Lo scorso 10 novembre, si è aperto in mezzo a molte polemiche, il terzo dialogo attorno alle opere della Pinacoteca di Brera a Milano, progetto fortemente voluto dal nuovo curatore dell’istituzione museale meneghina James M. Bradburne per dare nuova linfa vitale al museo. Questa volta il confronto tra le opere di Brera e altre provenienti da vari musei italiani e stranieri non poteva non avvenire se non sulla figura di Caravaggio (Milano 29 settembre 1571-Porto Ercole 18 luglio 1610). In mezzo al proliferare delle tante (e brutte) mostre su uno dei più celebri pittori della storia dell’arte, quella di Brera ha invece una sua ragion d’essere. Recentemente, infatti, è stata rinvenuta in una soffitta di una casa privata di Tolosa una tela raffigurante Giuditta che taglia la testa a Oloferne (Fig. 1), da subito molti critici francesi hanno considerato l’opera come un autentico Caravaggio.

La tela notificata allo stato francese, che ha due anni per esercitare il diritto di prelazione sul dipinto e farla rimanere in Francia, è stata comprata dall’antiquario Eric Tarquin che fra due anni appunto provvederà a venderla sul mercato antiquario. Ecco l’inghippo: l’antiquario ha concesso il prestito della tela alla Pinacoteca con la clausola che l’opera in questione dovesse portare l’attribuzione a Caravaggio. Nonostante la Pinacoteca abbia esposto l’opera con l’attribuzione a Caravaggio ha tenuto a precisare con un asterisco (politicaly correct) che non necessariamente l’attribuzione rispecchia il parere del comitato scientifico ne degli stessi dirigenti, un membro del comitato scientifico ha deciso di dare le dimissioni sostenendo che il curatore non ha preventivamente informato il comitato di portare in mostra la tela francese, accettando le clausole dell’antiquario francese. In tutta risposta, per cercare di porre un freno alle polemiche, il curatore di Brera ha affermato che queste occasioni sono il vero banco di prova per un museo, il modo migliore per offrire un momento di confronto, di studio e di crescita. Il museo e la mostra hanno infatti il compito di alimentare il dibattito critico tra gli studiosi e anche tra i visitatori che possono, vedendo l’opera dal vero, farsi un’opinione in merito.

La Giuditta e Oloferne del presunto Caravaggio, che sarebbe stata dipinta dal pittore subito dopo il suo arrivo a Napoli, tra 1606 e 1607 è esposta vicino a quella di medesimo soggetto attribuita al pittore fiammingo Luis Finson che si conserva a Napoli presso Palazzo Zevallos-Stigliano (Fig. 2), eseguita intorno al 1606. La Giuditta di Tolosa e quella di Palazzo Zevallos, sarebbero, secondo il curatore della mostra Nicola Spinosa, quelle segnalate in due occasioni: una prima volta in una lettera inviata da Napoli al Duca di Mantova Vincenzo Gonzaga il 15 settembre 1607 dal suo agente fiduciario Ottavio Gentile e una seconda volta in una lettera del 27 settembre dello stesso anno inviata da Napoli sempre al duca di Mantova dal pittore fiammingo Frans Pourbus per autenticare i due dipinti del principe Conca. Entrambi i quadri sarebbero di Caravaggio, uno è la Madonna del Rosario che oggi si conserva a Vienna e l’altra sarebbe per l’appunto la Giuditta di Tolosa. Le due tele viste da Gentile e da Pourbus, sarebbero quelle che compaiono anche in una lettera del 19 settembre 1617, nell’atelier di Finson e del suo maestro Abraham Vinck. Questi al loro ritorno nelle rispettive patrie avrebbero portato con se i due dipinti, poi giunti, dopo varie peripezie nei luoghi dove ora si conservano o nel caso della Giuditta dov’è stata fortunosamente ritrovata.

C’è da chiedersi se effettivamente la Giuditta segnalata dalle varie lettere fosse veramente quella dipinta da Caravaggio nel suo soggiorno a Napoli oppure no, in quanto oggi solo la Madonna del Rosario è ritenuta un’opera autografa di Caravaggio del periodo napoletano. Se confrontata con la prima versione della Giuditta di Caravaggio, dipinta per Ottavio Costa intorno al 1602 e oggi conservata a Palazzo Barberini a Roma le differenze sono abissali. Anche il “dialogo” tra la Giuditta di Tolosa e la seconda versione della Cena in Emmaus (1606), opera cardine di Brera, non mi convince, infatti, la Cena in Emmaus (Fig. 4) presenta una qualità, una spazialità e un uso della luce e del colore del tutto diversi rispetto alla Giuditta di Tolosa. Il confronto un po’ morelliano tra le due fantesche non regge, le doti eccezionali e uniche di Caravaggio emergono nel dipinto di Brera inequivocabilmente, ma non si vedono in quelle del dipinto di Tolosa (Fig. 3).

Rispetto ad una possibile paternità del dipinto a Finson, ci si potrebbe perdere nel tentare di fare il punto, visto che taluni, non pensano nemmeno che la Giuditta attribuita a Finson sia del pittore fiammingo, ma di un altro e più modesto caravaggesco e non a torto, visto che la Maddalena in estasi (Fig. 5) proveniente da Marsiglia, opera autentica di Luis Finson ed esposta a Brera, sembra possedere ben altre qualità rispetto alla Giuditta di Napoli. Per Nicola Spinosa la Giuditta di Tolosa è sicuramente un autentico Caravaggio e la copia attribuita a Finson per lo studioso sarebbe da assegnare ad altra mano, per Mina Gregori (massima studiosa di Caravaggio e allieva di Roberto Longhi) unitamente allo storico dell’arte Giovanni Agosti, l’opera di Tolosa invece non sarebbe affatto un opera del grande maestro lombardo.

L’esposizione mi sembra ben congeniata, il riallestimento delle sale “caravaggesche” ha sicuramente giovato al museo, il piccolo catalogo edito da Skira mi sembra tutto sommato ben fatto; sulle controverse questioni attributive, lascio molto volentieri ad esimi studiosi l’ardua sentenza.
La mostra è aperta fino al 5 febbraio del 2017, e certamente merita il viaggio.
Marco Audisio