Mancava fino a questo momento una monografia su Daniele De Bosis (notizie dal 19 maggio 1479, già morto nel 1505) e sull’attività artistica portata avanti dai suoi figli (Arcangelo, Francesco e Giovanni Pietro), che cercasse di ricostruire il catalogo delle opere di una delle più importanti e prolifiche botteghe piemontesi attiva prevalentemente tra il novarese e il biellese. Ora un libro tenta di far luce sui numerosi cicli di affreschi sparsi per i territori appena citati e di mettere a fuoco iconografie, dati di stile e nuove proposte attributive. Si tratta del libro di Claudia Ghiraldello edito da Allemandi, la nota casa editrice torinese, che si intitola Daniele de Bosis e la bottega dei suoi figli, 202 pagine, 48 euro, rilegato e con copertina rigida in cartonato.

Va subito detto che in questo libro si possono riscontrare, secondo chi scrive, diverse criticità che andrò ad illustrare fra breve, ma tuttavia presenta indubbiamente anche dei punti di forza che certamente vanno immediatamente sottolineati. Il primo in assoluto è quello di riuscire a vedere finalmente in maniera quanto più organica possibile il corpus di opere di questa interessantissima bottega, la cui cifra stilistica e peculiarità è l’utilizzo, all’interno delle sue pitture, del fiore di cardo come motivo decorativo inserito ad esempio nei manti delle Vergini, nei tendaggi a drappi e sui mantelli dei Santi. Altro punto forte è l’apparato delle tavole a colori, molte a piena pagina, che finalmente rendono giustizia agli innumerevoli cicli ad affresco realizzati dal De Bosis e dalla sua bottega, in seguito gestita da due dei suoi tre figli e di cui diremo qualcosa più avanti nel corso dell’articolo. Aggiungo che tale apparato iconografico è decisamente molto più ampio rispetto al testo scritto; le immagini infatti si frappongono tra una sezione e l’altra del volume. Prima nota dolente: il testo, così come l’intero libro sarebbe di gran lunga più comprensibile se quando si parla di un’opera specifica, o dei suoi particolari, ci fosse il suo rimando al corredo iconografico e viceversa. Il lettore farebbe meno fatica nel reperire le opere di cui si sta parlando nel testo, e invece ogni volta che ci si imbatte in un dipinto bisogna far passare tutte le volte tutte le immagini prima di riuscire a memorizzare in quale pagina si trova l’opera che interessa vedere. Ci sarebbe voluta una maggiore cura anche nella stesura delle didascalie, in quanto ritengo che quando si cita il nome di un artista, a meno che non si stia parlando di Leonardo, Michelangelo, Raffaello, eccetera (ma anche in quel caso avrei qualche dubbio ad usare il solo nome di battesimo), esso vada scritto per esteso, vale a dire nome e cognome e non solo con il suo nome proprio che rende infatti troppo colloquiale un aspetto che invece dovrebbe risultare quanto più scientifico possibile.

Altro punto debole del volume: sebbene nel testo si incontri una descrizione molto bene accurata dei cicli di affreschi realizzati dal De Bosis, l’autrice si sofferma poi oltremisura su dettagli che appaiono ridondanti e spesso e volentieri un poco noiosi, dedicando ad essi intere sezioni del volume.

Ecco allora che ci si imbatte in pagine e pagine dove l’attenzione è focalizzata su massacranti aspetti iconografici come ad esempio tutte le opere in cui compaiono i leprotti, i conigli, il bue e l’asinello, i colombi, il cardellino, i cavalli, i maiali e le cinte senesi, la fauna ittica, i pesci, le anguille, i mostri, i diavoli, le collane di corallo, i gioielli, gli anelli, le vesti nobili e umili, l’abbigliamento ecclesiastico, le aureole, le descrizioni degli abbigliamenti indossati dai committenti, le calzature, la biancheria, gli accessori, i guanti, i fazzoletti, i foulard, i pastorali, i cuscini, i coltelli, i paesaggi, i berretti, i turbanti (un vero manuale di storia del costume), gli attributi iconografici di San Sebastiano (quando vestito e come e quando nudo con le frecce), di San Rocco, le pantofole (eleganti o modeste), le scarpe (quelle lustre e laccate da quelle bucate che lasciano vedere i piedi nudi); tutti questi aspetti sono poi messi a confronto con tutti quelli conosciuti dell’artista e della bottega, il tutto con rimando alle opere e quindi alle immagini del volume, ma senza alcun riferimento.

Si presta attenzione a dettagli che variano di poco o pochissimo e se ne giustifica la discussione affermando che prima d’ora nessuno li ha notati. Ebbene sembra evidente che una bottega come quella in questione, che ripeteva quasi senza variare le sue composizioni abbia riproposto, vorrei dire fin quasi alla nausea, le stesse composizioni, gli stessi santi e sante, le stesse pantofole, ciabatte, leprotti, conigli, collane di corallo al collo del Bambino, abbigliamenti dei committenti, frecce piantate nel corpo di San Sebastiano, pustole sulle gambe di San Rocco e chi più ne ha, più ne metta, con varianti minime o nulle rispetto alle idee compositive iniziali del capo bottega.

Certo alcuni confronti vengono proposti per avvalorare alcune attribuzioni, altri invece risultano superflui. Spiace poi non avere delle immagini che diano conto di una panoramica generale dei cicli affrescati; gli unici due esempi in cui si riesce a cogliere abbastanza bene il quadro generale sono gli affreschi absidali (che sono solo una parte del ciclo) della Madonna del latte di Gionzana (Novara) e la decorazione absidale dell’Oratorio di San Rocco a Mezzana di Mortigliengo (Biella). Il bel ciclo decorativo della chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Castellengo (frazione di Cossato, Biella) realizzato in due momenti, il primo entro il 1496 e il secondo entro il 1515 dalla bottega, occupa più di un terzo dell’intero apparato iconografico del volume, ma ahimè è sparso per tutto il volume in particolari affiancati ad altri senza che ne sia data una veduta d’insieme o almeno dei generali delle volte a crociera con relative scene affrescate cosicché se ne possa capire l’ordine e la disposizione.

Mi sembra poi che la bibliografia in fondo al volume inserita nelle note al testo sia alquanto scarsa e un poco, mi si permetta, autoreferenziale. Si citano parecchi testi dell’autrice dello stesso volume, indubbiamente un’esperta dell’argomento e con diverse pubblicazioni di approfondimento al riguardo, ma si dedica davvero troppo poco spazio a testi critici (pure presenti) che sono di fatto la base di partenza per studiare questa bottega di artisti e i relativi edifici dove le opere sono conservate. Il volume sugli Affreschi novaresi del Trecento e del Quattrocento (2006) a cura di Fabio Bisogni e Chiara Calciolari è genericamente citato in un’unica nota insieme a diverse altre e all’autorevole voce del Dizionario Biografico (1985) su Daniele de Bosis e sui suoi figli curata da Paola Astrua. Queste due voci bibliografiche, ma specie la prima che abbiamo citato, discutono di numerosi cantieri dove hanno lavorato i De Bosis, non solo, ma per alcuni di questi edifici si racconta anche la loro storia con tanto di rimando a diverse altre voci bibliografiche. Voci che nel volume che stiamo esaminando sono assai diradate, limitate davvero alle principali, e a volte a malapena citate. Sarebbe stato bello vedere segnalata, soprattutto per i grandi cantieri di cui si discute nel libro, oltre che generici rimandi bibliografici per ciò che concerne le decorazioni, anche qualche voce bibliografica di rimando in più sulla storia dei vari edifici, penso ad esempio al caso della chiesa di San Martino già Santa Maria delle Grazie a Novara, a quello della chiesa di Sant’Alessandro a Briona, o ancora a quello della Madonna del latte di Gionzana, che nel volume Bisogni Calciolari sono molto ben esemplificati.

Abbastanza ben riuscita è sicuramente la prima parte del volume dove si discute delle opere sicure di Daniele de Bosis e dove finalmente si pubblica in grande formato e a colori lo splendido, ma stilisticamente alquanto attardato, Polittico della chiesa di San Giacomo a Biella-Piazzo, firmato dall’artista e datato 1497 raffigurante la Madonna col Bambino tra i Santi Giacomo e Gottardo e che è impossibile da vedere dal vivo poiché l’edifico è sempre rigorosamente chiuso. Altra parte ben riuscita è quella dove si discute delle influenze figurative sull’arte del De Bosis, dagli influssi delle Madonne di Giovanni Martino Spanzotti fino ai rimandi compositivi delle opere di Vincenzo Foppa così come si possono vedere nella predella del Polittico di Savona (in collaborazione con Ludovico Brea) e nell’Adorazione dei Magi della National Gallery di Londra, modelli a cui Daniele De Bosis e la sua bottega si sono forse ispirati per le Adorazioni dei Magi di Castellengo e della chiesa della Madonna della Neve a Suno.

Intrigante è poi la discussione su un fregio che la studiosa ha rinvenuto in una casa privata presso Biella-Piazzo, messo a confronto con gli affreschi che il pittore Gerolamo Tornielli da Novara ha eseguito all’interno della chiesa di San Sebastiano a Biella. L’autrice, per quanto attiene gli affreschi del fregio di Biella-Piazzo, sostiene che siano opera della bottega dei figli di Daniele De Bosis e che la committenza spetterebbe a un membro della famiglia Ferrero. Inoltre la Ghiraldello avvicina il fregio biellese agli affreschi a grottesca della chiesa di San Martino (già Santa Maria delle Grazie) a Novara nonché con quelli di San Sebastiano e San Gerolamo a Biella senza tuttavia pubblicare alcun confronto tra i vari cantieri né citare chi si sia già occupato della faccenda (perché è successo). Se così fosse si potrebbe svelare un mistero che ancora oggi rimane senza una risposta definitiva e che qui ho deciso di esporre aprendo una breve parentesi per certi versi inedita, che devia solo per un momento dal nostro discorso.

Se si confrontano i personaggi e le figure che si trovano nel fregio con motivi decorativi a grottesca esaminato dalla studiosa con quelli sulle volte di San Sebastiano a Biella e li si paragonano a quelli da poco restaurati da Federico Barberi e dalla sua équipe sulla volta della cappella dell’Immacolata concezione della chiesa di San Martino (già Santa Maria delle Grazie) a Novara, la quarta cappella a sud (cioè sulla destra) dell’edificio, terminato il 19 settembre 2018, si converrà che molte sono le analogie. Solo Giovanni Romano fino ad ora sembra avere evidenziato la portata innovativa per Novara del «fittissimo apparato ornamentale, di vitale fantasia antichizzante» che trova riscontro nei prodotti dell’archeologia letterata presenti in alcune chiese di Milano, Vercelli e Biella.

Paola Astrua e Giovanni Romano ricordano inoltre che proprio nella chiesa di San Sebastiano a Biella, un tempo di pertinenza dei canonici regolari lateranensi, proprio come l’edificio novarese, aveva lavorato nei primi decenni del Cinquecento il poc’anzi citato pittore Gerolamo Tornielli da Novara che sulle volte di San Sebastiano si firma fieramente Hieronimvs De Tornielis Novariensis pinxit. Un riferimento legato a questo gusto antichizzante nella chiesa delle Grazie potrebbe valere anche per la frammentaria decorazione a grottesche brune su fondo chiaro condotte con grande libertà sulla lesena che inquadra l’accesso della seconda cappella a sinistra in San Nazzaro della costa a Novara e anche per la volta della stessa cappella anch’essa con motivi a grottesca, decorazione che rappresenta un importante aggiornamento figurativo per la chiesa di osservanza francescana. Soprattutto dopo l’intervento di restauro di Barberi nella cappella dell’Immacolata di San Martino, sembra ora di poter rilevare connessioni ben più profonde tra le decorazioni dei quattro edifici.

L’autore o gli autori dell’apparato ornamentale nella chiesa dei canonici lateranensi dovevano essere aggiornati oltre che sulle novità artistiche e sulle decorazioni che andavano sviluppandosi per il territorio compreso tra Novara, Vercelli e Biella e che stavano fiorendo con grande velocità, anche su contaminazioni che venivano d’oltralpe, forse dall’ambito francese. Vittorio Natale è ritornato a parlare, seppure in poche righe di nota, delle grottesche della chiesa novarese in un saggio comparso all’interno del catalogo della mostra su Sebastiano Ferrero svoltasi nel 2018. Lo studioso sostiene per la chiesa delle Grazie un intervento dello stesso Gerolamo Tornielli, e sottolinea che «il legame novarese con Biella è attestato dalla vicinanza di alcune delle vele delle navate laterali di San Sebastiano con la decorazione di Santa Maria delle Grazie a Novara: un convincente confronto, non solo compositivo, è ad esempio istituibile tra la decorazione della vela con lo stemma Ferrero della prima cappella laterale destra entrando in San Sebastiano, con la vela della chiesa di Santa Maria delle Grazie di Novara recentemente restaurata da Federico Barberi con la direzione di Massimiliano Caldera e per la parte architettonica, di Cristina Natoli».

Seguendo il ragionamento di Natale, se si confrontano alcune delle grottesche di San Sebastiano, come quelle nelle vele della volta della terza campata laterale sinistra, con quelle della cappella dell’Immacolata delle Grazie, si osserva che in entrambe le volte compaiono curiose e peculiari creature dalle sembianze faunesche che sbucano da tralci di fogliame, teste di puttini e creature bambinesche che si arrampicano su quegli stessi tralci erbacei da cui sbucano i fauni e che sembrano appartenere al pennello e alla mente stravagante di un medesimo artista: Gerolamo Tornielli.

Queste curiose e peculiari creature dalle sembianze faunesche si ritrovano con minime varianti anche nel fregio del Piazzo. Nel giro di anni di cui ci stiamo occupando va sottolineato che i legami tra San Sebastiano a Biella e Santa Maria delle Grazie a Novara sono inoltre molto stretti per via del fatto che il prevosto del monastero biellese è il lateranense Leonardo da Novara. Un possibile rapporto tra i due edifici potrebbe inoltre vedere come protagonista il presunto architetto e pittore Eusebio Ferrari: questo infatti sarebbe il probabile artefice del progetto architettonico sia di Santa Maria delle Grazie (ipotesi che al momento rimane tale), che di San Sebastiano anche se oggi la paternità del progetto della fabbrica biellese (già proposto da Giovanni Romano) è sostenuto dalla critica con cautela.

In San Sebastiano Natale ravvisa inoltre, sempre per ciò che concerne le decorazioni di gusto antiquario, l’intervento di Eusebio Ferrari che avrebbe realizzato le pitture del portale d’ingresso nell’ex refettorio del monastero biellese e che sarebbe stato quindi in rapporti con Gerolamo Tornielli. A sostegno di ciò lo storico dell’arte argomenta sostenendo che «conosciamo di Tornielli un documento (uno dei pochissimi conservatisi sul novarese), che lo vede nel 1522 testimone in un atto di battesimo a Vercelli assieme a Eusebio Ferrari» e che tra i due artisti si instaurò molto probabilmente un reciproco scambio culturale nonché artistico. Altre grottesche all’interno della chiesa di San Martino a Novara presentano inoltre curiosità e stranezze che sembra nulla abbiano a che vedere con la simbologia religiosa, ma che vanno ad inserirsi in un contesto culturale e figurativo di forte matrice nordica. Basti pensare alla scena con due figure danzanti attorno a quello che somiglia a un arbusto, oppure alla scena in cui figurano tre bambini anch’essi danzanti mentre uno sta legando con delle corde un suo coetaneo.

Questi elementi più fantasiosi e fantastici, bizzarri e irreali potrebbero essere inoltre il frutto della permanenza di Tornielli in Francia presso la corte del potente cardinale Georges d’Amboise (in stretti rapporti con Sebastiano Ferrero), per il quale il novarese «è attestato nel 1502 a Rouen e a Gaillon per “rabillier la gallerie” e dal 1504 all’agosto del 1509 sempre presso il castello di Gaillon, impegnato assieme ad aiutanti francesi a decorare con “ymages” ed emblemi di fiori di giglio la “maison du Lindieu” del parco e il padiglione del giardino, oltre alla cappella per la quale era contemporaneamente attivo Andrea Solario». Cronologicamente parlando, non dovremmo essere troppo lontani dalla superba decorazione del San Sebastiano di Biella (in alcuni punti presumibilmente ridipinta come nel caso novarese in seguito ai pesanti interventi operati da Giulio Cesare Mussi), ovvero in anni compresi tra il 1515 e il 1520 circa, medesimo periodo in cui un pittore (forse vercellese?) fortemente influenzato dalle decorazioni biellesi si è espresso nelle decorazioni a grottesca presenti nella sequenza di stanze del piano terreno del Palazzo Arcivescovile di Vercelli e che risente fortemente delle vedute della Sala degli Stemmi del castello di Gaglianico, dimora di Sebastiano Ferrero, databili tra il 1518 e il 1520, dove per i motivi decorativi delle volte, tra gli altri, è stato convincentemente fatto, anche in questo caso, il nome del nostro Gerolamo Tornielli.

In conclusione va qui aggiunto che la stessa cultura figurativa, declinata tuttavia in maniera più corsiva, provinciale e modesta, si legge chiaramente anche sulla volta della prima cappella sulla destra della chiesa dei Santi Vito e Modesto a Mosezzo (Novara) non distante dalla Madonna del latte di Gionzana e che potrebbe imparentarsi con le decorazioni attribuite dalla Ghiraldello alla bottega dei De Bosi e già ricondotte dalla studiosa ad una probabile committenza di Sebastiano Ferrero, entro la quale potrebbe aver fatto parte il nostro Gerolamo Tornielli.

Tra le diverse novità che il volume fa emergere e che lascio al lettore più curioso la possibilità di scoprire da solo nella lettura, vorrei solamente portare all’attenzione quella della cosiddetta “Madonna della Cadrega” ossia della sedia (in dialetto novarese). Si tratta di un affresco conservato nella lunetta sopra l’architrave dell’ingresso interno presso la Casa Masserano al Vernato di Biella. È una Annunciazione ed è stata proprio la studiosa a ricondurre tale “consunto affresco” alla mano di Daniele De Bosis confrontandolo tra le varie opere con la bella scena di analogo soggetto di Castellengo. La particolarità di questo affresco sta nell’aver raffigurato, al posto del trono sul quale solitamente siede Maria durante la scena sacra (molto ben evidente nella scena di Castellengo), una sedia di paglia e legno molto umile e dal forte sapore popolare. Secondo la Ghiraldello si tratta «di una banalissima cadrega, di quelle che ricordano le vecchie cucine in legno grezzo. Si tratta di un timido omaggio fatto alla vita quotidiana da parte del pittore il quale, forse, mentre stava dipingendo aveva vicino a sé proprio una sedia simile e volle esternarne il ricordo in una scena tanto importante quale questa di Annunciazione». La studiosa continua ancora affermando che «il paragone aulico è ad esempio con la formella della porta ovest della parete sud della Santa Casa nel Santuario di Loreto, formella che, creata dai fratelli Lombardo, in un periodo molto più tardo (1566-1572) … raffigura per l’appunto un’Annunciazione comprendente nella scenografia della stanzetta della Vergine una comune sedia di legno».

Ebbene anzitutto non credo affatto che il pittore dall’alto di un ponteggio in legno e scricchiolante sul quale ha verosimilmente dipinto l’affresco, potesse davvero avere accanto a sé una sedia simile a quella raffigurata nel dipinto, e al di là del confronto fatto dalla studiosa con l’opera loretese, ritengo che il modello o se vogliamo il precedente al quale si è ispirato Daniele De Bosis per la sua Madonna delle Cadrega sia la bella Annunciazione della chiesa di San Nazzaro della Costa a Novara databile intorno al 1491 e opera della bottega di Bernardo Zenale, pittore con il quale il nostro Daniele lavorò a stretto contatto (insieme a molti altri) intorno al 1490 per decorare il Salone della Balla del Castello Sforzesco di Milano. La sedia che compare dietro la Vergine nel dipinto novarese pare esattamente identica a quella dell’affresco biellese. Inoltre si noti un’altra congiuntura: il leggio che lascia intravedere uno sportello con alcuni libri al suo interno che compare nella lunetta biellese sembra anche in questo caso copiato o quanto meno ripreso con qualche ingenuità da quello dell’Annunciazione di San Nazzaro della Costa a Novara. Questo è il sintomo che il linguaggio figurativo lombardo, in particolare zenaliano, penetrato all’interno dei territori di cui ci stiamo occupando e propagatosi a Novara grazie alle personalità che gravitavano attorno al cantiere francescano di San Nazzaro, sia poi stato ripreso da una bottega che certamente aveva avuto origine dal capoluogo lombardo, ma che scelse volontariamente o involontariamente di operare in territori decentrati e di provincia come quelli novaresi e biellesi con un linguaggio vernacolare assai semplificato.

Un altro esempio di come la cultura figurativa lombarda sia penetrata nei territori di cui ci stiamo occupando e nelle composizioni delle opere di Daniele De Bosis e della bottega dei suoi figli e su cui vale la pena di soffermarsi solo per un istante è la decorazione ad affresco della chiesa di San Clemente presso Occhieppo Inferiore (Biella). Nel volume a pagina 84 e 146 sono riprodotti due particolari in cui compare San Fabiano con ai piedi un bambino molto piccolo inginocchiato e con le mani in preghiera, abbigliato con un abito bianco a fasce che richiama la stessa posizione e lo stesso abbigliamento, seppure anche in questo caso più semplificato, del piccolo Ercole Massimiliano, secondo genito di Ludovico Sforza detto il moro e Beatrice d’Este che compare appunto nella stessa posizione nella cosiddetta Madonna del Maestro della Pala Sforzesca (1494-1495 circa, l’autore è stato verosimilmente identificato da Carlo Cairati in Giovanni Angelo Mirofoli da Seregno) conservata presso la Pinacoteca di Brera a Milano.

Dopo i confronti che fa la studiosa fra moltissimi santi rinvenuti nelle varie località sparse tra il novarese e il biellese non sono d’accordo su un’altra questione: vale a dire il rifiuto da parte dell’autrice del volume di considerare come opera della bottega dei De Bosis il grande affresco della Madonna delle Grazie oggi San Martino a Novara raffigurante la Madonna col Bambino in trono affiancata dai Santi Gerolamo, Giovanni Battista, Agostino, Monica e due canonici lateranensi inginocchiati. Afferma Claudia Ghiraldello che «tale affresco, ora visibile solo in fotografia essendo stato coperto da pennellatura a protezione in anni passati e già attribuito al De Bosis e alla sua bottega, non possa essere riferito a tale mano, bensì vada meglio assegnato ad altro membro del team di frescanti che lavorarono all’interno del cantiere pittorico della chiesa». Proprio grazie a questa pubblicazione e alla bella immagine del Polittico di San Giacomo al Piazzo sono ora più propenso a respingere quanto affermato dalla studiosa nel volume e a riconfermare la paternità dell’affresco novarese alla bottega dei De Bosis, anche in virtù del fatto che chi scrive ha visto dal vero l’affresco di Novara fotografandolo prima che venisse coperto. Se si guarda attentamente la quinta vegetale che si trova alle spalle dei Santi novaresi non si potrà che concordare sul fatto che questa è un chiaro richiamo al polittico biellese, senza contare che il trono sul quale siede la Madonna con il Bambino è assolutamente simile nell’esemplare affrescato nel ex refettorio dei canonici lateranensi di Novara. Certo lo stato in cui versa l’affresco non aiuta, ma tuttavia ritengo che molto abbiano ancora in comune i Santi a destra e a sinistra dell’affresco novarese con i due che si trovano nel polittico di Daniele De Bosis a Biella-Piazzo.

Il linguaggio utilizzato nel volume anche se non sempre di agile lettura a causa dell’uso di termini desueti ed eccessivamente arcaizzanti, è tuttavia appassionante ed evocativo e certamente si percepisce che esso è il risultato di un lungo lavoro. Si sarebbe voluto tuttavia più coraggio nell’affrontare e meglio discutere criticamente la cronologia degli innumerevoli affreschi pubblicati nel volume. Se è pur vero che per molti di questi dipinti definire una cronologia in assenza di documenti risulta impresa ardua, è altrettanto vero che una volta messa insieme una mole così ben organizzata di immagini riunite tutte in un solo luogo, vale a dire lo spazio del volume, io credo che un tentativo nel definire quale cantiere venga prima e quale dopo, avrebbe sicuramente fatto fare dei passi avanti agli studi su questo artista e la sua bottega. Certamente la studiosa si sarà accorta che al di là dei punti fermi quali ad esempio il Polittico di San Giacomo (1497), gli affreschi di Gionzana (1487-1488, seppur con interventi successivi), quelli già in San Marco a Varallo Sesia (1491 circa) oggi presso la locale Pinacoteca, quelli di San Pietro a Castellengo (eseguiti la prima fase entro il 1496, sono datati, e la seconda entro il 1515 anch’essi datati), o ancora quelli di Sant’Alessandro a Briona e di San Giovanni al Monte a Quarona databili tra il 1485 e il 1486, per molti altri, specie quelli eseguiti dalla bottega, si attende ancora una cronologia convincente.

È il caso, per citarne solo uno, dei molto ammalorati affreschi della Cascina Avogadro di Novara, commissionati dal canonico novarese Gerolamo Avogadro e che nonostante siano l’esito di più mani, credo che bene si possano accostare a quelli già in San Marco a Varallo Sesia o a quelli conservati al Museo Borgogna di Vercelli e provenienti dall’ex chiesa di San Marco della stessa città. Ma si vorrebbe una cronologia più chiara anche per gli affreschi della chiesa della Madonna della Neve a Suno (che Paola Astrua propone di datare introno al 1487 circa) o quelli della chiesa di San Clemente a Occhieppo Inferiore pure non molto distanti stilisticamente da quelli della seconda fase decorativa di Castellengo (1515).

Chiudo arrivando alla fine del volume dove si affrontano diverse novità assai interessanti scovate dall’autrice negli affreschi della chiesa di San Pietro a Castellengo che ho solo di recente potuto visitare con calma. È evidente che la studiosa ha avuto e forse ha tutt’ora un rapporto privilegiato con questo luogo, in quanto proprio grazie a questo rapporto ha potuto offrire nuove e interessanti letture della decorazione del piccolo edificio. Dalla scoperta di un San Rocco nella zona absidale della chiesa fino alla curiosa identificazione di un Abramo con Giuditta (vedi immagine di copertina scattata dall’autore di questo testo), quasi certamente una svista da imputare a qualche disattenzione di un pittore poco esperto nella conoscenza delle sacre scritture.

Interessantissima la scoperta di un affresco del Beato Amedeo di Savoia (1515) eseguito moltissimo tempo prima della sua beatificazione avvenuta il 3 marzo 1677, si tratta dunque della sua prima raffigurazione in assoluto, almeno fino a questo momento. Altra scoperta davvero interessante è la presenza sempre a Castellengo di un San Bernardo d’Aosta su una colonna dove compare anche il relativo diavolo tenuto in catene dal santo messo in relazione con quello della chiesa di Gionzana. Peccato non aver pubblicato l’intero affresco ma solo la parte alta tralasciando la parte con il diavolo in catene! Qui nell’immagine che ho scattato durante la mia visita presso la chiesa, ripropongo l’affresco intero, anche se è stato molto difficile fotografare un affresco su una superficie cilindrica, il lettore con questa immagine potrà osservare che nella parte in basso a sinistra si intravede, anche se molto ammalorato, il demone tenuto in catene dalla mano sinistra del Santo tipico attributo, per l’appunto, di San Bernardo d’Aosta. Ma la scoperta più interessante è lo svelamento del significato dello stemma presente sulle volte affrescate di Castellengo della famiglia piemontese Mara (estintasi in epoca antica) grazie alle competenze sull’araldica possedute dalla studiosa.

Insomma questo libro apporta davvero nuovi contributi agli studi su Daniele De Bosis, contributi che sicuramente non mancheranno di generare altre e più approfondite ricerche su aspetti ancora poco chiari. Penso però che con qualche accorgimento in più, molto altro si sarebbe potuto fare per rendere questo interessante volume migliore rispetto al risultato finale.
Marco Audisio
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