Paesaggi e Nature Morte di Classici Moderni: appuntamento con il Novecento alla Fondazione Pasquinelli

Alla Fondazione Pasquinelli – a Milano, Corso Magenta 42 – fino al prossimo 20 maggio è possibile vistare la mostra Paesaggi e nature morte di classici moderni, sesto appuntamento del fortunato ciclo “L’arte in una stanza”, iniziativa nata nel 2014 con l’intento di esporre e condividere con il pubblico, specializzato e non, la notevole collezione di Francesco Pasquinelli e Giuseppina Antognini. L’esposizione è curata come di consueto dal professor Antonello Negri, docente di Storia dell’arte contemporanea presso l’Università Statale di Milano e si confronta, questa volta, con due generi apparentemente distanti e tuttavia dalle vicissitudini simili, ripercorse nel piccolo – ma, come sempre, estremamente gradevole e interessante – catalogo della mostra. Natura morta e paesaggio sono infatti due filoni che si affermano autonomamente a partire dal Seicento, quando scenari naturali o urbani e composizioni di oggetti cominciano ad essere concepiti come soggetti distinti e non più esclusivamente come sfondi o elementi decorativi. Nonostante ciò, questi due generi rimangono per lungo tempo ai gradini più bassi di una scala gerarchica che vede il proprio vertice occupato dalla pittura di storia, mitologia o religione, considerata, soprattutto nell’ambito delle Accademie, più nobile e grandiosa. Il successo di natura morta e paesaggio si rivela tuttavia inarrestabile ed è dovuto, in particolar modo, al coinvolgimento della classe borghese, interessata all’acquisto di dipinti di piccolo formato, accessibili ed adatti, ad esempio, ad abbellire le proprie abitazioni. Una volta consolidati i nuovi soggetti, con l’avvicinarsi del Novecento, il focus viene gradualmente sposato da cosa viene rappresentato a come esso si concretizza sulla tela, alla tecnica impiegata, e proprio questo concetto riconduce alla presente mostra.

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Visione d’insieme della mostra alla Fondazione Pasquinelli

All’ingresso nella sala che ospita i quattro dipinti, lo sguardo si posa, innanzitutto, su un’interessantissima opera di Georges Braque, intitolata Bottiglia, zuppiera, fichi e datata 1924 (immagine di copertina). Una natura morta, dunque, interpretata attraverso un linguaggio che sembra richiamare e sintetizzare le precedenti esperienze dell’artista, come l’ammirazione per Paul Cézanne e la successiva sperimentazione nell’ambito del cubismo. L’insolita prospettiva del tavolo, la composizione degli oggetti e il loro geometrismo riecheggiano infatti le ricerche di Cézanne verso una pittura dalle forme essenziali ed eterne; allo stesso tempo, tuttavia, la bidimensionalità delle figure e la loro disposizione una accanto all’altra, quasi fossero “ritagli” assemblati, ricorda gli esiti del cubismo “sintetico”, caratterizzato da una maggiore uniformità. Alla stessa esperienza potrebbe essere ricondotta la volontà di rendere, attraverso il solo mezzo pittorico, la varietà delle superfici degli oggetti. Queste influenze sono tuttavia da contestualizzare nel periodo nel quale viene realizzate questa natura morta, gli anni Venti, caratterizzati da una certa volontà di distanziarsi dalle esperienze avanguardistiche più estreme in favore di una riscoperta della poesia che gli oggetti quotidiani nascondono.

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Pablo Picasso, Natura morta con cesto di frutta, 1942, olio su tela

Sulla parete opposta, in perfetto dialogo con l’opera di Braque, trova posto una Natura morta con cesto di frutta di Pablo Picasso; non solo una consonanza fra i soggetti, dunque, ma un confronto fra i due “padri” della pittura cubista. L’opera di Picasso, tarda, in realtà, rispetto all’esperienza dell’avanguardia – risale al 1942 –  appartiene alla corrente del cosiddetto “neocubismo”, una sorta di derivazione dalle esperienze del primo Novecento, alle quali l’artista si riavvicina dopo numerose altre incursioni nei campi più disparati e quando la sua fama è ormai ampiamente consolidata. Colpisce di questo dipinto l’assoluta nettezza, quasi aggressiva, con la quale sono resi i contorni delle figure, portate qui ad uno schematismo vicino all’astrazione, ma anche i colori accesi e saturi e la loro corposità; le pennellate sono perfettamente distinguibili anche solo osservando il dipinto in fotografia.

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Maurice de Valminck, La casa del pittore (La Jonchère), olio su tela

In fondo alla sala, sulla parete più lontana dall’ingresso, è possibile invece osservare una tela di Maurice de Vlaminck, l’artista forse meno conosciuto fra i presenti, ma altrettanto interessante. L’opera in questione, che appartiene al genere del paesaggio, potrebbe essere letta alla luce di considerazioni simili a quelle fatte per Braque: Vlaminck, dopo un esordio avvenuto nel movimento espressionista fauve – di nuovo avanguardia, dunque – si allontana dalle esperienze più audaci, rifiutando soprattutto il cerebralismo che caratterizza l’arte astratta. Seguendo questo percorso, non soltanto interiore, l’artista decide di vivere in campagna, a contatto con la natura, e di rivolgersi a soggetti quotidiani, ordinari, come la propria abitazione, protagonista del dipinto in mostra.

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Giorgio Morandi, Cortile di via Fondazza, 1954, olio su tela

Di nuovo per il genere paesaggistico, all’opera di Vlaminck risponde una veduta, questa volta urbana, di Giorgio Morandi, che a sua volta ritrae la propria abitazione bolognese – nello specifico il cortile, così come egli lo vedeva dalla finestra dello studio. L’artista emiliano è celebre per le sue composizioni permeate da un’atmosfera quasi incantata, nelle quali le cose, siano esse edifici o oggetti, sono un pretesto per un’indagine più approfondita sul linguaggio con il quale esse dialogano, fra di loro e con l’uomo; si tratta di un linguaggio fatto di forme e colori, comprensibile quindi attraverso il silenzio e la contemplazione.  Questo interesse emerge sia nel dipinto in questione, sia nel vasto repertorio di nature morte di Morandi, che trovano a loro volta uno spazio nell’esposizione grazie alle belle fotografie che ritraggono lo studio dell’artista. Questi ultimi documenti completano un’esposizione che si conferma, come la Fondazione Pasquinelli ci ha da tempo abituati, coerente ed estremamente curata, ricca di interesse “scientifico” e allo stesso tempo accessibile a chiunque apprezzi l’arte del Novecento e desideri arricchire le proprie conoscenze con queste opere inedite di alcuni dei più grandi artisti della modernità.

Chiara Franchi

 

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