Milano, Monet e il Museé Marmottan

Anche quest’anno la stagione culturale milanese, con il palinsesto di Palazzo Reale in prima linea, offre non poche opportunità di trascorrere un lieto pomeriggio in compagnia degli artisti più celebri, e Monet. Opere dal Musée Marmottan di Parigi – in scena fino al prossimo 30 gennaio – diventerà sicuramente una fra le meglio gettonate. 

Curata da Marianne Mathieu, la mostra si avvale di una collaborazione prestigiosa. Tale infatti rappresenta il prestito elargito dal principale museo dell’impressionismo nonché depositario della maggiore collezione di tele, disegni, quaderni, lettere, fotografie e oggetti personali del pittore che ha realizzato il famosissimo Impressione, levar del sole, situato proprio nella culla di un movimento che, nonostante il passare del tempo, si caratterizza per l’inesauribile capacità di richiamare il grande pubblico.

Fig. 1. Il Musée Marmottan Monet di Parigi, rappresentato in una gigantografia all’inizio della mostra

Ospitando così una parte di quell’eredità paterna che Michel Monet ha donato al Marmottan nel 1966, Milano celebra il capostipite degli impressionisti e lo esalta con una mostra in grande stile. Non particolarmente lunga, anzi: si vede in un soffio, e le opere esposte si lasciano pure apprezzare. Ancora una volta, però, duole riscontrare un errore di fondo nella concezione del progetto espositivo. Dove sbaglia, infatti, è nel confezionamento misurato su una precisa e monodimensionale idea di pubblico, riproponendo quindi tutti i crismi di un’attrattiva talmente sbilanciata verso il profano e l’appassionato da non lasciare soddisfatto l’addetto ai lavori; ammesso poi che una simile distinzione vada fatta. Ma per adesso non parliamone.

Fig. 2. Charles Giron, Ritratto di Claude Monet nel suo atelier, 1884, olio su tela, Parigi, Musée Marmottan Monet

Riscoprire il maestro. Su una cosa non c’è dubbio. Oscar-Claude Monet, nato a Parigi nel 1840, e morto a Giverny nel 1926, è stato un grande della pittura contemporanea. Una voce fuori dal coro in un confuso baccano di tendenze opposte; come quello che per tutto l’Ottocento, e in particolare nella sua metà a noi più vicina, ha continuamente investito pittori, critici, mercanti e acquirenti, tirandoli a volte per la giacchetta verso nostalgie passatiste o aspirazioni di rinnovamento.

Con il suo occhio («…ma, buon Dio, che occhio!», avrebbe detto Cézanne) inedito e perspicace, destinato a soffrire di cataratta verso la soglia degli ottant’anni, Monet ha letteralmente rivoluzionato come si dipinge, non solo portando a compimento la sperimentazione dell’en plein air, ma anche perfezionando una tecnica in cui la stesura pastosa del colore suggerisce a chi osserva un istantaneo, fugace e vigoroso barlume di movimento.

Fig. 3. Claude Monet, Primavera tra gli alberi, 1878, olio su tela, Parigi, Musée Marmottan Monet

I numerosi soggiorni nelle diverse località francesi e all’estero, inoltre, gli hanno permesso di vedere il mondo ogni volta sotto una luce diversa; nel vero senso della parola. Che fosse mattina, pomeriggio o sera, con il cielo nuvoloso o brillante, nella caligine londinese o fuori città, Monet non ha perso l’occasione di esplorare il risultato del cangiante sovrapporsi fra l’oggetto ritratto e il filtro degli agenti atmosferici.

Fig. 4. A sinistra: Claude Monet, Il ponte di Charing Cross, 1899-1901 ca, olio su tela, Parigi, Musée Marmottan Monet. A destra: Claude Monet, Londra. Il parlamento. Riflessi sul Tamigi, 1905, olio su tela, Parigi, Musée Marmottan Monet

Così, a Londra, l’artista ha dipinto il parlamento inglese affacciato sul Tamigi nel proprio apparire dall’intensa foschia, e il ponte ferroviario di Charing Cross in una tela dove l’abbozzo ha consentito di registrare un momento di interazione fra questo ninnolo della modernità, l’acqua e il cielo.

Presso i lidi della costa atlantica, le aspre vallate della Creuse o i boschi di Argenteuil e Courbevole, nella periferia parigina – mete preferite dalla borghesia locale in cerca di riposo nel fine settimana –, la sua attenzione si è concentrata invece sulle barche a vela che attraversano il mare, con il sole che vi si rispecchia al tramonto, oppure sui paesaggi lussureggianti e le campagne piene di verde dov’è piacevole inoltrarsi per una passeggiata. Tutti soggetti che hanno permesso ad un osservatore attento nonché ricercatore instancabile di quell’attimo fuggente che solo la fotografia, in quegli stessi anni, sembrava potesse bloccare, di seguire con interesse analitico gli effetti delle varie condizioni luminose e il modo in cui queste ultime influenzano la visione delle cose.

Fig. 5. A sinistra: Claude Monet, Passeggiata vicino ad Argenteuil, 1875, olio su tela, Parigi, Musée Marmottan Monet. Al centro: Claude Monet, La spiaggia di Pourville. Sole al tramonto, 1882, olio su tela, Parigi, Musée Marmottan Monet. A destra: Claude Monet, Valle della Creuse. Effetto sera, 1889, olio su tela, Parigi, Musée Marmottan Monet

A queste trasferte si devono i molti quadri che Monet ha realizzato per esporre ovunque la novità di una pittura fatta per macchie di colore venisse apprezzata, e che oggi testimoniano un percorso artistico teso a catturare il manifestarsi del vero.

Con lo stabilirsi a Giverny, Monet ha legato per sempre questo luogo alla cultura dell’impressionismo. E in quell’ameno scorcio della bassa Normandia, egli ha realizzato alcune delle serie più famose; non solo le ninfee. Dipingendo il salice piangente o i viali di roseti in fiore che popolavano il suo giardino, Monet ha raggiunto livelli in cui la forma si dissolve (complice probabilmente anche la vista appannata di cui si lamentava nella corrispondenza con gli amici) al punto tale da preludere ai linguaggi della rappresentazione astratta e informale che avrebbero caratterizzato il secolo successivo.

Fig. 6. A sinistra: Claude Monet, Il ponte giapponese, 1918-1924 ca, olio su tela, Parigi, Musée Marmottan Monet. Al centro: Claude Monet, Il salice piangente, 1921-1922 ca, olio su tela, Parigi, Musée Marmottan Monet. A destra: Claude Monet, Il giardino di Giverny, 1922-1926 ca, olio su tela, Parigi, Musée Marmottan Monet

Le ninfee, la ricerca della serenità. Ritrarre più volte lo stesso soggetto, per Monet, non è stato solamente un indagare il fenomeno della luce nel suo rapporto con il mondo, diventato nel frattempo eccessivamente vorticoso, oltreché sfocato, e la nostra visione di esso. Coltivando un’ossessione sana per il tema ricorrente, è come se il pittore avesse cercato nello splendore di Giverny un rifugio tranquillo. Un terreno di sfida, senza dubbio, e forse allo stesso tempo un luogo di consolazione per i sopraggiunti limiti della sua vista.

Questo in breve era Monet, o per lo meno quello che ne emerge dalla mostra milanese.

Fig. 7. A sinistra: Claude Monet, Ninfee, 1903, olio su tela, Parigi, Musée Marmottan Monet. Al centro: Claude Monet, Ninfee, 1907, olio su tela, Parigi, Musée Marmottan Monet. A destra: Claude Monet, Ninfee, 1916-1919 ca, olio su tela, Parigi, Musée Marmottan Monet

Un’altra mostra, soliti errori. In totale sono circa una quarantina i dipinti che s’incontrano lungo il percorso; di questi i primi tre (se non addirittura quattro, considerando anche il Ritratto di Monet eseguito da Charles Giron nel 1884) risultano una scelta fuori luogo, vuoi perché esulano dal catalogo monetiano, vuoi perché le attinenze con lo stesso, per quanto esistenti, si prestano ad accostamenti che se non vengono progettati bene risultano peregrini e disorientanti. Ad essi poi si aggiungono i consueti memorabilia: la tavolozza e gli occhiali adoperati dall’artista, reperti archeologici di un passato prossimo che dovrebbero essere in qualche modo la prova che egli sia effettivamente esistito. Il resto è tutta un’accozzaglia di proiezioni (fortunatamente poche) che scimmiottano le esperienze immersive del Mudec, e pannelli esplicativi che dovrebbero svelare, al visitatore che si ritrova sempre più trattato alla stregua dei bambini, i presunti segreti o trucchi del maestro, con una banalità inenarrabile. Chi non ha mai visto un paesaggio attraverso la nebbia o la luce del sole al mattino, e in quale modo che nessuno evidentemente riesce ad immaginare da solo dovrebbe vedere un uomo che negli ultimi anni della sua vita ha cominciato a non vederci più nitidamente? Non commentiamo poi il fatto che molti di questi supporti, in tempo di pandemia, richiedono di lasciarsi coinvolgere in prima persona, mettendo proprio fisicamente le mani o addirittura gli occhi, e tralasciamo le sale comunque molto gremite, complice un doppio binario di accesso prenotati/non prenotati che vanifica del tutto il distanziamento.

In questo parco giochi a tema dove l’arte del grande pittore francese ha preso il posto e assunto il ruolo dei pirati e degli eroi del far west, non manca certo il modo d’imparare qualcosa e apprezzare tutte le novità di cui Monet è stato capace. Anche se non c’è da riportarne il merito all’audioguida dai contenuti scarni, o alle didascalie al contrario eccessivamente verbose per essere lette da grandi masse di persone.

Fig. 8. Alcune delle installazioni ludico-esplicative che accompagnano la visita della mostra

Il nostro giudizio: Monet… anche no. Sono anni che frequentiamo e recensiamo le mostre di Palazzo Reale, e ormai dovremmo avere imparato che aspettarci il meglio – sulla cui fisionomia ideale e auspicabile rimandiamo all’ottimo saggio della coppia Montanari/Trione: Contro le mostre, edito nel già lontano 2015– rimane una pia illusione.

Invece, ancora una volta, ricadiamo nell’errore, diventato col tempo sempre più un segno di candida ingenuità, di chi non intende farsi pregiudizi. E pertanto sopportiamo una fila all’ingresso non certo estenuante come quella che attende chi non ha prenotato la visita da almeno un mese, solo per vederci disattendere un mare di speranze e farci ricordare di come faccia la disneyfication più selvaggia ad essere ancora un problema vivo e attuale. L’idea, in altre parole, che la cultura debba arrivare a tutti, e a tutti ma proprio tutti i costi; come se il fine di portare al museo il più alto numero di persone (ovviamente paganti) giustificasse anche i mezzi più abietti, la comunicazione più semplice, la didattica più banale, la curatela più raccogliticcia e il vuoto scientifico alle spalle dell’allestimento più mirabolante e spettacolare. 

Niccolò Iacometti

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