Una volta tanto Palazzo Reale a Milano fa una mostra che rispetta l’impegno preso con il visitatore nel momento in cui quest’ultimo legge il titolo. Eppure… va be’, andiamo con ordine.

Sono gli ultimissimi giorni per visitare questa mostra, fino al 18 febbraio. Curata da Danièle Devynck (direttrice del Museo Toulouse-Lautrec di Albi, in Francia) e Claudia Zevi, raccoglie 250 opere di cui 35 dipinti, 22 manifesti e altrettanti lavori tra litografie e acqueforti. Introducono alla visita le fotografie a corredo delle note biografiche, mentre una serie di stampe giapponesi spiegano il rapporto, in verità molto più sottile di quanto uno sguardo fuggevole possa rivelare, tra il pittore francese e l’arte dell’estremo Oriente.
Contrariamente al solito di questo ente espositivo soltanto un’opera non porta la firma di Henry de Toulouse-Lautrec (1864-1901), se si escludono le suddette stampe delle quali però si capisce la natura “altra” rispetto all’argomento principale della mostra. Chi è andato l’anno scorso a vedere Manet e la Parigi moderna si sarà accorto di essersi trovato di fronte a un numero scandalosamente esiguo di dipinti del celebre precursore dell’Impressionismo, a fronte di un corpus di tele dei suoi contemporanei/concittadini molto più nutrito. Alla fine, però, resta nello spirito di Palazzo Reale il mischiare più cose, proporre nomi conosciuti e tematiche dal facile appeal. E non consideriamo che appena un anno circa fa si è tenuta sempre a Milano una mostra dal titolo Hokusai, Hiroshige, Utamaro. Sottotitolo: Luoghi e volti del Giappone che ha conquistato l’Occidente.

Una nota positiva: la mostra segue un itinerario tematico, il quale parte dall’autoritratto e dal ritratto che fece di Toulouse-Lautrec il pittore Henri Rachou (1855-1944), prosegue attraverso le opere giovanili d’impronta maggiormente accademica ma non per questo mancanti di quel vezzo caricaturale che avrebbe risaltato nelle opere più mature, e di volta in volta racconta l’impegno del pittore francese – di nobili natali, e che aveva scelto la vita del bohémien – nel campo di una nuova arte cartellonistica, il mondo dello spettacolo e quello delle case di tolleranza visti con i suoi occhi.
Presenza costante che accompagna il visitatore, lo abbiamo già detto, è il mondo delle stampe giapponesi dalle quali Henri de Toulouse-Lautrec deriva: il formato verticale alto e stretto dei supporti pittorici, l’uso dei neri e dei colori piatti a contrasto (tipico dei suoi cartelloni pubblicitari) e il tratto sinuoso dei contorni delle figure. Un tratto che si lascia guidare dallo spessore della punta del pennello, e che per questo si presenta incostante come le rive di un fiume. Non sembra sbagliato pensare, anzi, visto proprio il periodo nel quale opera Toulouse-Lautrec, che la sua linea a colpo di frusta anticipi o comunque rientri nel linguaggio di quella che allora era la nascente Art Nouveau.

Sono rimaste celebri le immagini create dall’artista che aveva abbandonato i castelli dove la sua famiglia conduceva uno stile di vita medievaleggiante per trasferirsi a Montmartre, all’epoca zona periferica di Parigi e ritrovo degli individui peggio visti dalle classi più alte. E proprio a Montmartre Toulouse-Lautrec avrebbe fatto fortuna dipingendo le virtù artistiche di famose cantanti, attrici e ballerine: Jean Avril, Loïe Fuller e Louise Weber detta La Goulue (l’avida, l’ingorda o la golosa). Non pochi dei suoi manifesti suscitarono lo scandalo, uno in particolare: quello per la réclame di Reine de Joie, un romanzo di un certo Victor Joze che raccontava i vizi lascivi dell’alta società parigina. E per il Divan Japonais, locale di café-chantat oggi esistente come sala da concerto di nome Le Divan du Monde, Toulouse-Lautrec sceglie di rappresentare in secondo piano Jean Avril (la cui testa esce dal foglio, quindi riconoscibile dai guanti neri) e assegnare a due signori del pubblico il ruolo di protagonisti. Mai era successo che una pubblicità coinvolgesse in una simile maniera i propri destinatari, anticipando e promettendo loro grandi emozioni.

Allo stile fino a qui delineato se ne contrappone però un altro, molto più frequente nei sui ritratti (taluni lasciati anche non finiti) e nelle rappresentazioni della vita sociale parigina. Henri de Toulouse-Lautrec predilige il cartone come supporto e adopera l’olio con una tecnica a sfumature piatte, lasciando evidenti i segni del pennello con un effetto che altrimenti potremmo avere visto nel Divisionismo di Segantini (1858-1899) ma che trasuda comunque originalità. I suoi soggetti provengono dal mondo che meglio conosceva, e del quale non mancava di raccontare nelle sue lettere alla madre e alla nonna; sorprende infatti come il pittore che aveva deciso di vivere lontano dall’alta società cui apparteneva mantenesse cordiali rapporti con la sua famiglia, molto meno tradizionalista di quanto volesse apparire.
Più volte attraverso l’audioguida Claudia Zevi tiene a ricordare che le prostitute d’alto bordo rappresentate nella loro quotidianità da Toulouse-Luatrec sono viste da quest’ultimo con umana sensibilità. Molta più di quanto facesse una produzione fotografica dell’epoca destinata a soddisfare il voyerismo dei parigini, e di cui la mostra riporta qualche esempio (fuori dalla portata dei visitatori bambini, ai quali pure la mostra si rivolge). Non dimentichiamo però che Toulouse-Luatrec frequentava anche il teatro, il suo pubblico e le sue stelle come la clownesse. Questa, in particolare, siede in una posa molto frequente nel teatro giapponese. Perché Toulouse-Lautrec da quel mondo così lontano e così vicino allo stesso tempo prende anche le pose e gli atteggiamenti dei personaggi e li trasferisce per esempio nel can-can di Jane Avril.

Per sottolineare ulteriormente il legame tra Henri de Toulouse-Lautrec e il giapponismo (come se ce ne fosse bisogno), una piccola stanza raccoglie una serie di xilografie a tema erotico dell’artista Kitagawa Utamaro (1753-1806). L’ultima sala, invece, racconta del rapporto del pittore francese con la realtà di una Belle Époque la quale è stata anche progresso tecnologico, dalle prime automobili fino all’invenzione della bicicletta. Proprio alla pubblicità del modello di velocipede brevettato e prodotto da William Spears Simpson, nel 1896 Toulouse-Lautrec presta la propria creatività quando disegna un manifesto il cui primo bozzetto fu respinto poiché non rappresentava i pedali come dovevano essere.

E ora le dolenti note: il rapporto qualità/prezzo è sbilanciato, non tanto per quanto riguarda la mostra (ben fatta ma che non vale il prezzo intero del biglietto) quanto piuttosto per il catalogo alle cui immagini non corrispondono schede di analisi e che per giunta propone foto di opere non presenti in esposizione. Giudizio complessivo? Tutto sommato mostre così non andrebbero disertate.
Niccolò Iacometti
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