Nel 1967 il critico d’arte Germano Celant riunisce in una serie di mostre, ospitate presso gallerie private a Torino e a Genova, gli artisti che si erano formati attorno alla figura di Mario Merz (1925-2003). Per loro inventa il termine Arte povera. A metà strada tra Minimalismo e Concettuale, questi artisti lavorano con gli scarti della società dei consumi e quelli della concezione artistica istituzionale e dominante. Il gruppo annovera tra le sue fila anche il piemontese Giovanni Anselmo. Classe 1934, formazione ginnasiale, pittore autodidatta e grafico di mestiere. Solamente a partire dal ‘64 la sua ricerca artistica si rivolge a idee contemporanee.
Personalmente apprezzo molto questo artista, secondo me l’esponente più ingegnoso dell’Arte povera. Non c’è dubbio che Michelangelo Pistoletto sia un vero e proprio filosofo del raccontare attraverso gli oggetti di recupero, mentre Jannis Kounellis – scomparso il 16 febbraio 2017 – porta in scena una realtà miserabile in cui il sovente e forte contrasto di bianchi, neri e toni di grigio (talora esaltato dalla riproduzione fotografica) colpisce come un grido spiazzante. Alighiero Boetti, tanto per dirne un altro, preferisce invece andare alla riscoperta del sapere artigianale di popoli lontani. Ecco allora che arte povera, nel caso di quest’ultimo, si configura piuttosto come arte “semplice” che come arte degli oggetti scartati.
Se comunque, in qualche modo, i lavori di Pistoletto – l’esponente più noto di questo movimento, preso qui come termine di paragone – rispecchiano il tema della sospensione del tempo che già la pittura metafisica aveva fatto proprio, Giovanni Anselmo va controcorrente. Anche Boetti a dire il vero non rimane del tutto indifferente alla questione; il giorno, il mese e l’anno di produzione diventano sempre i sottotitoli dei suoi arazzi. Ma per l’artista nato a Borgofranco d’Ivrea il tempo è invece qualcosa di attivo, e due opere in particolare della sua produzione sono basate proprio sulla declinazione di questo concetto.

Nel 1968, Anselmo espone Senza titolo (scultura che mangia l’insalata). Un cespo di lattuga e un cubo di granito, legati per mezzo di un filo di rame ad una stele dello stesso materiale lapideo. La disposizione dei primi due elementi è tale per cui, a mano a mano che il cespo marcisce viene meno la tensione del filo e quindi il piccolo cubo di marmo cade liberamente. Oggi si trova al Musée National d’Art Moderne di Parigi.
Raccontare un processo lento e silenzioso è lo scopo di questa installazione. Tutte le opere d’arte subiscono trasformazioni nel corso degli anni; i quadri a olio imbruniscono e dopo qualche tempo hanno bisogno di restauri. In questo caso, però, ci troviamo di fronte a un dispositivo artistico il quale accetta il mutamento dovuto alla natura caduca dell’ortaggio e fa della trasformazione la vera protagonista dell’opera. Non una patologia che richiede interventi tempestivi, ma un un fatto di cui sono considerate l’inevitabilità e, altresì, la ripetizione ciclica. Essendo poi cosa non inedita che si possa dire a proposito di questo artista che egli lavori molto sulla contrapposizione di opposti reciproci, è bene non ignorare come in quest’opera abbia voluto contrapporre, e legare (in ogni senso) alla morbidezza e alla deperibilità dell’insalata qualcosa di solido e immutabile.

In quello stesso anno l’artista realizza anche Torsione. L’opera è costituita da una striscia di stoffa piegata in due, con i capi uniti da un gancio e fissati alla parete. Una barra di metallo inserita in corrispondenza della piega ha reso possibile creare un avvitamento, e a tutt’oggi impedisce alla striscia di svolgersi per tornare allo stato originario. In verità, dopo tutti questi anni la striscia non avrebbe più bisogno della barra metallica; come scrive il professor Denys Riout della Sorbona di Parigi: «Il tessuto, con il tempo, ha incorporato la sua propria tensione».
Questa volta la contrapposizione non è solamente fra due situazioni opposte a livello macroscopico, come il morbido della stoffa e il rigido del metallo, ma addirittura fra due stati diversi della materia. E per giunta sono uno consequenziale all’altro. Giovanni Anselmo, infatti, mette in mostra quello che succede, spiegandola con i termini dell’ingegneria, quando un materiale sottoposto all’azione di una forza (in questo caso di torsione, appunto) passa da un comportamento elastico ad assumere un comportamento plastico. Avviene che qualsiasi modificazione fisica, una volta che l’azione della forza è cessata, diventa permanente e irreversibile.

Attraverso l’uso di oggetti che modificano la propria natura, Giovanni Anselmo dimostra come il tempo abbia una sua presenza. Esso opera paziente, non visto ma contemporaneamente sotto i nostri occhi; ulteriore contrapposizione. I mutamenti che porta sono impercettibili nel breve termine, e hanno come il sapore della trasmutazione alchemica. Salvo però valersi di quei principi che sono invece propri della chimica e della fisica.
Proprio il tempo, in conclusione, con il suo potere di rinnovare le cose, sembra essere l’elemento che permette alla poetica di Anselmo una trasversalità verso un altro genere dell’arte contemporanea che è poi l’Arte cinetica. Non soltanto però ci troviamo di fronte ad una ridefinizione di quest’ultima come arte del divenire, posta insieme alla più convenzionale e manifesta narrazione del movimento che si può ritrovare nella caduta della forma di marmo e nella rotazione della striscia di stoffa. Esiste infatti un livello di indagine del fenomeno che non ha molto a che spartire con l’esperienza di artisti come Jean Tinguely e Alexander Calder (il quale pure lavorava con l’azione di forze invisibili che permettessero, da parte dei suoi Mobiles, la ricerca continua di un equilibrio instabile). Forse è per questo che Giovanni Anselmo non è mai stato considerato un artista cinetico: il suo cinetismo è molto più discreto, solo episodico. Ma soprattutto riguarda, ancora una volta, il concorrere di quelle forze fisiche che fanno in modo che si verifichi la trasformazione della materia.
Niccolò Iacometti
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