Infine, l’orientalismo è «l’insieme delle istituzioni create dall’Occidente al fine di gestire le proprie relazioni con l’Oriente» che, nell’epoca coloniale posteriore, grosso modo, al tardo Settecento, ha detenuto il potere di «esercitare la propria influenza e il proprio predominio sull’Oriente».[1]
Quando Giovanni Battista Belzoni (1778 – 1823) si trasferisce a Il Cairo dove spera di poter diventare finalmente un famoso ingegnere idraulico e qui riesce nell’impresa di sollevare e trasportare il busto colossale di Ramses II (1303 a.C. – 1213/12 a.C), Signore dell’Alto e del Basso Egitto già dal 1279 a.C., si aggiudica un posto rilevante nella storia della neonata scienza dell’egittologia.[2]
La scultura di granito nota come Giovane Memnone, risalente alla metà del XIII secolo a. C. e scoperta dalle truppe di Bonaparte (1769-1821) nel 1798 – diciassette anni prima del trasporto che non era mai riuscito fino all’intervento dell’esploratore italiano –, oggi al British Museum, rappresenta il III faraone della XIX dinastia a petto nudo e con le insegne regali: la finta barba che il sovrano indossava durante le cerimonie religiose poiché lo accomunava al dio Osiride (e che si fissava alle orecchie con una cordicella, non presente nel ritratto scultoreo) e il nemes, ovvero il fazzoletto che ricade sulla schiena e sulle spalle, sormontato da una corona della quale si è persa la porzione destra e corredato sul fronte da un ureo (una piccola testa di cobra, solitamente accompagnata da un avvoltoio) di cui non resta che il segno. Non manca poi l’hosckh, una specie di collare a semicerchio con pendenti lungo il bordo [3]

Ancora oggi è in questo modo che immaginiamo il monarca di quelle epoche lontane, ma nell’Ottocento l’ispirazione iconografica dei narratori per immagini aveva ben altre origini.
Un caso emblematico è quello del pittore tedesco Peter von Cornelius (1783 – 1867), sposato alla causa artistica dei Nazareni.[4]
Nel 1815, lo stesso anno dell’impresa di Belzoni, Peter von Cornelius s’impegna a decorare per il console prussiano a Roma un salone della residenza che quest’ultimo aveva preso nel secentesco Palazzo Zuccari a Trinità dei Monti (non lontano dal convento di Sant’Isidoro dove i Nazareni si erano stabiliti). Bisogna dire che si tratta di una vittoria per l’artista, il quale voleva riportare in auge la tecnica dell’affresco per fondare una nuova arte nazionale germanica.[5] E in un dipinto oggi al Staatliche Museen, Nationalgalerie di Berlino egli rappresenta Giuseppe che interpreta i sogni del faraone.
Procediamo ad un’analisi formale dell’opera. Antonio Pinelli (1943) definisce lo stile dell’autore «secco e tagliente»,[6] e le influenze che gli artisti italiani del Quattro e del Cinquecento vi hanno esercitato sono facilmente riconoscibili. Tra questi possiamo menzionare Pietro Perugino (1448-1523), il Signorelli (1450-1523) del Duomo di Orvieto e Raffaello (1483-1520). Il faraone è al centro e divide la scena in due; lo circondano Giuseppe, figlio di Giacobbe, e il resto della corte; il gruppo potrebbe essere uscito dalla grande messa in scena della Scuola di Atene. Sullo sfondo, ai due lati del trono, s’intravedono gli scorci di un Egitto assolutamente immaginato: rigoglioso e dal cielo velato che trasmette una sensazione di frescura. Seduto in atteggiamento pensoso e leggermente scomposto su uno scranno di pietra, dalle modanature classicheggianti, con un paramento damascato alle spalle, il sovrano indossa un abito celeste le cui maniche arrivano fino ai polsi. Il viso da anziano, con la barba lunga e fluente come si attribuisce agli uomini saggi, è incorniciato da una cuffia sopra la quale è posta una corona d’oro a punte. L’uomo inoltre è avvolto in un drappo che gli copre il petto e il braccio sinistro, passa dietro la spalla opposta e ricade sulle gambe facendo un lieve risvolto sotto la pancia. Per finire, i calzari lasciano scoperte solamente le dita, con una tomaia che si ricongiunge alla suola passando tra l’alluce e il secondo dito.
Gli altri personaggi della raffigurazione non vestono molto diversamente, contribuendo a rievocare un paradigma rinascimentale della raffigurazione del vicino e medio Oriente.[7] Riguardo poi l’architettura, cui abbiamo già accennato a proposito del trono del faraone (il quale riecheggia nell’insieme a uno dei profeti della volta della Cappella Sistina), ci troviamo ancora una volta di fronte alla ripresa di un linguaggio totalmente avulso dalla realtà dell’Egitto antico. Basta vedere le modanature, ancora una volta, del trono o dei pilastri che sorreggono la grande finestra in secondo piano per accorgersi come tutto l’impianto scenografico si rifaccia piuttosto ad un’antichità greca a sua volta un po’ fantasticata.
Proprio però la maestosità dell’ambientazione, la raffinatezza degli ornati (vedasi la seggiola dello scrivano, con un ibrido tra la figura di un leone e un diramarsi di foglie) e il disegno geometrico del pavimento a due colori rimandano a un certo concetto di Oriente.

Ora la domanda che ci poniamo è la seguente: come mai il pittore non aggiorna la propria conoscenza dell’Egitto?
L’intento dichiarato è quello di rifarsi alla pittura rinascimentale, solo che il richiamo al mondo disegnato da Raffaello e Michelangelo (1475-1564) non è solamente stilistico ma addirittura iconografico. Eppure l’interesse per questo mondo altro, da cogliere un po’ meglio nella sua realtà (e da rielaborare poi solo in un secondo momento), si era riacceso con la spedizione napoleonica del 1798-1801 che aveva portato in Europa una vasta raccolta di nuovi rilevamenti sul campo, documentando ogni cosa dalla vegetazione alle architetture locali.[8]
Comunque non è che laddove questo aggiornamento si verifica il risultato sia pulito da narrazioni ad uso e consumo di una mentalità occidentale. Scrive Pierluigi Panza (1963):
“È un genere, questo dell’Oriente pittoresco, che spopola nella pittura orientalistica accanto ai soggetti di genere storico. […] Per molti artisti, come Decamps, Delacroix, David Roberts o Chassériau, un viaggio era sufficiente: si facevano schizzi a penna, inchiostro o acquarello dai quali poi si traevano le tele a olio. […] Non tutti i pittori orientalisti viaggiarono in Oriente. […] I soggetti della pittura orientalistica non furono sempre realistici. L’intera «Setta dei Levantini», i pittori definiti così per la predilezione dei soggetti esotici (se ne contarono circa cinquecento in Francia), si caratterizzarono per un trattamento tendenzioso delle scene e dei personaggi. Per tutto il secolo l’aridità del paesaggio orientale, per esempio, venne celata: si trattava di un elemento negativo che non avrebbe favorito il sostegno commerciale.”[9]
Il fatto che Peter von Cornelius ignori una visione dell’Egitto più veritiera rispetto al dispositivo estetico approntato non è in ogni caso da attribuirsi a cattive intenzioni (non più di quelle dei suoi colleghi, intenti a confezionare una visione dell’Oriente a misura di Europeo), quanto piuttosto ad una formazione culturale del pittore. Figlio del proprio tempo, von Cornelius vede a sua volta l’Oriente, vicino o lontano che sia, come meta prediletta di evasione dalla propria quotidianità europea di inizio Ottocento. L’Egitto come luogo dei sogni reconditi della borghesia occidentale è un paradigma alimentato nel corso del secolo da scrittori e, come si è visto, anche dai pittori. E il fine ultimo di queste produzioni artistiche è quasi pedagogico, per non dire di propaganda: formare la classe dirigente al di qua del Mediterraneo alla presunzione di superiorità rispetto alle popolazioni straniere.[10]
Molto semplicemente, tuttavia, al gusto turchesco dei suoi contemporanei, Peter von Cornelius preferisce un linguaggio della raffigurazione dell’Egitto che sia già in qualche maniera istituzionalizzato.[11]
Un linguaggio che però non sopravvive, visto il fatto che non viene perpetrato da altri pittori. È comunque allo stesso tempo un linguaggio basato su un ampio numero di artisti che in epoche precedenti lo hanno praticato, e questo è il motivo per cui il pittore tedesco lo recupera: gli dà sicurezza. Specialmente di fronte alla necessità che gli osservatori riconoscano le ambientazioni e le situazioni raffigurate –vivendo un’epoca in cui, probabilmente, l’artista ritiene che il Mondo non sia ancora avvezzo a un codice nuovo di rappresentazione–, questo linguaggio dimostra ancora tutta la sua appropriatezza ed efficacia.
L’Egitto che von Cornelius ha in mente, e quindi la chiave di lettura dell’idea preconcetta, sembra essere pertanto la risposta al quesito. Da qui l’assunto fondamentale che anima, anzi giustifica l’esistenza stessa di questo genere pittorico: non importa come sia veramente ciò che si sta raccontando, ma solo come un pubblico di veri e propri consumatori pensa che esso sia.
Questo atteggiamento, noi lo ritroviamo identico nelle situazioni sopra descritte nell’estratto da Orientalismi (il cui titolo, dice l’autore, vuole riecheggiare il saggio di Edward Said). Al cambiamento di vocabolario non coincide un cambiamento di intenzioni; l’orientalismo di Peter von Cornelius è, in definitiva, solamente un’altra faccia di una sola medaglia.
Come abbiamo visto, anche l’acquisizione di una più attinente conoscenza del reale non porta affatto, automaticamente ad una sua più sincera rappresentazione.
Niccolò Iacometti
Note
1 J. CLIFFORD, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, 2010, p. 298. Il virgolettato cita E. SAID, Orientalism, Pantheon Books, 1978, p. 3. Trad. it. Orientalismo, Bollati Boringhieri, 1991, p. 5. La tesi che vorrebbe molti dei prodotti europei, siano essi di letteratura (all’interno della cui categoria bisogna poi distinguere i generi della narrativa, del resoconto di viaggio oppure, per esempio, del saggio scientifico) o di arte visiva, aventi per oggetto la rappresentazione dell’Oriente, come strumento finalizzato in maniera surrettizia, subliminale e in ultima battuta alla conquista culturale e politica dell’altro è stata dibattuta da molti studiosi. A partire dal 1453, quando cioè gli eruditi bizantini scappano da Costantinopoli ora in mano agli Ottomani, e riparano soprattutto in Italia, l’Europa inizia a formulare numerosi e diversi paradigmi circa l’Oriente. Paradigmi che Martin Bernal (1937-2013) definisce modello antico, che influenzeranno l’estetica europea fino alla metà del Settecento e che lo stesso Edward Said (1935-2003), figlio di una concezione foucaultiana del sapere, giudica come di parte e costruiti in malafede. P. PANZA, Orientalismi. L’Europa alla scoperta del Levante, Guerini e Associati, 2011, pp. 11-12. In questo scritto prendiamo come buona la teoria, analizzando un caso particolare di rappresentazione pittorica del vicino Oriente agli inizi dell’Ottocento.
2 Era di stazza imponente il Belzoni, alto due metri (una statura non comune per l’epoca) e nell’Inghilterra della Rivoluzione industriale si era guadagnato da vivere nei circhi e nei teatri dando prova di una forza incredibile. Per questo il governatore egiziano per conto dell’Impero Ottomano lo ritiene adatto per l’impresa di recuperare una scultura che pesa sette tonnellate. Per un approfondimento, vedi M. TATSOS, Un attore da circo alla riscoperta dell’Egitto, in Mondo Nuovo, n. 1, gennaio 2014, pp. 36-47. Visti proprio questi suoi trascorsi, nonché l’estrazione bassa da cui proveniva e la sua presunta mancanza di una confacente erudizione, alcuni studiosi ne mettono in risalto l’indole da avventuriero in contrasto con la sopraggiunta attività di archeologo. P. PANZA, op. cit., p. 198.
3 Per un approfondimento sul costume nell’Antico Egitto, vedi L. BENATTI SCARPELLI – R. DI IORIO, Il Tempo del Vestire, vol. 1, Clitt, 2004, pp. 47-71.
4 Così chiamati in riferimento all’acconciatura dei loro capelli, detta appunto “alla nazarena”, si tratta di un gruppo di giovani artisti tedeschi i quali rappresentano una «significativa presenza nell’ambiente romano desideroso di restaurazione» dopo gli eventi politici di inizio secolo. In risposta alle convenzioni neoclassiche di cui si veste l’insegnamento accademico primo-ottocentesco, questi cercano un’alternativa nella pittura a cavallo tra Medioevo e Rinascimento. Principali animatori di questo «cenacolo» sono Franz Pforr (1788-1812), molto più ispirato dal Gotico suo connazionale e dalla pittura di Albrecht Dürer (1471-1528), e Johann Friedrich Overbeck (1789-1869). A. PINELLI, Primitivismi nell’arte dell’Ottocento, Carocci editore, 2012, pp. 73-74.
5 Ibid., pp. 77.
6 Id.
7 Questo tipo di abbigliamento sembra per altro non comparire uguale nelle rappresentazioni di vita quotidiana e nei ritratti dell’epoca rinascimentale. È come se costituisse un mondo del costume a parte, riservato alle scene ambientate nell’antichità. Il gusto dell’esotico, che nasce dalla contrapposizione fra noi e altro-da-noi, si realizza qui tramite l’apparente disparità, la quale doveva essere ben nota agli occhi dell’epoca, fra il costume rinascimentale (italiano) e un anticheggiante ma totalmente immaginario costume mediorientale. Questo, in definitiva, concorre a fomentare l’idea che tra il XV e il XVI secolo si sia venuto a costituire un vero e proprio paradigma o modello dell’antico (riprendendo Martin Bernal). Per un approfondimento sul costume rinascimentale italiano, vedi L. BENATTI SCARPELLI – R. DI IORIO, Il Tempo del Vestire, vol. 2, Clitt, 2004, pp. 37-121.
8 Si tratta de La Description de l’Égypte, pubblicata a Parigi dal 1809 al 1822. Voluta dallo stesso Napoleone, reca la firma di 43 autori, si compone di tre parti (antichità, Egitto moderno e storia naturale), 10 tomi di illustrazioni per un totale di circa 3000 immagini e 9 volumi di testo. Secondo Panza: «Le tavole della Description fornirono la prima reale conoscenza dell’Egitto […] Agli occhi di oggi, ovviamente, anche questa documentazione risulta imprecisa. […] L’opera costituisce comunque la prima “enciclopedia” che fece nascere una nuova disciplina, l’Egittologia. Ed era ormai ultimata quando, nel 1822, venne fatta la grande scoperta dell’Egittologia: la decifrazione della Stele di Rosetta da parte di Champollion». P. PANZA, op. cit., pp. 93 e 96.
9 Nelle opere di questi pittori l’Oriente, anche quando viene esperito di persona, viene poi letto alla luce di suggestioni letterarie o visive del passato: dai quadri di Rembrandt (1606-1669), di cui bisogna ricordare «la sua passione per i costumi esotici, l’ambientazione delle rappresentazioni bibliche, piene di mezze tinte e angoli d’ombra», agli episodi de Le Mille e una notte che influenzano la percezione che ha di Costantinopoli Horace Vernet (1789-1863). Ibid., pp. 185-186.
10 Parlano chiaro i casi di François-René de Chateaubriand (1768-1848) e di Gustave Flaubert (1821-1880). Il primo «ritiene gli Egiziani una razza inferiore», «Napoleone è una sorta di ultimo crociato e l’Oriente va redento». Il secondo, invece, «cerca in Oriente un’evasione visionaria dal quotidiano: l’Oriente è sensualità, fascino, mistero», e «In numerose varianti, Flaubert registra i barbari e bizzarri costumi musulmani». Ibid., pp. 179-180 e 182.
11 Non andrebbe sottaciuto che nello stesso tempo si stava riscoprendo la Grecia, protagonista già a partire dalla fine del XVII secolo della formazione di un nuovo e inedito paradigma. Per un approfondimento, vedi Ibid., pp. 120 e ss. Il recupero del linguaggio classico-rinascimentale nelle arti dell’Ottocento, e in particolare del caso in oggetto, potrebbe essere il riflesso di questo atteggiamento culturale.
Rispondi