Si intitola Bosch e un altro Rinascimento la mostra in scena nelle sale di Palazzo Reale a Milano, curata da Bernard Aikema, Fernando Checa Cremades e Claudio Salsi e aperta fino al 12 marzo 2023. Anche per questo evento espositivo milanese, dobbiamo ammettere, che c’era parecchia aspettativa, soprattutto per il tema trattato e per il calibro dello studioso che ne ha messo a punto la curatela. Tuttavia, ed è triste doverlo ammettere per l’ennesima volta, l’esposizione presenta numerosi punti critici. Anzi tutto il titolo fuorviante: di opere di Hieronymus Bosch se ne contano solo cinque su circa un centinaio di dipinti riuniti in mostra, inoltre l’autografia di una di esse, il trittico del Giudizio Finale del museo di Bruges, non è unanimemente riconosciuta. L’esposizione è poi piena zeppa di didascalie che recitano: “scuola di”, “ambito di”, “copia da un originale perduto di”.
Ma al di là degli aspetti critici che andremo a breve a sviscerare, la cosa che più di tutte ci ha infastiditi è stata la ressa umana trovata all’interno delle sale della mostra. Oltre sessanta persone davanti a opere che per essere fruite devono essere osservate da un punto di vista ravvicinato. Ma si capisce bene che con oltre sessanta persone davanti e degli espositori che non permettono ad un singolo visitatore di avvicinarsi più di tanto, praticamente non si riesce a vedere quasi nulla. Per riuscire a sbirciare qualche particolare occorre attendere pazientemente e sgomitare per arrivare all’agognato bottino. Tutto questo a fronte di un biglietto assai caro che ammonta a 15 euro per gli sfortunati che non possono permettersi alcuna riduzione. Si potrà ribattere a questa critica mettendo sul piatto della bilancia il fatto che si sarebbe dovuto prenotare il posto e che il sabato mattina c’è sempre più gente, ma tutto ciò a nostro avviso non giustifica per niente una massa così densa di persone all’interno di sale tutto sommato dagli spazi contenuti. Ci vorrebbe un contingentamento serrato che soprattutto nei giorni di maggior affluenza tuteli la salvaguardia delle opere e la salute dei visitatori. Definirei la nostra visita allucinante, un po’ come le opere di Bosch. A tutto ciò si deve aggiungere che, anche in questo caso, per l’ennesima volta la luce eccessivamente teatralizzata e drammaturgica che si è voluto dare alle sale compromette la sicurezza dei visitatori e delle opere. Più di una volta abbiamo infatti notato persone che inciampavano perché non vedevano dove mettevano i piedi, e la cosa ancora più drammatica è che un signore inciampando in uno degli espositori per cercare di avvicinarsi ad un’opera ha rischiato di danneggiare un bellissimo arazzo presente in mostra e di cui diremo qualcosa più avanti. Tutto ciò senza che nessuno si accorgesse dell’accaduto, nemmeno le guardie di sala che chiacchieravano amabilmente in un anfratto dell’affollatissima sala. La grande ressa di massa umana ha inoltre reso quasi del tutto impossibile avvicinarsi anche alla cartellonistica predisposta nelle varie sezioni della mostra, pregiudicando la corretta lettura del percorso espositivo. Altra cosa davvero fastidiosa: il caldo delle sale. Troppa gente più un riscaldamento eccessivo hanno letteralmente trasformato quella che doveva essere una piacevole mattinata in un inferno boschiano.

La mostra tuttavia non è priva di interesse anche a fronte della scarsità di opere autografe di Bosch, ora andremo ad analizzarla nello specifico. La prima sala si apre, come dicevamo all’inizio, con tre capolavori del pittore di Boscoreale (traduzione italiana di s’Hertogenbosch, luogo di nascita dell’artista): il Trittico dei Santi Eremiti (1495-1505 circa), proveniente dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia e già appartenuto alla collezione del cardinale veneziano Domenico Grimani avido collezionista di opere di Bosch; le Meditazioni di San Giovanni Battista (1495 circa), del Museo Lazaro Galdiano di Madrid, parte di un complesso più ampio oggi perduto, e lo splendido Trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio (1500 circa) del Museo Nazional de Arte Antiga di Lisbona. Il visitatore si trova davanti tre pezzi unici realizzati dalla mente geniale di Bosch, pieni zeppi di figure e di elementi grotteschi, orridi e fantastici. Le opere del pittore di Boscoreale nella collezione di Domenico Grimani sono la testimonianza di un originario interesse per il pittore già nel XVI secolo in Italia, così come ci viene testimoniato anche dal cronista veneziano Marcantonio Michiel che per primo definisce la pittura di Bosch come pittura di infermi, mostri e sogni. Come afferma la cartella stampa della mostra “questa immagine di Bosch come artista fantasioso, o come “pictor gryllorum”, ovvero pittore di scene ridicole, viene adottata prima in Italia e in Spagna e poi nel resto d’Europa, cristallizzandosi per i secoli a venire”.

Nella seconda sala il confronto tra la cultura classica e anticlassica fra Italia e Penisola Iberica mette in moto tutta una serie di confronti supportati dalla tesi secondo cui queste due tematiche spesso e volentieri convivono senza paradossi all’interno delle opere di numerosi artisti e manufatti da essi prodotti. Il linguaggio delle grottesche, generalmente un tema classico diffusosi a partire dalla scoperta delle pitture della Domus Aurea neroniana, diventa nel cinquecento il pretesto per animare questo tipo di decorazione con ogni sorta di motivo grottesco, di animali e bestie immaginarie, di scene paradossali e visioni oniriche che nulla hanno a che vedere con la classicità. In mostra si può ammirare il piccolo pannello ornamentale con grottesche (1507) di Nicoletto da Modena e il monumentale arazzo, tratto da un disegno di Perin del Vaga con Grottesche e allegoria del Dio Marte (1540-1560 circa) conservato presso il Museo di Strada Nuova a Genova. Se il primo è ricco di elementi anticlassici, certamente riferibile alla corrente classicista è il grande arazzo realizzato per Andrea Doria signore della città della lanterna. La medesima dicotomia si ravvisa osservando la Rotella con il Trionfo di Bacco (1563) del Museo delle Armi di Brescia e l’eccezionale Scudo con scena di parata militare di fantasia (1550 circa) del Museo Nazionale di Praga dove si può vedere una scena convulsa di guerra fra mostriciattoli e altri esseri bizzarri. Questo scudo risente fortemente del linguaggio boschiano e più in generale di una forte componente anticlassica. Il tema della grottesca è affrontato in questa sezione anche dai pezzi lignei del grande Retablo di San Benito oggi purtroppo smembrato realizzato da Alonso Berruguete tra il 1526 e il 1532. Anche in questo caso il linguaggio di Berruguete è influenzato più che da elementi di stampo classico, da un filone che riconduce all’eccentrico e al bizzarro. Nell’Italia settentrionale l’artista che più si avvicina alla tematica del grottesco e alle figure che animano sovente le opere di Bosch è Leonardo Da Vinci; in mostra si può infatti ammirare un foglio del Codice Trivulziano 2162 dove sono presenti studi di teste grottesche e caricature. In questa sala è presente anche un dipinto di Jean Wellens de Cock raffigurante le Tentazioni di Sant’Antonio (1520 circa) proveniente dal Museo Thyessen Boremisza di Madrid in cui è molto semplice ravvisare una eco del linguaggio figurativo allucinato “alla Bosch”.

Si passa poi alla sezione dedicata al tema del sogno. Soprattutto in Europa meridionale e fin dai primi decenni del 1500, la pittura di Bosch viene spesso associata all’imaginario dell’onirico, del sogno e dell’incubo. Questo immaginario trova riscontro anche grazie a un rinnovato interesse letterario e alla riscoperta di antichi manoscritti come ad esempio l’Onirocritica, trattato greco sull’interpretazione dei sogni di Artemidoro di Daldi, di cui è presente in mostra un esemplare a stampa del 1518, in cui si descrivono le diverse tipologie di sogno e i loro simboli. Fanno parte di questo orizzonte anche altri importanti volumi come ad esempio l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna pubblicata nel 1499, di cui è presente in mostra un esemplare a stampa del 1545, in cui si svolge un viaggio allegorico di stampo classico, oppure la diffusione nel nord Italia della cosiddetta letteratura maccheronica, in cui si utilizza un linguaggio misto di latino e dialetto per raccontare storie grottesche, il cui più importante esempio è il Baldus poema maccheronico scritto da Teofilo Folengo, di cui è presente in mostra un esemplare a stampa del 1521, che come dice la cartella stampa, “edito per la prima volta nel 1517, descrive un viaggio verso l’inferno ricco di dettagli ridicoli e bizzarri che rievocano sia le composizioni boschiane sia l’opera dei suoi imitatori riprendendo ad esempio l’immagine della landa desolata in cui spicca l’ingresso all’oltretomba raffigurato nella Discesa di Cristo al Limbo”. L’immaginario letterario si riflette quindi all’interno delle opere pittoriche che a loro volta diffondono questo linguaggio mediante le stampe di traduzione. In questa sezione si possono ammirare diverse opere interessante come ad esempio una Allegoria della vita umana (1561 circa) di Giorgio Ghisi accostata a due dipinti che ne riprendono la composizione rielaborando però in maniera personale l’incisione del mantovano. La prima è l’Allegoria della vita umana (1595) di Jan Bruegel e Hans Rottenhammer il vecchio e la seconda sono le Tentazioni di Sant’Antonio (fine del XVI secolo) di Pieter Stevens il Giovane. In quest’ultima appaiono affascinanti quanto inquietanti figure demoniache tipiche del linguaggio figurativo di Bosch. Nella medesima sezione ci hanno molto colpito due dipinti usciti dalla bottega di Bosch, la prima è la Discesa di Cristo al Limbo (XVI secolo) impregnata di elementi desunti dall’universo boschiano, basti pensare alla grande creatura antropomorfa dal volto umano e dalla cui bocca spalancata fuoriescono mostri e umani o all’incendio che bruciando purifica dal male che si trova sullo sfondo a destra di un’ipotetica fortificazione. La seconda opera è la Visione di Tondalo (1491-1525 circa), dipinto che riprende un’opera letteraria del XII secolo scritta dal monaco Marcus da Ratisbona che racconta delle visioni che Tondalo, cavaliere di origine irlandese, avrebbe avuto durante il suo viaggio iniziatico nell’aldilà, e pubblicata in numerose lingue ed edizioni, tra cui quella stampata nel 1484 presso Boscoreale, città natale di Bosch.

Si passa poi alla sezione dedicata al tema della magia. Questo tema inizia a diffondersi nel Cinquecento ma troverà piena affermazione nel Seicento dove popolari diverranno le rappresentazioni di riti magici e sabba infernali. Come afferma correttamente la cartella stampa “questi soggetti emergono in relazione alla ripresa dei processi per stregoneria sul finire del XV secolo e alla pubblicazione di manuali e trattati per riconoscere e punire le streghe. In questo genere di opere, sia pittoriche che grafiche, vediamo manifestarsi due tendenze particolari, una di stampo classicheggiante, e una invece legata all’immaginario del folklore”. Quella di stampo classicheggiante vede protagonisti riti magici e streghe legate all’imaginario letterario della cultura umanistica dando maggiormente importanza all’aspetto seduttivo della narrazione e all’erudizione delle fonti letterarie; mentre la tendenza legata all’imaginario folkloristico punta maggiormente l’attenzione sull’aspetto diabolico e misogino della stregoneria, dove la figura della donna è vista come pronta a soccombere alle tentazioni del demonio. In questi casi i personaggi assumono sembianze mostruose e grottesche derivate dalle paure e delle superstizioni popolari. Nella sala si possono ammirare una serie di dipinti che appartengono ora a uno ora all’atro filone appena descritto. Più legato al filone classicheggiante può essere bene ricordare la bella tela di benvenuto Tisi detto il Garofalo con Paesaggio e corteo magico (1528), dove in un paesaggio di grande impatto naturalistico si muove un corteo stregonesco che dimostra di aver a lungo meditato sulle raffigurazioni boschiane. Mentre al secondo filone più popolaresco appartiene il bulino di Marcantonio Raimondi con Lo Stregozzo (1520-1530 circa) dove si vede una strega deformata intenta a divorare dei bambini. Bellissima è anche la tela del pittore fiammingo Gillis Coignet dal titolo Scena di magia dove moltissimi dei personaggi presenti nel dipinto sono citazioni più o meno puntali dalla cappella Sistina di Michelangelo. Anche qui compaiono esseri mostruosi e inquietanti derivati dall’immaginario boschiano e convitati ad assistere al rito magico che i due personaggi all’interno di un cerchio magico con attorno quattro stelle a cinque punte al centro della scena stanno per compiere. A dar sfogo ai più bassi istinti della superstizione e del grottesco è il meraviglioso cartone con lumeggiature d’ora di un anonimo maestro tedesco che in quest’opera dalle dimensioni contenute raffigura L’incubo (fine del XVI secolo). Qui in un immaginario da fare invidia ai pittori surrealisti, si svolge una scena ricca di bestie e personaggi inquietanti, convocati attorno al personaggio principale che dormendo sta invocando nel suo incubo un esercito di creature mostruose che lo stanno torturando. Oltre al tema della magia, un altro tema che anima le scene delle opere presenti in questa sezione è l’alchimia così come si può vedere nel rame di Jan Bruegel il Vecchio con l’Allegoria del fuoco (1608) e nella tela di Joseph Heintz il Giovane con Medea che ringiovanisce Esone (1640-1650 circa).

La quinta sezione della mostra ha come tema il giudizio universale. Nella sala è presente il Giudizio Finale del museo di Bruges databile al 1500 circa che in mostra è presentato come un autografo di Bosch ma sulla cui attribuzione ancora non c’è da parte degli studiosi unanime consenso. Questo trittico sarebbe appartenuto al cardinale Marino Grimani, nipote del collezionista veneziano Domenico Grimani, ovvero uno dei più precoci estimatori dell’arte boschiana in Italia e proprietario del Trittico dei santi eremiti presente a questa mostra. La prima versione invece attualmente conservata presso il museo del Prado di Madrid un tempo si trovava nelle collezioni di Filippo I d’Asburgo detto il Bello, padre del futuro imperatore Carlo V. Questo è testimonianza che le opere di Bosch non solo affascinavano i ceti più bassi della popolazione, ma soprattutto che questi dipinti erano contesi dai più importanti principi e sovrani d’Europa, fomentando un collezionismo raffinato e coltissimo quasi in sapore di eresia per una famiglia, gli Asburgo, strenui difensori del Cristianesimo. Il tema del giudizio finale, iconograficamente già ampiamente indagato nel Medioevo, nel Rinascimento trova nuove e inquietanti interpretazioni. Basti pensare alla versione che ne danno non solo artisti fiamminghi che dimostrano di aver guardato alle opere uscite dalla bottega di Bosch, ma anche pittori attivi in America latina. Per quanto attiene alle opere fiamminghe bisogna almeno citare il tondo di Herri met de Bles detto il Civetta con il Paradiso (1541-1550 circa) e la tela di Herri met de Bles II sempre con una visione del Paradiso terrestre (1540 circa) dove, come nell’opera precedente, i personaggi “alla Bosch” sono numerosi; mentre per quanto attiene le opere dei pittori attivi in Sudamerica va segnalata la grande opera di Leonardo Flores con il suo monumentale e affascinante Giudizio Finale (XVII secolo).

© Lukas – Art in Flanders VZW/Bridgeman Images
Nella sesta sezione come ci racconta la cartella stampa “le molteplici versioni delle Tentazioni di sant’Antonio realizzate da Jheronimus Bosch e dai suoi seguaci sono fra le più popolari a livello europeo. La più celebre tra queste è certamente il Trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio di Lisbona, pezzo d’apertura della mostra del quale si contano almeno quarantuno repliche, che fornisce un esempio esaustivo della caotica fantasia associata alla figura di Bosch”. In questa sezione molte sono le opere con il medesimo soggetto radunate in questo contesto per dare al visitatore uno spaccato di come questa iconografia molto popolare veniva interpretata da numerosissimi artisti. Continua la cartella stampa “l’iconografia di sant’Antonio tormentato dai diavoli e tentato da donne sensuali ha un carattere morale, e offre agli artisti la possibilità di sperimentare con fantasiose combinazioni di mostri e chimere”. In questa sezione, sicuramente degno nota è il bulino di Martin Schongauer con Le tentazioni di Sant’Antonio (1470-1471 circa) ripreso in un dipinto di collezione privata che gli sta accanto di medesimo soggetto attribuito ad un anonimo pittore fiammingo ma di altissima qualità. Qui sono straordinari i mostri che compaiono a tormentare il santo resi con un’attenta e marcata accentuazione grottesca dei tratti fisionomici dei volti. La presenza di questi mostri sembra aver influenzato anche quelli dipinti da Matthias Grünewald nella sua versione delle Tentazioni di Sant’Antonio dell’anta sinistra dell’altare di Isenheim del 1512-1516 circa. Questa invenzione di Schongauer dev’essere stata talmente apprezzata da essere ripresa in un famoso dipinto di Michelangelo oggi al Kimbel Art Museum di Forth Worth negli Stati Uniti. L’invenzione del fiammingo compare poi in un’opera, pure in mostra, di Jan Brueghel il Vecchio. Nella tela databile intorno al 1604 circa, in alto sulla destra compare la figura del Santo circondato dai demoni proprio come nel bulino espostogli accanto. La stessa invenzione e quindi la stessa composizione di Schongauer compare in alto a sinistra anche in una xilografia del Maestro J. Kock databile introno al 1522. Una diversa interpretazione delle Tentazioni di Sant’Antonio invece si ha con la tavola (1480-1490 circa) di Bernardo Parentino della Galleria Doria Pamphili di Roma. Il dipinto è stato verosimilmente eseguito quando Parentino si trovava a Mantova, da qui è stato infatti ipotizzata una connessione con le opere e lo stile del Mantegna oltre che una certa afferenza ai modi della scuola ferrarese. Tuttavia ad una osservazione attenta, il dipinto di Parentino sembra aver meditato anche sui personaggi della cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto opera di Luca Signorelli. Più avanti, sempre nella medesima sala è esposta una versione delle Tentazioni di Sant’Antonio di un seguace di Bosch che riprende, a quanto sembra, una perduta opera del maestro, e a pochi passi si trova una tavola ritenuta autografa di Bosch, anche se non unanimemente dalla critica, oggi conservata al Museo del Prado a Madrid. Nella tavola (1510-1515) la figura del santo appare seduta sotto il tronco di un albero cavo e su un tappeto erboso, appare assorto e con sguardo malinconico. La natura è protagonista del dipinto, tutto sembra tranquillo, anche se ad uno sguardo più attento si può vedere che attorno a Sant’Antonio si stanno avvicinando dei piccoli mostriciattoli dai tratti comico grotteschi, probabilmente gli stessi mostri che di lì a poco inizieranno a tormentarlo. Il dipinto ha una grande importanza, poiché si trovava verosimilmente nella collezione di Mencia de Mendoza vedova di Enrico III di Nassau, una delle sue prime e più importanti ammiratrici nelle fiandre e in Spagna. Inoltre il dipinto è da identificare con quello donato da Filippo II, figlio di Carlo V d’Asburgo, al Monastero dell’Escorial dopo averla acquistata verso il 1563 dal marchese di Cortes.

La settima sezione è dedicata alla stampa come mezzo di divulgazione delle opere di Bosch. Come scritto nella cartella stampa della mostra “diversi incisori, in particolar modo fiamminghi, si cimentano precocemente in stampe che riproducono l’opera di Bosch, indicandolo chiaramente come inventore delle composizioni”. E poi continua “Si sviluppa tuttavia anche un altro fenomeno, più complesso e interessante, il cui protagonista è Pieter Bruegel il Vecchio, in collaborazione con la casa editrice anversese Aux Quattre Vents di Hieronymus Cock. Bruegel, infatti, non copia dal suo predecessore, ma ne reinterpreta l’immaginario, preferendo l’emulazione all’imitazione”. In mostra quest’ultimo aspetto è esemplificato dalla serie di bulini realizzati da Pieter van der Heyden su disegno di Pieter Bruegel il Vecchio con I sette peccati capitali (1558 circa).
Nell’ottava sezione gli arazzi sono i protagonisti. L’arte di Bosch, come si è avuto modo di capire, ha riscosso presso la casa degli Asburgo un certo successo, tale da garantire alle opere di Bosch un’ottima diffusione. Il cardinale Antoine Perrenot de Granvelle precettore di Filippo II fu un avido collezionista di opere di Bosch, passione che molto probabilmente ha trasmesso al giovane regnante. Granvelle si fa realizzare una serie di arazzi che riprendono celebri opere del maestro di Boscoreale come ad esempio lo straordinario Giardino delle delizie, Il carro del fieno, Le tentazioni di sant’Antonio e San Martino e i mendicanti. Questa serie era stata commissionata originariamente nel 1542 da Francesco I di Valois membro di una delle casate più potenti e avverse agli Asburgo e comprendeva anche un quinto pezzo raffigurante la scena dell’Assalto all’elefante, scena invece non inclusa nella serie realizzata per Granvelle. La passione per le opere di Bosch sarà portata avanti anche dai suoi successori Enrico II ed Enrico III. Gli arazzi per il cardinale de Granvelle non sono delle esatte citazioni delle opere di Bosch, piuttosto essi rielaborano e in taluni casi includono piccole differenze del linguaggio “alla Bosch” e dei suoi collaboratori ed epigoni. La straordinarietà di questi arazzi sta nella loro qualità e nei materiali utilizzati come la grande profusione del filamento d’oro, inoltre le scene sono inquadrate in una cornice architettonica di gusto classico, il che riconduce al doppio registro che i curatori hanno voluto imprimere alla mostra, e cioè che il filone più classicista del Rinascimento convive perfettamente in armonia con l’altro Rinascimento, quello cioè di un linguaggio anticlassico in linea con quanto Bosch e la sua bottega andavano diffondendo nel nord d’Europa.

Nella nona e penultima sezione della mostra, il tema che viene affrontato è quello della scena perduta per la serie di arazzi commissionati da Francesco I di Valois, vale a dire l’Assalto all’elefante. La scena originale dal raffinato gusto esotico extra occidentale, purtroppo non è giunta fino a noi, ma se ne può avere un’idea rintracciando le numerosissime copie giunte fino ai giorni nostri, come quella di Johannes e Lucas Van Doetecum eseguita a bulino all’incirca nel 1583, o quelle di due seguaci di Bosch pure esposte in mostra. Certamente la versione della Galleria degli Uffizi di Firenze si avvicina di più al perduto originale per via della grande ricerca narrativa che anima i personaggi della scena e per via della sua altissima qualità pittorica. Insieme a questo è esposto il magnifico arazzo delle Feste dei Valois. Quest’ultimo, come recita ancora una volta la cartella stampa della mostra, “fa parte di una serie commissionata da Caterina de’ Medici per onorare la casata dei Valois e, pur non avendo una relazione tematica o stilistica con gli arazzi di Granvelle, riprende in secondo piano il motivo boschiano dell’assalto all’elefante”.

© Gabinetto Fotografico delle Gallerie degli Uffizi
Arrivati alla decima e ultima sezione dell’esposizione il tema che conduce alla fine di questo viaggio nelle opere d’influenza boschiana è quello delle Wunderkammer, ovvero le stanze delle meraviglie che si diffondono in Europa e in Italia a partire del XVI secolo, e che si legano indistricabilmente alla figura del loro proprietario. Esse nascono con l’intento di raccogliere, collezionare e catalogare ogni aspetto del mondo visibile, vale a dire ogni sorta di oggetto, dalla pietra preziosa al dipinto più raffinato e curioso. Spesso le stanze delle meraviglie erano divise tra naturalia e artificialia e attraverso gli oggetti collezionati si esprime lo status sociale del suo proprietario. L’intento è quello di suscitare curiosità. Celebri furono le Wunderkammer dell’arciduca Ferdinando del Tirolo ad Ambras presso Innsbruck, quella di Rodolfo II a Praga e quella di Manfredo Settala a Milano. Questo microcosmo che il principe si costruisce all’interno dei suoi sontuosi palazzi e che vuole riflettere il macrocosmo naturale e i suoi sistemi di conoscenza che ha attorno a sé, trova un parallelo nei microcosmi della pittura di Bosch ad esempio nel celebre Giardino delle delizie. In questa sezione si è dunque voluto rievocare una camera delle meraviglie che ruota attorno alla celebre opera di Bosch e che è organizzata secondo le categorie cinquecentesche. Per l’ultima volta ci serviamo di quanto racconta la cartella stampa della mostra che recita “gli uccelli impagliati, esemplari della classe dei naturalia, si trovano riprodotti quasi esattamente nel Giardino delle delizie, così come gli strumenti musicali, esposti per la loro pregiata fattura a simboleggiare la vanitas, appaiono nel pannello laterale della stessa opera, raffigurante l’Inferno. I vari manufatti presenti rappresentano gli artificialia, ovvero gli oggetti creati dall’uomo, ed esprimono un gusto sia per il bizzarro, ritraendo mostri e chimere, sia per materiali pregiati come il corallo o l’avorio. In chiusura, due opere che possiamo definire mirabilia, mirate a suscitare sorpresa e perfino la risata: una riproduzione dell’Automa diabolico della Collezione Settala e lo splendido Vertumnus di Giuseppe Arcimboldo, che ripropone una raccolta di meraviglie naturali nella forma del volto dell’imperatore Rodolfo II, ultimo grande collezionista del Rinascimento europeo”.

Come si è potuto capire, il percorso critico è coerente con le opere esposte e ciò è sicuramente un punto a favore di questa esposizione. Ancora una volta si critica la scelta sensazionista del titolo a nostro avviso un poco fuorviante e una spietata campagna di marketing scriteriato e folle che continua a radunare nelle sale di Palazzo Reale centinaia di migliaia di visitatori. Il catalogo approntato per la mostra in apparenza si presenta agile e dal costo relativamente contenuto, 15 euro. Una volta aperto e letto tuttavia presenta anche in questo caso delle criticità. Esso è più che il catalogo della mostra una sorta di guida, certamente interessante, ma che ad esempio nell’unico saggio introduttivo curato da Aikema non ha un apparato di note e relativa bibliografia. Al fattore positivo di avere schedato e riprodotto a colori tutte le opere presenti in mostra, le schede critiche delle opere sono davvero ridotte all’osso e con diversi refusi; è come se i curatori, o chi per loro, non abbiano prestato la dovuta sorveglianza nella stesura e poi nella correzione dei testi. A corollario della mostra è stato però pubblicato un maestoso monumentale e costosissimo volume ricco di illustrazioni a colori in alcuni casi addirittura a doppia pagina che riporta saggi critici e le opere presenti in mostra. A nostro avviso si è voluto creare una sorta di doppio catalogo, quello modesto, sbrigativo, approssimativo e poco costoso, costituito dalla prima pubblicazione che abbiamo appena citato, e poi si è voluto realizzare una versione se volgiamo più approfondita, scientificamente più sorvegliata, ma decisamente economicamente poco accessibile al pubblico di massa che di solito visita questo tipo di esposizioni e che magari non avendo grosse disponibilità si accontenta della “versione abbreviata” del catalogo. Ci siamo chiesti: ma una via di mezzo, un giusto compromesso tra la patinatissima e costosissima pubblicazione “da regalo di Natale” e la versione “dei poveri” non sarebbe stata meglio?

Usciti dalla mostra e avendo riflettuto a mente fredda su quanto abbiamo visto e dopo aver letto il catalogo e la cartella stampa ci siamo resi conto che con qualche piccolo ma sensato accorgimento in più questa mostra comunque decisamente interessante sarebbe potuta essere sicuramente migliore di quello che purtroppo è stata.
Marco Audisio
Laddove non specificato, le immagini delle opere, ci sono state fornite dall’Ufficio Stampa della mostra che ringraziamo per la disponibilità.
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