La dignità del lavoro, il valore della ricerca, il prestigio dei titoli di studio: in Italia una chimera

Non era mia intenzione scrivere un’invettiva, chissà poi mai a chi potrebbe essere rivolta e a chi potrebbe interessare, visto che sembra che in Italia a nessuno importi della dignità del lavoro, del valore della ricerca e del prestigio dei titoli di studio, specie quando si parla del settore culturale, della storia dell’arte, della letteratura, insomma degli studi umanistici più in generale. In questi anni ho visto la continua e progressiva svalutazione dei titoli di studio, specie delle lauree in studi umanistici e non mi è ancora capitato di imbattermi in qualcuno a cui freghi qualcosa. Non riesco a capire se sia una cosa voluta (cosa assai inquietante) o se sia semplicemente una questione di ignoranza e imbecillità generalizzata, legata ad una classe dirigente allo sbando e incapace di risolvere problemi fisiologici di un paese ormai allo stremo e all’apice della sua decadenza. Con l’emergenza del coronavirus questa incapacità di risolvere i problemi si è fatta sempre più critica e per ora i cosiddetti stati generali non hanno prodotto nulla di concreto se non un dispendio di energie, slogan propagandistici e soprattutto di soldi pubblici. Parallelamente si deve constatare l’incapacità del ministero della pubblica istruzione e di quello dei beni culturali di muoversi verso riforme dignitose che tengano conto del valore dei titoli di studio e della professionalità acquisita in anni di studio e di formazione di centinaia di migliaia di persone. Torno a ripetere è una scelta consapevole oppure è dettata dalla oggettiva incapacità di chi ci governa e per esteso di chi ci ha sempre governato da trent’anni a questa parte? Si continua a parlare e parlare a promettere e a promettere, a fare campagna elettorale con slogan e pubblicità, propagande massacranti ma in realtà nessuno prospetta un programma di riforma concreto volto ad aiutare questo paese e le persone che ci vivono.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata apprendere dello sconvolgente ribasso dei punteggi di valutazione per l’accesso all’aggiornamento delle graduatorie provinciali per le supplenze nelle scuole medie e superiori. Come si può, mi chiedo io, motivare un insegnante se fin dal suo reclutamento non vengono premiati i suoi titoli di studio? Come può un insegante farsi portatore dei valori di giustizia e moralità, di dignità e di riconoscimento del merito scolastico se quel merito scolastico che lui stesso ha faticato così tanto ad ottenere non gli viene riconosciuto? Siamo ai paradossi italiani ed è veramente demoralizzante! Quel che è peggio e che a nessuno sembra importare un ben emerito accidente, sindacati inclusi, eccezion fatta per alcune persone (più uniche che rare) di buona volontà.

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Ma il mondo della scuola ahinoi non è l’unico settore che sta lentamente disgregandosi e annegando nella melma, a pari merito c’è il settore dei beni culturali e soprattutto di un fenomeno che da qualche anno a questa parte sta letteralmente distruggendo il settore, ossia il volontariato culturale scriteriato e senza limiti di sorta. Non si fraintenda, il volontariato è una cosa sacrosanta ma quando va a ledere la dignità di professionisti allora diventa controproducente e da fermare a tutti i costi. Moltissimi enti no profit e associazioni culturali basano le loro strategie operative, soprattutto sul territorio, sul volontariato, ma spesso quel volontariato si trasforma in vero e proprio sfruttamento non pagato: questo è un male. Molti professionisti magari già con una laurea vengono impiegati da questi settori “para culturali” senza paga e senza un minimo di dignità, poiché la cultura è vista come qualcosa di accessorio e per la quale non è necessario essere pagati. Ecco la convenienza: perché dovrei assumere un professionista del settore culturale se posso avvalermi (io associazione culturale o ente no profit che sia) di un volontario, magari laureato che fa la stessa cosa gratis? Questo ragionamento oltre a essere sbagliato, immorale e ipocrita è disgustoso e allucinante e accade solo in Italia. Questo vale anche per il settore della ricerca. Parlo per esperienza personale, ma quando si incarica qualcuno per fare delle ricerche non bisognerebbe mai aspettarsi che quella persona lavori gratis o per la gloria o perché fa curriculum. E questo vale anche per chi è agli inizi della sua carriera (se mai ne avrà una). Sia che si tratti di un progetto di collaborazione saltuaria con qualche associazione culturale, sia che si tratti invece di una collaborazione per altri enti culturali, il principio rimane lo stesso. Il valore della ricerca ha la pari dignità di un lavoro “ufficialmente riconosciuto” sia esso il restauratore o il chirurgo, l’avvocato o l’economista, l’art strategis o l’art sharer! Gli aspetti immateriali della ricerca scientifica non devono legittimare quest’ultima a cadere nello sfruttamento senza un salario. Moltissimi credono che fare ricerca, magari non ad altissimi livelli (come invece avviene ad esempio nel dottorato di ricerca) sia un passatempo accessorio da non essere per questo riconosciuto e pagato. Ma moltissimi non sanno che dietro una ricerca ci sta un professionista che ha studiato magari per un decennio, che ha imparato un metodo di lavoro e che ha investito parecchio denaro per quel tipo di formazione. E il fatto che non gli venga riconosciuto è una delle più grandi ingiustizie e miserie di questo paese, complice il menefreghismo della gente. Per fortuna ci sono enti e istituzioni che stanno cercando di porre rimedio a queste gravissime ingiustizie, penso ad esempio al Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo dell’Università degli Studi di Firenze – Unifi SAGAS, e all’associazione “Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali” cui di recente si è interessato anche lo storico dell’arte Tomaso Montanari. Questi enti stanno tentando di far sentire la voce di un “esercito qualificato” votato alla cultura e al sapere ma che viene costantemente ignorato, sottovalutato, sfruttato, non pagato, schiacciato, leso. Occorre che la gente non specialista del settore esca dal luogo comune che la cultura non è un lavoro, che la ricerca non è fonte di reddito e che per guadagnare bisogna per forza essere un manager, un avvocato, un medico, un restauratore. Sono stufo di sentire frasi fatte, di circostanza, piene di ipocrisia e di tanta ignoranza. Bisogna provvedere a creare “una cultura della cultura”, una coscienza e conoscenza condivisa per far imprimere indelebilmente nelle menti delle persone che non appartengono a questo universo, e che di queste cose non si occupano, che la ricerca, la cultura e i settori ad essi connessi devono essere considerati lavori a tutti gli effetti e che il volontariato può essere un validissimo sostengo ma che non deve mai e poi mai sostituirsi al lavoro dei professionisti. Sono stanco di sentire in giro: fammi questa ricerca tu che hai studiato e che sei così bravo e preparato! E subito dopo la fatidica frase: ovviamente non ti posso pagare! Se vuoi un servizio, anche un servizio culturale bisogna che questo venga pagato. Vorrei vedere cosa succederebbe se andassi dal dentista e gli dicessi, scusa ho mal di denti curami per favore, ah ma non ti posso pagare! Oppure se andassi dal panettiere e gli chiedessi vorrei sei pagnotte, scusa ma non ti posso pagare! O ancora se volessi far restaurare un dipinto e dicessi al restauratore, mi scusi ma non ho soldi per pagarla, lo faccia gratis! E con gli esempi potrei continuare all’infinito.

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Rimanendo nel campo delle ingiustizie che vanno a ledere la dignità dei professionisti del settore culturale va evidenziato quanto sia stato indecente e svilente il passato concorso per assistenti alla vigilanza indetto dal Ministero per i beni culturali che a fronte di moltissimi professionisti del settore culturale dava come titolo di accesso alla partecipazione del suddetto concorso il possesso del solo diploma di maturità. Che in linea teorica non sarebbe stata una cosa sbagliata se appena sopra i diplomati della quinta superiore non ci fossero stati migliaia e migliaia di laureati disoccupati e specializzati in professioni umanistiche. Alcuni hanno provato il concorso avendo perfino un dottorato di ricerca, massimo livello di istruzione nazionale. Qui tuttavia si entra in un altro problema fisiologico di questo paese, ossia quello della disoccupazione e della mancanza di soldi investiti nella cultura. Basti pensare che a fronte dei 1050 posti disponibili si sono presentati oltre 40.000 persone, un esercito vero e proprio: allucinante e degradante. A fronte di tutto ciò, moltissimi stanno aspettando (ma aspetta e spera) che il Mibact provveda a bandire un concorso per i funzionari di soprintendenza, ma visto come vanno le cose non mi stupirei se il ministero facesse la gradita sorpresa abbassando il titolo minino di accesso al concorso concedendo a coloro che hanno solo la laurea magistrale e non il diploma di Scuola di Specializzazione, unico titolo di studio con il quale fino a ora si può accedere a questo tipo di concorsi, di poter sostenere il futuro e fantomatico concorso, ma siccome non c’è un limite al peggio e basti vedere che cosa è successo nel mondo della scuola, meglio mettere le mani avanti e aspettarsi il peggio, sicuri di non essere troppo lontani dalla verità.

Trovo poi assurdo che dopo che un laureato è riuscito ad ottenere con lo studio e la fatica anche il diploma di Specializzazione in beni storico artistici si debba nuovamente mettere a studiare per poter ottenere il cosiddetto patentino abilitante per guida turistica. Ma non basta avere una laurea magistrale e un diploma di Specializzazione per un totale di sette anni universitari di studio? Bisogna aggiungerci altri mesi di studio e approfondimento per cosa? Per il precariato a vita natural durante? Ma stiamo scherzando? Senza contare che ormai i bandi per l’abilitazione come guida turistica sono degli autentici miraggi. Sarebbe più facile vedere elefanti rosa nel cielo che volano! L’ultimo concorso che io sappia che sia stato bandito risale al 2018 e ancora adesso chi si è iscritto aspetta di svolgere le prove.

Le misure per il rilancio del settore della cultura e del turismo messe in campo in seguito all’emergenza sanitaria sono un’altra marchetta ministeriale che nemmeno a dirlo non aiuterà nessuno, forse solo le casse dello stato. Sarebbe il caso di ripensare dalle fondamenta il settore della cultura, dalla scuola all’università ai musei e a tutto il settore museale più in generale, e ai lavori connessi alla cultura e al mondo della storia dell’arte, non svalutando ulteriormente i titoli di studio e le professionalità delle persone che hanno scelto di investire nella cultura ma per cercare di ridare loro dignità e lavoro che ormai hanno perso da tempo. Soprattutto per i piccoli musei è difficilissimo senza finanziamenti pubblici riuscire a rimanere aperti e molti sopravvivono solo con l’aiuto del volontariato, qui sì ben impiegato, ma che non elimina il problema: in questi contesti vengono impiegati dei professionisti che nessuno paga, però il visitatore è ben lieto di andare a vedere quel museo piuttosto che quell’altro, di partecipare a conferenze e approfondimenti molto spesso gratuite e rimanere affascinato dalle collezioni che in esso vi sono conservate e dal racconto che una guida volontaria racconta su di esse senza venire pagata, quindi senza che di fatto gli sia riconosciuto il LAVORO che ha svolto. Bello così, piacerebbe a tutti! A voi No?

La letteratura, la storia dell’arte, la storia, la filosofia, la ricerca più in generale non sono mere categorie astratte e prive di valore solo perché non generano utili da capogiro, sono le ancelle della conoscenza e della coscienza universali, senza le quali gli esseri umani assomiglierebbero più a delle bestie, cosa a cui siamo sempre più vicini e le prospettive per il futuro sono assai poco incoraggianti.

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Bisogna smetterla di credere che il turismo e il settore culturale siano solo gli alberghi, i ristoranti, le spiagge, i rifugi montani, gli impianti di risalita e sciistici, i centri benessere, finanche i super musei, guarda caso tutti settori che generano utili esorbitanti! Almeno fino a prima della crisi pandemica. Le vere energie del settore culturale sono le persone che vi lavorano e anche e soprattutto tutti quelli che non vi lavorano e che per una ragione o per un’altra spesso non dipendenti dalle persone stesse, stanno ai margini di questo settore e vengono sfruttati e non pagati per le loro professionalità e che se fosse riformato come Dio comanda, risolverebbe innumerevoli problemi economici, nonché contribuirebbe a migliorare la vita di centinaia di migliaia di persone.

Insieme al volontariato scriteriato un altro abominio del settore culturale per non dire un vero aborto sono gli stage, un altro mezzo per sfruttare giovani o giovanissimi professionisti senza che questi vengano pagati uccidendo il lavoro culturale salariato. Oggi giorno sono moltissime le aziende culturali (per non dire quasi tutte), come ad esempio i musei gestiti da fondazioni private o pubbliche, ma anche le case editrici, che usufruiscono di tale mezzo di oppressione e sfruttamento delle professionalità che solo in rarissimi casi si concretizza in un contratto di lavoro o pseudo tale retribuito e nemmeno a dirlo a tempo determinatissimo e in casi del tutto miracolistici in un lavoro a tempo indeterminato. Un’ulteriore ingiustizia, quasi una beffa, risiede nel fatto che alcuni enti invece di scegliere persone qualificate a cui concedere di svolgere lo stage presso le aziende, scelgono come stagisti persone che non avendo un titolo di studio adeguato possiedono però un gran numero di followers sui social, Instagram in particolar modo. Ecco cos’è diventato il mondo della cultura, un centro commerciale social, dove alle competenze si preferiscono i Likes: DISGUSTOSO! La qual cosa non fa che confermare quanto detto poco sopra: c’è la volontà di svalutare il valore dei titoli di studio a favore della vastità del vuoto e dell’ignoranza. E la cosa peggiore è che non frega niente a nessuno ne a destra ne a sinistra, ne tanto meno al centro. Provare per credere.

Un altro di questi mezzi per l’utilizzo della “mano d’opera a bassissimo costo” è divenuto il Servizio Civile Nazionale nel settore culturale. Spesso infatti, data la scarsità per non dire la totale assenza di prospettive di lavoro nel mondo dei beni culturali, giovani professionisti scelgono di iscriversi al Servizio Civile Nazionale nel settore cultura per prendere confidenza con il mondo culturale nella speranza di immettersi così in un campo per il quale hanno studiato o stanno studiando. Una volta entrati, oltre a svolgere tutta una serie di “attività civili” previste dal servizio, devono svolgere numerosissime ore, spesso ben di più rispetto a quelle previste dal loro contratto, all’interno degli enti culturali che li hanno selezionati. Il loro compenso mensile, a fronte di 30/40 ore settimanali o anche di più, è di 433 euro. Ah se questa è dignità, ah se questo è un uomo! Alla fine dell’anno civile questi sperano di ricevere una proposta di collaborazione mediante un contratto che solo in rarissimi casi diventa realtà e solo nelle istituzioni che possono permetterselo cioè, allo stato attuale della situazione, pochissime o nessuna.

Come si possono invogliare questi professionisti a non abbandonare l’Italia per gli altri paesi dell’Unione Europea se non gli si offrono prospettive nella loro patria? È inutile che i telegiornali ci vengano a raccontare che nel nostro paese c’è la fuga di cervelli, perché chi è del mestiere queste cose le sa già perfettamente e la colpa è del governo e dei suoi ministri. E della retorica mi sono un po’ stufato. Anzi tutto all’estero i titoli di studio italiani sono molto più considerati rispetto all’Italia, anzi molte aziende internazionali cercano professionisti usciti dalle università italiane perché sanno che la preparazione degli studenti italiani è superiore nella maggior parte dei casi a quella che forniscono gli istituti scolastici europei, solo l’Italia non se ne è accorta o finge di non saperlo e ancora una volta non riesco a capire se è colpa dell’ignoranza regina o se, aspetto più inquietante, è una cosa voluta a beneficio di chi però rimane ancora un mistero. Possibile che la gente non riesca ad accorgersi che se si va avanti così si rischia il collasso dell’intero sistema culturale? Con tutto quello che questo porterebbe dietro di sé?

In tutto ciò, dove sta la dignità? Dove si può scorgere la dignità del lavoro che la nostra costituzione promuove all’articolo 1 come uno dei diritti fondamentali dell’essere umano e come pilastro sul quale si erge l’intero stato italiano e la nostra democrazia?

«L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul LAVORO.  La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»

Io personalmente non lo vedo e credo di non averlo mai visto fin da quando ho intrapreso la mia formazione di storico dell’arte. Ora che sono arrivato alla fine di quel percorso l’inquietudine per una prospettiva del genere è tanta e l’amarezza e la rabbia di più. Nel settore della cultura la dignità del lavoro, il valore della ricerca, il prestigio dei titoli di studio in Italia sono una chimera, un’utopia, un miraggio, un sogno, una speranza infranta, una dignità lesa.

Occorre una riflessione attenta e soprattutto occorre concretezza nel mettere in campo una strategia culturale e scolastica da mettere in funzione subito, non domani non fra un mese, ora, subito, immediatamente, che porti questo paese a rimettersi in carreggiata eliminando alla radice le ignobili ingiustizie che fino a questo momento si stanno perpetrando a discapito dei professionisti senza lavoro e sfruttati del mondo culturale. Basta parole, slogan, propaganda: BISOGNA AGIRE ORA!

Marco Audisio

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