Ci eravamo ripromessi, noi della redazione, che saremmo andati tutti insieme a vedere la mostra di Novara sull’Ottocento e che ne avremmo fatto una recensione corale: ma le cose non sono andate così. Tra di noi c’è chi sta lavorando, altri stanno preparando esami, altri ancora si stanno godendo le meritate ferie natalizie e come si suol dire, bisogna fare di necessità virtù. Ecco quindi che la recensione di questa nuova mostra novarese porta la voce e il punto di vista di un’unica persona. Vorrei iniziare col dire, non per mettere le mani avanti, ma semplicemente per esprimere una dichiarazione d’intenti, che la recensione di oggi non vuole essere troppo storica o troppo critica, ma proprio come il titolo racconta, vuole essere una carrellata di impressioni che ho avuto nel vedere la mostra: nulla di più, nulla di meno. Va da sé che alcuni commenti saranno positivi, altri negativi ma tutti dettati da una mia personalissima visione del modo di concepire le mostre d’arte. Per le questioni più storiche, più critiche, più tecniche, esorto a fare riferimento all’abbondantissimo (e forse un poco prolisso, ma almeno con le schede delle opere) catalogo a corredo della presente esposizione che qui vado a raccontare. Ebbene iniziamo!

La mostra Ottocento in Collezione: dai Macchiaioli a Segantini in scena al Castello Visconteo Sforzesco di Novara fino al prossimo 24 febbraio 2019 è curata da Sergio Rebora ed Elisabetta Staudacher con la supervisione di Fernando Mazzocca e in collaborazione con METS Percorsi d’arte e raccoglie ottanta opere tra pitture e sculture. Il tema è quello del collezionismo privato Italiano ed Europeo e prova a raccontare, attraverso otto sezioni tematiche e non cronologiche, i diversi generi figurativi che hanno contraddistinto l’Italia e le scelte di gusto lungo tutto il corso del XIX secolo. I protagonisti di questa mostra sono i più importanti pittori che la storia dell’arte possa sfoggiare con orgoglio: da Fattori a Morbelli, da De Nittis a Boldini, da Segantini a Fornara e via dicendo. Mi stupirei se dopo uno sfoggio così altisonante e un poco mondano di nomi così importanti, la mostra non riscuotesse sicuro successo di pubblico. E come potrebbe essere altrimenti: sul red carpet sfilano come se fossimo alla serata degli Oscar le stelle più importanti del panorama figurativo italiano ottocentesco. Vengono inoltre riproposti i cosiddetti itinerari sulla Novara ottocentesca: una vera avanguardia!!! Ma torniamo alla mostra. Le luci che illuminano le opere sono decisamente buone; ci sono solo qua e là dei riflessi che mettono in ombra i bordi alti delle opere dettati dalle imponenti e in alcuni casi bellissime cornici che inquadrano i dipinti: un sacrificio accettabile dunque. Detestabile il fatto, e non è la prima volta che mi capita a Novara, che in questi eventi si precluda l’accesso gratuito a chi possiede la tessera ICOM, concedendo invece la gratuità a visitatori con tessere decisamente più provinciali come FAI, abbonamento Musei e simili. Non che queste gratuità e riduzioni non ci debbano essere, ci mancherebbe, ma il fatto che una città con più di centomila abitanti che aspira a diventare leader nella promozione del turismo internazionale, escluda una tessera come quella ICOM dal respiro decisamente meno provinciale e anzi dalla validità mondiale dal giro delle agevolazioni, riduzioni e gratuità è inaccettabile. Così il costo del biglietto intero per questa mostra è di dieci euro che mi sembra davvero troppo. Qualche inquietudine viene poi dalle condizioni microclimatiche delle sale dove sono esposti i dipinti: è risaputo orami che le stanze del Castello di Novara possiedono gravi e persistenti problemi di umidità che di certo non fanno bene alle opere; lo sta a dimostrare il fatto che le opere non sono attaccate direttamente ai muri ma su appositi espositori che poggiano su essi e che la carta da parati colorata che riveste tali espositori presenta in alcune parti evidenti bolle di aria causate, a mio parare, dall’umidità. Non credo che questo tipo di microclima faccia bene ai dipinti, anche se sono dell’Ottocento. Ma se ai collezionisti privati che hanno prestato le opere la faccenda non crea fastidi, allora noi non possiamo far altro che goderci la visita! Bene invece le didascalie, concepite in maniera chiara e leggibile, sistemate ad una altezza consona; va sottolineato che i pannelli esplicativi, uno per ogni sezione tematica, sono chiari e concepiti secondo un testo completo ma dal linguaggio piano adatto ad ogni tipo di visitatore. La mostra non è certo una di quelle esposizioni dettate dalla ricerca quanto piuttosto mi sembra essere frutto dell’ormai consolidato mondo del business culturale che mastica mostre dai titoli accattivanti e di sicuri capolavori che fanno, come si suol dire, sbigliettare a gogo!!

Ma che cosa si vede in mostra? Le prime due sale sono dedicate alla storia patria, alla pittura di soldati, di battaglie condotte con fierezza dagli eroi che hanno fatto l’Italia. Assieme a quelle battaglie ci sono interni domestici, rustici e borghesi, le apprensioni delle donne per i mariti al fronte, sono presenti quadri raffiguranti i pianti sconsolati delle vedove, ma anche i sorrisi di chi torna dalla guerra consapevole di avercela fatta. Tra le opere di queste sale quelle che mi hanno colpito di più per la loro resa luministica sono Artiglieri sul Lungarno (1890 circa) del livornese Giovanni Fattori (Livorno, 1825 – Firenze, 1908) e la Fanfara dei granatieri (1875) del pittore, ai più sconosciuto, Luigi Nono (Fusina, 1850 – Venezia, 1918). In entrambe le opere si evidenzia la resa pittorica data attraverso l’utilizzo di macchie di colore, tipiche d’altra parte, dei pittori di questo periodo. Non mancano in mostra opere di Gerolamo Induno (Milano, 1825 – 1890) e del fratello Domenico, dal sapore più domestico, dove l’attenzione al quotidiano è data attraverso la resa dei minimi particolari; così si può cogliere sulla credenza in legno la lampada a olio, le pentole di rame, i piatti di metallo lucente, le sedie, il fucile appeso vicino alla credenza e così via: guardando questi dipinti vengono in mente gli interni descritti da Mario Praz nella sua celebre Filosofia dell’Arredamento. E se poi si dovesse proseguire nell’osservare questi interni si scorgerebbero, da dietro la tenda verde che separa la zona giorno dalla zona notte, le lenzuola bianche del letto appena fatto con il doppio cuscino utilizzato dai più anziani per alleviare i dolori di una schiena malandata a causa delle dure battaglie per difendere la patria. Arrivati alla seconda sala ci si trova immersi in una serie di scene più intime e riflessive, qui non è più la guerra e il rumore dei fucili che connotano le atmosfere delle opere esposte, quanto la visione di una nuova italianità. E allora è commovente sostare davanti al Ponticello a Portoferraio (1888 circa) del fiorentino Telemaco Signorini (1835 – 1901) che mostra un’Italia che ormai non c’è più, ma che avrebbe suscitato l’ammirazione o quanto meno l’attenzione di Pier Paolo Pasolini. Una natura contadina quasi incontaminata dal sapore genuino e non già corrotta dalla scriteriata urbanizzazione e dal capitalismo: pezzi di mondo che probabilmente non esistono più. Di Francesco Paolo Michetti (Tocco da Casauria, 1851 – Francavilla al Mare, 1929) si può ammirare L’Incontro (1887) una piccola teletta dove due contadinelle scalze si incrociano all’improvviso. Si guardano un poco in cagnesco e con un tono di sfida come se una dicesse all’altra: mi stai tra i piedi, levati! Tutta la scena è però pervasa da un clima un po’ ovattato, immerso in un’atmosfera agreste, quasi bucolica. I gesti sono calibrati, la pastorella che conduce il gregge rivolge la sua attenzione all’altra fanciulla che reca tra le mani un ramo con sopra dei frutti, forse degli agrumi forse dei peschi, o forse dei meli. Una umanità rara al giorno di oggi, che commuove forse di più dei freddi dipinti patriottici.

Sulla nostra strada troviamo ancora una volta Luigi Nono che, con il suo Refugium peccatorum (1883), riesce a toccare le vette dell’essenza romantica. La resa pittorica di questo quadro ha qualcosa che cattura lo spettatore e lo spinge a chiedersi che cosa quella povera e dolce ragazza stia aspettando davanti a quella balaustra. Prega davanti ad una lapide? Sta aspettando qualcuno che è lontano da tanto tempo? È lì accovacciata e nessuno sembra riuscire a consolarla. La malinconia e la tristezza avvolge per empatia chi osserva quella scena così terrena e pur così vera. Si prosegue, e una sala dalle pareti rosse ci accoglie facendoci entrare nel tema del paesaggio. I colori brillantissimi del più importante pittore vigezzino dell’Ottocento Carlo Fornara (1871 – 1968) ci accolgono come meglio non si potrebbe. Ultimi giorni d’autunno (1897-1905) è la rappresentazione di un altopiano vigezzino sopra Prestinone (terra natia di Fornara) nel quale stanno pascolando delle pecore; il sole si avvia al suo tramonto e l’ombra sta già per calare su queste innocue bestiole. Il pastore, ritratto di spalle sembra richiamare gli esiti ben più inquietanti di certe opere di Friedrich. Nell’opera di Fornara, la pennellata è data per sottili filamenti di colore che si sovrappongono e creano effetti luministici di rara raffinatezza. Lì accanto ci sono Ave Maria dell’alessandrino Angelo Morbelli (Alessandria, 1854 – Milano, 1919), di incredibile intensità spirituale, Chioggia di inverno (1884 circa) del Monzese Mosè Bianchi (1840 – 1904) e la splendida Laguna del veneziano Guglielmo Ciardi (1842 – 1917), tutte opere dove ciò che emerge, oltre alla natura ancora incontaminata, è anche una velata nostalgia e un senso del mistero e dell’ignoto tutto romantico.

Si arriva poi nella sezione dedicata al tema dei ritratti, dove su due pareti opposte dialogano le opere di Tranquillo Cremona (Pavia, 1837 – Milano, 1878) e di Daniele Ranzoni (Intra, 1843 – 1889). Da una parte sta il Ritratto di giovinetta del 1882 di Ranzoni, mentre sulla parete opposta un trittico di opere di Cremona ossia i ritratti del signor e della signora Dell’Acqua (entrambi 1875 circa) inframmezzati al centro dall’opera Il figlio dell’amore (1873 circa) quasi una moderna Madonna con il Bambino, resi con la consueta pittura tutta in senso simbolista di Cremona. La sua sembra quasi una pittura evanescente, fatta di sfumature, di “inarrivabilità”, di luci ed ombre che rimandano ad altri significati ad altre atmosfere tutte da decifrare o forse volutamente indecifrabili. C’è poi un’opera del grande Silvestro Lega (Modigliana, 1826 – Firenze, 1895), è la Curiosità (1866 circa), dove una fanciulla sbircia da dietro la veneziana qualcosa che sta accadendo fuori, oppure sta aspettando qualcuno che sembra non dover arrivare mai. Curiosità o attesa dunque? Non lo sapremo mai, ma il fatto di stare lì ad interrogarci è il fulcro su cui ruota tutta l’opera. E che dire poi dell’atmosfera che si scorge osservando quell’angusto stanzino? Sembra di essere immersi in una caldissima giornata estiva, di quelle dove l’afa non lascia scampo se non quello di ripararsi chiudendo strette le veneziane. Sono elucubrazioni e impressioni certo, ma perché non raccontarle?

Mancano poche sale alla fine della mostra, questa dove ci troviamo adesso sfoggia dipinti di grande bellezza. Ecco allora il Cappellino nuovo (1900 circa) di Giovanni Boldini (Ferrara, 1842 – Parigi, 1931), qui il ritratto di quella che dovrebbe essere Lina Cavalieri possiede raffinatezze degne di un Degas; nello sfondo i tocchi veloci del pennello sembrano aver creato quasi una autonoma composizione astratta di grande avanguardia. La scena è in movimento, dinamica, sembra quasi che la fanciulla si sia appena voltata e che stia per incedere verso destra per andare a vedere più da vicino quello che sta accadendo a pochi metri da lei. Forse il cappellaio le avrà tirato fuori qualche nuovo cappello all’ultima moda! A pochi passi altri due bei dipinti di Federico Zandomeneghi (Venezia, 1841 – Parigi, 1917) si mostrano al visitatore: sono Femme arrangeant des pommes (1894 circa) e Le morceau de sucre (1898-1905 circa). La resa cromatica di queste due opere è più violenta rispetto la tavolozza di Boldini, quasi prefigurazione di certi espressionismi, ma la raffinatezza della seconda tela del pittore veneziano ha davvero del commovente. Lo Sposalizio in Abruzzo (1876) di Francesco Paolo Michetti incontrato poc’anzi, mi ricorda poi certe prefigurazioni o esiti figurativi alla Klimt specie nei personaggi sulla sinistra che scendono le scale.

In un piccolo ambiente poco prima della sesta sezione della mostra si trova uno dei più straordinari lavori di Boldini vale a dire il ritratto di Emiliana Concha de Ossa (anche detto Pastello rosa, 1887-1888), un adorabile pastello su tela che fa sfoggio di una resa stilistica tutta incentrata verso la dinamicità e il movimento. L’intero dipinto sembra muoversi al ritmo di chissà quale melodia; linee curve e un senso della composizione inediti in quegli anni in Italia. Se si volesse isolare poi il centro della composizione ne verrebbe alla luce un altro quadro astratto.

Nella sesta sezione dedicata all’esotico, si osserva, pervasa di atmosfere simboliste la Suonatrice di liuto (1865) di Federico Faruffini (Sesto San Giovanni, 1833 – Perugia, 1869) che mi richiama alla memoria certe composizioni esotiche e perché no, anche erotiche alla Delacroix. Altre corrispondenze mi vengono osservando Il ritorno dei naufraghi al paese (l’Annegato, 1894) di Giuseppe Pellizza da Volpedo (Volpedo, 1868 – 1907) con il celeberrimo Monumento alle vittime del lavoro dello scultore ticinese Vincenzo Vela di qualche anno precedente rispetto all’opera di Pellizza da Volpedo. Siamo nella sezione dedicata ai disastri del lavoro e al suo ingiustificato sfruttamento.

Nell’ultima sezione della mostra, l’ottava, si trova un’altra opera di Giuseppe Pellizza dal titolo Paesaggio a Villa Borghese (1906), la quale ancora una volta richiama alla mente certe raffigurazioni romantiche alla Friedrich come la famosa Abbazia nel querceto (1809). Nel dipinto di Pellizza tuttavia l’atmosfera è decisamente meno funebre e pervasa da una luce sospesa e spirituale, rispetto a quella del grande maestro tedesco. Unica opera dal dichiarato significato sacro è il trittico di Gaetano Previati (Ferrara, 1852 – Lavagna, 1920) con al centro la Madonna col Bambino; qui la tecnica è tutta divisionista e lascia trasparire il segno netto delle pennellate. Siamo già in aria di liberty nella cornice che inquadra il dipinto di Plinio Lomellini (Livorno, 1866 – Firenze, 1943) dal titolo La nave corsara che ancora una volta riporta alla mente certe opere di disastri e naufragi alla Turner. Tre opere ancora vanno menzionate prima di chiudere queste mie impressioni, due delle quali appartengono al vigezzino Carlo Fornara ossia Da una leggenda alpina (1902) e l’Aquilone (1902-1904). Viene da chiedersi, osservando questi dipinti, quanto il grande Giovanni Segantini (Arco, Trento, 1858 – Monte Schafberg, 1899), specie negli esiti più estremi della sua pittura, abbia giocato un ruolo predominante nei risultati stilistici e formali di queste due opere di Fornara e non solo. Le ricerche di Anne Paul Quinsac curatrice di due mostre su Fornara a Domodossola e di una grande monografia su Giovanni Segantini a Palazzo Reale a Milano nel 2015, hanno a mio avviso solo scalfito la superficie della questione. Sembra che Fornara in l’Aquilone abbia attinto molto dal meraviglioso Trittico delle Alpi (o della Natura) di Segantini e in particolare modo nello scomparto intitolato La morte (1896-1899). Le due opere di Fornara appena citate ritengo facciano i conti anche con altre opere di Segantini come Le cattive madri (1894) o Ritorno dal bosco (1890). Nell’Angelo della vita (1894) sempre di Segantini ritengo invece di dover rintracciare echi in Da una leggenda Alpina di Fornara, certe conformazioni dei trochi d’albero o certe impostazioni delle figure che si librano leggere nell’aria come se fossero sospese nel vuoto, sembrano avvicinarsi alle vette più alte della pittura di Carlo Fornara. Il Vigezzino sembra in qualche modo essere stato molto legato al maestro e non soltanto dal punto di vista stilistico e compositivo: c’è nel profondo della personalità di Fornara una intensa ricerca della spiritualità, un senso comune di sentire la vita e di cercarne le corrispondenze nella natura incorrotta; in entrambi si percepisce una sensibilità e un senso nostalgico dell’incontaminato che raramente si coglie in altri pittori di questo periodo. Da ultimo vorrei citare un ennesima opera di Giuseppe Pellizza da Volpedo e cioè Membra stanche (1905-1906). La natura è pura e un gruppo di giovani contadini si sta riposando alla fine di una lunga giornata di lavoro nei campi. La luce, la natura, il senso di impotenza e di stanchezza delle membra si coglie pienamente in questi personaggi privi di volto, forse a prefigurare certi esiti della metafisica di Giorgio De Chirico; ma qui siamo già in un’altra stagione figurativa della storia dell’arte: l’avanguardia. Nella scena di Pellizza da Volpedo, le figure sembrano prestare attenzione solo a loro stesse, solo la figura femminile in piedi rivolge lo sguardo verso l’orizzonte e quindi, forse, verso il futuro.

Per uscire, ripercorriamo a ritroso la mostra e, nel farlo, ci soffermiamo sulle opere che ci hanno colpito di più e che hanno fatto elaborare queste elucubrazioni impressionistiche che hanno poi dato forma a questo testo. La mostra sull’Ottocento a Novara non è paragonabile, dal punto di vista della ricerca, ad altre che si stanno svolgendo in questo momento in Italia sul periodo in esame, ma vale tuttavia la pena di andare a vederla per l’alta qualità delle opere che espone.
Marco Audisio
Novara, 28 dicembre 2018
Tutte le immagini, scattate per l’occasione, sono state realizzate dall’autore di questo articolo.
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