È la fine dell’XI secolo e nella Francia meridionale, in Provenza, iniziano a venir composte le prime liriche trobadoriche, cioè le prime vere e proprie poesie in lingua volgare scritte in Europa. Il tema centrale di questi componimenti è l’amore, e più precisamente quel fin’amor senza macchia, profondo e benefico che, come diremmo noi moderni, è in grado di smuovere mari e montagne.
E in effetti, per il fin’amor, i valorosi cavalieri attraversavano veramente mari e monti, superando prove morali e fisiche difficilissime. Era infatti solamente dimostrando la loro forza e la loro determinazione che questi eroi si sarebbero resi degni di recarsi al cospetto di colei che comandava il loro animo come una vera regina. Per la domina del loro cuore, i cavalieri si prestavano quindi al così detto servizio d’amore, facendosi protagonisti dei più famosi componimenti epici e lirici del medioevo.

Anche nella nostra penisola, con la scuola siciliana prima e il dolce stil novo poi, i versi dei poeti si popolano delle stesse dinamiche amorose. A ricoprire la figura dell’innamorato, questa volta, è il poeta stesso, che profondendo la sua bravura compositiva nei versi indirizzati alla dama amata, spera di ricevere da questa un cenno, un riconoscimento di stima. Come dimenticarci del famosissimo saluto di Beatrice, talmente carico di forza benefica e salvifica da trasformare il corpo di Dante in «cosa grave inanimata» per l’emozione…
E quando questa gentilissima salute salutava, non che Amore fosse tal mezzo che potesse obumbrare a me la intollerabile beatitudine, ma elli quasi per soverchio di dolcezza divenia tale, che lo mio corpo, lo quale era tutto allora sotto lo suo reggimento, molte volte si movea come cosa grave inanimata. Sì che appare manifestatamente che ne le sue salute abitava la mia beatitudine, la quale molte volte passava e redundava la mia capacitade. (Vita nuova, Cap. XI)
Ora, che a innamorarsi sia un eroe valoroso come il paladino Orlando o dei poeti e studiosi eminenti come Guido Cavalcanti e Dante Alighieri, al centro delle prime liriche in volgare capeggia però pur sempre la dama amata. Le prime liriche in volgare rimangono quindi saldamente ancorate allo schema tradizionale della domina amata che, in cambio di lodi e imprese moralmente significative, concede grazia e beatitudine.
Una bella responsabilità, concedere grazie e beatitudine, direte voi.
Certo, vi risponderà direttamente Beatrice Portinari, aggiungendo però poi che neppure la principessa più raffinata ed elegante che esista vive solo di bellezza, onestà, gentilezza e che ai versi incensati e lievi dei sommi poeti corrisponde sempre anche un’altra voce, forse non così soave e leggiadra come le si dice che dovrebbe essere, ma pur sempre vera. Sta parlando, Beatrice, della voce di tutte le dame e principesse e regine che sì, salutano e sorridono, ma pensano anche, a volte, di come stare composte e mostrarsi lusingate di ricevere lodi, riverenze e inchini, sia solo una grande noia.

La testimonianza di Beatrice Portinari viene riportata da Stefano Benni nel suo Le beatrici (2011), una piccola raccolta di «monologhi teatrali e poesie varie», aperta appunto dalla cantatissima dama di Firenze. I monologhi sono tutti al femminile, riprendono miti antichi e moderni, riadattano canzoni di De André e, soprattutto, sono spazi liberi dove finalmente le eroine letterarie e non solo possono finalmente rispondere anche loro «per le rime» agli stereotipi che si sono viste addossare in secoli di poesia.
Dicono “sii paziente, egli è un poeta, ti regala i suoi versi”.
Eh, bella fava!
Già ne ha scritto uno, di verso, che te lo raccomando:
TANTO GENTILE E TANTO ONESTA PARE.
Certo che il letterato capisce che PARE sta per APPARE.
Ma quelli del borgo San Jacopo, quando passo, li sento: “Guarda la Bea, la Beatrice
Portinari…sai che c’è? Tanto gentile e tanto onesta…PARE”
E giù che ridono. Bel servizio mi ha fatto, la Poiana canappiona.

Nella sua raccolta, Benni toglie l’alone allegorico e mistico che circondava le donne angelicate della tradizione cortese e, per rendere ancora più effettiva questa operazione, lascia a loro la parola. Si capovolge qui quello schema caratteristico delle prime liriche in volgare, dove la dama amata era sì il motore dell’azione, ma era anche irrimediabilmente muta. Ora, invece, in queste pagine, l’autore non restituisce solo un pensiero (a volte dissacrante) alle protagoniste femminili, ma crea anche figure inedite che rendono la successione dei monologhi una piacevole mistura tra antico e moderno. Sotto il nome di Beatrice, la musa ispiratrice per antonomasia, vengono raccolte le storie e le testimonianze di donne di tutte le età, con accompagnamento rock o fox trot o cantautorale. La lettura, scorrevole e divertente non è forse la trattazione più rispettosa della storia letteraria, ma adempie perfettamente al compito di dare risonanza a quella sacrosanta libertà delle eroine fantastiche di affermare che, sì, è un grande onore venire cantate da un sommo poeta, però, ecco, «io sono una donna, mica una serenata» e che «le mie poesie me le scrivo da sola».
Federica Rossi
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