architettura dei secoli precedenti sarebbe stata, in altre parole, come un libro di pietra da leggere e rileggere continuamente nel proprio tempo. Appunto per questo, nonostante gli ordini e tutto quanto vi giri attorno non assumano propriamente, da Roma in avanti, un’importanza strutturale, è sbagliato trattarli, almeno fino all’inizio dei revival inglesi, come elementi posticci. Essi si integrano nel fatto costruito, diventandone il principio generatore e regolatore: parlando nel concreto, non è possibile spostare un elemento, colonna o triglifo che sia, senza modificare di conseguenza, tutto il resto della composizione. Una grande lezione, che Summerson non manca di citare, proviene da un paio di lettere che sir Edwin Lutyens (Londra, 1869 – ivi, 1944), il quale aveva imparato per esperienza, nel proprio lavoro di architetto, che a fondamento del linguaggio classico c’era l’attitudine a rispettarlo e a sfidarlo allo stesso tempo, aveva scritto all’amico e collega Herbert Baker (Cobham, 1862 – ivi, 1946):
“Non lo si può copiare. In realtà, bisogna impadronirsene e poi realizzarlo… Non lo si può copiare: ci si ritroverebbe presi in trappola e il risultato sarebbe un pasticcio.
È un duro travaglio, una faticosa meditazione su ogni linea di ciascuna delle tre dimensioni e su ogni articolazione, e non ci si può permettere di spostare nemmeno una pietra. Se lo affronti in questo modo, l’ordine è tuo, e ogni linea, essendo prima elaborata nella mente, dev’essere permeata di poesia e di arte nella misura in cui Dio te ne ha fatto dono. Se modifichi un elemento (cosa che puoi sempre fare), devi armonizzare con esso tutti gli altri con una certa cura e fantasia. Non è quindi una partita facile, né la si può giocare a cuor leggero”.
(Il linguaggio classico dell’architettura, pp. 23-24)“Gli ordini non consentono originalità. Devono esserne talmente assimilati da non restarne che l’essenza. Se applicati in modo esatto, sono di una singolare bellezza, immutabili come le forme delle piante… La perfezione dell’ordine è assai più vicina alla natura di qualsiasi cosa prodotta di getto o per un caso fortunato”.
(Il linguaggio classico dell’architettura, p. 24)

Una posizione di rilievo fra questi “grammatici” dell’architettura l’ebbe proprio, sempre secondo lo studioso britannico, Donato Bramante, capace d’interpretare il linguaggio classico allo stesso livello degli antichi, e la sua importanza fu subito riconosciuta dai contemporanei, tanto che Sebastiano Serlio (Bologna, 1475 – Fontainebleau, 1554), colui che per primo aveva redatto e fatto conoscere in Europa una versione modernamente interpretata degli ordini, incluse alcune sue opere nella parte del suo trattato in sette libri dedicata all’antica Roma. Sempre e comunque di reinterpretazione si trattò e non di mera copiatura, anche in questo caso.
Successivamente, molto più di Palladio o Giulio Romano, del Vignola o di Raffaello, sarebbe stato Michelangelo Buonarroti (Caprese, 1475 – Roma, 1564) il primo in grado di padroneggiare il linguaggio classico in una maniera decisamente inusitata e comunque elegante ma, soprattutto, consapevole.
“Il modo di operare a cui si riferiva Vasari [parlando dei suoi contemporanei, n.d.a.] era, naturalmente, quello dei maestri del Rinascimento maturo a partire da Bramante, consisteva cioè in una padronanza grammaticale, ottenuta attraverso lo studio di Vitruvio e un’approfondita analisi degli antichi monumenti romani. La sagoma delle cornici e il rivestimento di porte e finestre erano sempre progettate richiamandosi all’autorità degli antichi. Se nei progettisti si manifestava la sensibilità personale dell’artista, ciò avveniva involontariamente e a causa di incrinature nel processo di selezione delle fonti consacrate. Da parte sua Michelangelo si ribellò ad ogni concetto di «autorità». Come scultore, aveva già una padronanza della forma e della materia che superava quella degli antichi e, quando si volse all’architettura, la sua capacità di guardare, oltre le forme morte e accettate, a qualcosa di intensamente vivo, lo mise in grado di trascendere la grammatica di Vitruvio con estrema sicurezza”.
(Il linguaggio classico dell’architettura, p. 34)
Se pertanto questo linguaggio può sembrarci molto rigido, Summerson ci invita a prendere con le molle le numerose etichette che, nel suo corso, la Storia ha voluto darsi, quasi sempre a posteriori, cercando in questo modo di semplificare lo sviluppo trasversale dell’architettura classica: in qualche maniera il progetto del Bernini (Napoli, 1598 – Roma, 1680) per il colonnato di Piazza San Pietro, una delle maggiori opere del Barocco romano, sembra conformarsi perfettamente all’ideale dell’abate Laugier, così pure la chiesa di St. Paul a Londra, quella però nel quartiere Covent Garden, progettata da Inigo Jones, che nonostante risalga al 1631 sia anch’essa in qualche modo già neoclassica.
Marc-Antoine Laugier (Manosque, 1713 – Parigi, 1769), religioso ma proiettato verso l’illuminismo, del quale non si hanno progetti di edifici realizzati, tanto che a tutt’oggi viene considerato niente più che un’importante filosofo dell’architettura, pubblicò nel 1753 un Essai destinato a fare scuola. Al centro della disquisizione, nata in una Francia che dopo avere importato l’architettura dall’Italia aveva deciso di andare alla scoperta delle sue origini, onde capirne il motivo dell’intrinseca bellezza, Laugier pose e approfondì il mito della capanna primigenia – la presumibile prima opera di architettura mai veramente realizzata, dalla quale, originariamente in legno, si sarebbe passati alla costruzione di templi in pietra in ambito ellenico – fornendone un’interpretazione nuova, basata solo sugli elementi strutturali: colonne, architravi, puntoni.
Visto da Summerson, Laugier appare come un profeta della contemporaneità, in quanto la sua teoria di un’architettura dalla quale eliminare il superfluo, difficilmente realizzabile a suo tempo, avrebbe avuto un seguito inaspettato nell’architettura contemporanea, vale a dire la scomparsa dei setti murari (da noi sostituiti con ampie finestre), in favore della sola struttura architettonica. Facendo questa considerazione, lo studioso britannico dovette superare l’assunto ovvio che una struttura di questo tipo, come la capanna primigenia immaginata da Laugier, sarebbe assolutamente inutile per assolvere al compito di proteggere l’abitante dalle intemperie.

Nonostante però in Gran Bretagna Laugier sia stato contrastato – laddove invece aveva trovato un sostenitore nel conterraneo Soufflot – proprio qui gli architetti devono averne evidentemente accolto l’idea che bisognasse ricercare nel passato le origini genuine e incontaminate della bellezza architettonica, con il risultato d’innescare quella stagione dei revival che sarebbe partita proprio dallo studio dell’antica Grecia; per altro, non da moltissimo tempo riscoperta, in un’epoca nella quale era ancora sotto il dominio ottomano e non appariva né sicura né, forse, attrattiva per il viaggiatore occidentale. Su questo argomento, si vedano anche Pierluigi Panza e il suo Orientalismi. L’Europa alla scoperta del Levante, pubblicato nel 2011 da Guerini e associati.
In questo modo, la Grecia contribuì ampliando il campionario degli ordini, aggiungendo ai cinque romani i tre ellenici, giudicati da una parte come più rozzi ma dall’altra come maggiormente puri. Diffusosi poi dall’Inghilterra al resto d’Europa, quindi in America, dice sempre Summerson, il nuovo linguaggio non diede esiti molto felici:
“[…] gli elementi fatti rivivere tendevano a essere impiegati in costruzioni moderne, come ingombranti e costose appendici […] È vero che portici “inutili” e colonnati “inutili” sono mezzi perfettamente legittimi di espressione architettonica; ma si è giunti proprio a un punto morto quando divengono una specie di bagaglio culturale sfoggiato da edifici che essi nascondono, rivestono e adornano, senza veramente dominarli”.
(Il linguaggio classico dell’architettura, pp. 55-56).
Fortunatamente, pur non rigettando le nuove scoperte, non tutti gli architetti si uniformarono a questa logica.

Arrivati qui, è d’obbligo domandarsi che ne sia del linguaggio classico nell’architettura contemporanea. La risposta non può non partire dal fatto che il XX secolo abbia visto il mondo dell’architettura subire uno sconvolgimento radicale, che assume il nome di Movimento moderno, nato prima del 1914 ma che si diffuse prepotentemente in tutte le parti industrializzate del globo solamente dopo il secondo conflitto mondiale, affrontando, dice Summerson, problemi più di edilizia che di architettura, non più soltanto formali ma di tecnologia, industrializzazione, pianificazione, fabbricazione e soddisfazione di esigenze sociali. Ribadita la discendenza che collega Laugier al Movimento moderno, insita nella condivisione di un’idea razionalista come la riduzione ai minimi termini, il modo più immediato di capire in che modo la conoscenza dell’architettura classica abbia forgiato i paradigmi della nuova filosofia progettuale risiede nello studio dell’opera pionieristica di architetti come Peter Behrens (Amburgo, 1868 – Berlino, 1940) e Auguste Perret (Ixelles, 1874 – Parigi, 1954). Fatta propria la sfida di costruire in acciaio, per altro suggerita in precedenza da Eugène Viollet-le-Duc (Parigi, 1814 – Losanna, 1879), come traduzione nel contemporaneo dell’insegnamento proveniente dall’architettura gotica, tutta improntata all’essenzialità della struttura, Behrens non poté comunque prescindere dal richiamarsi alla classicità, pur se denudandola, quando progettò la fabbrica di turbine per la Allgemeine Elektricitaats-Gesellschaft. E sarebbe toccato a Walter Gropius (Berlino, 1883 – Boston, 1969), suo allievo, il compito di superare ulteriormente il modello neoclassico senza smarrirne il senso estetico dell’ordine e dell’armonia. Per quanto riguarda invece Perret, la sua formazione Beaux-Arts, che aveva dato origine all’Opéra di Parigi, non gli impedì di concepire edifici in cemento armato, totalmente privi di ornamenti, ma emerse pur sempre l’impostazione rigorosa tipica di chi aveva imparato a progettare attraverso gli ordini.
In chiusura, Summerson argomenta che il Movimento moderno, dopo essere passato per Le Corbusier (La Chaux-de-Fonds, 1887 – Roccabruna, 1965), al quale non mancò mai la conoscenza delle regole armoniche sottese già nell’architettura rinascimentale, avrebbe ucciso quel linguaggio fatto di ornamenti, arrecando così un danno d’immagine all’architettura contemporanea nei riguardi delle persone. Il suo auspicio, riportando le voci circa un cambiamento di tendenza che alle soglie degli anni Ottanta sembrava prossimo, era infatti che qualsiasi nuova formulazione dovesse necessariamente ripartire dallo studio dell’architettura classica in quanto mezzo di comunicazione sociale.
Da parte nostra, non possiamo dire con esattezza se proprio da questo appello il Movimento postmoderno trasse il suo avvio. Sicuramente, oggi come in altre epoche, studiare il linguaggio classico dell’architettura potrebbe aiutarci in un percorso di elevazione, se solo recuperassimo quella sana curiosità e intraprendenza la quale ci permette di conoscere il mondo che ci circonda, e di arricchire la nostra conoscenza della Storia dell’arte aldilà di qualsiasi limitazione.
Niccolò Iacometti
Rispondi