A Milano, in una zona periferica, lontano dal viavai interminabile e dai clamori della grande e più conosciuta metropoli, si trova la chiesa di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa, dove il Novecento ha fatto incontrare alcune delle sue espressioni artistiche di maggiore rilievo e forse anche tra quelle in assoluto più interessanti. Il visitatore che, mosso dalla curiosità, intendesse raggiungerla, non dovrebbe fare altro che prendere la metropolitana, linea M2 (quella verde), scendere a piazza Abbiategrasso, e da questa posizione, volgendosi a nord, imboccare via Lodovico Montegani, addentrandosi così nel quartiere Stadera, e lasciandosi alle spalle quello denominato Chiesa Rossa; non perché si riferisca a questo specifico luogo di culto, quanto piuttosto alla non lontana chiesa di Santa Maria alla Fonte, detta la Rossa, edificata nel X secolo. Infine, camminando per circa 200 metri, e passando davanti ad una serie di condomini – disposti in file parallele all’interno di un’area trapezoidale che si estende a toccare la verdeggiante piazza Agrippa – arrivare fino all’incrocio con via Neera.

La storia di questo edificio ha inizio nel 1926, il medesimo anno in cui, parallelamente all’apertura del cantiere, la Stadera si separò da Chiesa Rossa in un distinto circondario cittadino. Incaricato della sua progettazione era stato l’ingegnere Franco Della Porta, il quale aveva proposto di adottare uno stile neoromanico, così si potrebbe pensare, affinché la nuova chiesa destinata ad essere la sede della parrocchia locale non stridesse con l’aspetto della sua “gemella” più antica. Successivamente, tuttavia, sarebbe toccato a Giovanni Muzio (1893 – 1982), uno dei principali esponenti del Novecento – questa volta inteso come movimento artistico – e della scena architettonica milanese in particolare, il compito di portarne a termine la costruzione, e nel 1932 questa aveva raggiunto ormai un livello di completamento sufficiente affinché l’allora arcivescovo di Milano, il futuro cardinale e beato Alfredo Ildefonso Schuster, potesse celebrarne la consacrazione.
Naturalmente, qualcosa nel frattempo si era perso dell’idea originale. Allontanandosi dall’impianto a basilica del Porta, Muzio aveva progettato una più tradizionale croce latina i cui bracci si differenziassero per la soluzione di copertura: a botte per la navata centrale (che diventa piana in corrispondenza di quelle laterali e che non si occulta nella visione dall’esterno, dove appare rivestita in lastre di metallo), a capriate lignee per il transetto. Quest’ultimo, poi, essendo soprelevato, avrebbe consentito di ricevere un maggiore apporto di luce all’alba e al tramonto. Ma soprattutto, di grande pregio risulta ancora oggi il monumentale pronao costituente la facciata dell’edificio; autentico saggio e interpretazione del manifesto programmatico novecentista. Proprio qui il recupero della primitiva tradizione italiana, promosso alla fine della prima guerra mondiale, in opposizione alle Avanguardie e agli incidentali dettami estetici del Razionalismo, sembra aver condotto il Muzio alla riscoperta del Rinascimento più genuino e, si direbbe, ad uno fra i suoi esempi più illustri che siano mai comparsi in terra lombarda, quindi all’Alberti della basilica di Sant’Andrea a Mantova rivisitato alla luce di un’estetica coeva. Dopotutto non si trattava di qualcosa che ancora non si fosse visto da quelle parti, o al quale l’architetto milanese fosse completamente estraneo. In quegli anni, si dà il caso, Milano stava vedendo spuntare ad ogni angolo i frutti di questo nuovo pensiero a metà fra due intenzioni. Cercando di stappare al monopolio delle accademie gli archetipi classicisti e, allo stesso tempo, promettendo a se stessi di non continuare l’ormai decadente cultura figurativa dello stile Liberty, una nuova generazione di progettisti voleva estrapolare dal passato il suo valore dell’ordine, per esaltarne e cristallizzarne il significato d’immutabilità in un’aura che avesse il sapore dell’eterno. E proprio Giovanni Muzio era stato fra i primi a dimostrare cosa dovesse essere questo “ritorno all’ordine”, per quanto il suo progetto decorativo per un edificio di appartamenti situato in via Moscova non si fosse risparmiato l’appellativo di Ca’ Brütta da parte dei suoi contemporanei. Arrivati fin qui, per continuare questo racconto, è necessario fare un vero e proprio salto avanti nel tempo, saltare numerose vicende, e arrivare più vicino ai giorni nostri, allorché si rese necessario che la Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa affrontasse un intervento di restauro.
Correva l’anno 1996. In quella circostanza don Giulio Greco, parroco della chiesa tra il 1984 e il 2008, ebbe un’idea indovinata: chiamare un artista americano, il newyorkese Dan Flavin (1933-1996), e invitarlo a realizzare una delle installazioni luminose per le quali era già famoso in tutto il mondo, e che potesse essere ospitata proprio all’interno dell’edificio.

Indipendentemente dal fatto che la scelta del reverendo possa essere tuttora considerata un azzardo, di quelli che però molto spesso recano insieme un intenso bagliore di lungimiranza, Flavin avrebbe dimostrato che non poteva essere la persona migliore in quel frangente, il cervello più adatto a concepire e realizzare quel particolare tipo di intervento. Tralasciando il fatto che avesse studiato teologia (una scelta poi abbandonata per seguire il fratello nell’aviazione statunitense), era innegabile come la sobrietà delle sue composizioni fosse quel che meglio avrebbe saputo coniugarsi alla purezza delle forme che erano state progettate dal Muzio all’incirca settant’anni addietro. E nonostante qualcuno avesse giudicato fredde, impersonali e ripetitive le sue composizioni di tubi al neon – che già a partire dagli anni Settanta l’avevano reso uno dei più grandi esponenti dell’arte concettuale e minimalista –, era proprio questo senso di spiazzante elementarità il principio capace di suggerire all’osservatore quel connubio di ascesi e trascendenza il quale avrebbe proprio dovuto addirsi ad una chiesa. Se poi i temi sopra i quali aveva riflettuto nel periodo trascorso al seminario cattolico di Brooklyn, fra il 1947 e il 1952, avessero avuto un qualche ruolo (così come probabilmente era stato per la serie Icons del 1961), questo non lo si è mai potuto dire certamente. Per la chiesa milanese, che egli non visitò mai di persona, essendo all’epoca già molto anziano, Flavin progettò allora un sistema che diffondesse la radiazione variopinta e distinguesse nell’insieme architettonico tre parti principali. In questo modo, alle navate fu destinato il colore celeste, il transetto si tense di rosso, e per finire l’abside incominciò a risplendere d’oro. Sopra ad un’eventuale simbologia di questi tre colori, Flavin preferì lasciare sempre il discorso in sospeso, e malauguratamente non avrebbe mai potuto vedere la sua ultima opera finita, quand’essa prese vita l’anno successivo nell’ambito di una mostra commemorativa che la Fondazione Prada aveva organizzato.
Non per caso durante un’intervista, Robert Ryman (che insieme a Sol LeWitt aveva introdotto Dan Flavin al concettualismo) ebbe modo di esprimersi con queste parole:
… non si può prelevare un Flavin dall’armadio e dire: «Ecco un Flavin». Si vedrebbero solo due tubi al neon. Il materiale dev’essere posto in una situazione, su una parete, perché svolga completamente la sua funzione.
E infatti, contrariamente a quello che poteva aver già fatto, per esempio, Lucio Fontana, proprio a Milano, alla Terza Triennale, nel 1951, quando aveva esposto un gigantesco disegno luminescente che volteggiava sospeso nell’aria, Flavin aveva sempre lavorato con lo scopo di vedere i propri corpi illuminanti applicati dentro uno spazio architettonico dal quale non potessero prescindere. Combinati e disposti in conformazioni varie, essi non hanno mai ricercato il semplice apparire alla stregua degli oggetti d’arredo; cosa che in effetti non sono mai stati. Ben lontano dall’esibizione di un valore segnico o geometrico, la sua ricerca si è sempre orientata verso lo studio della relazione fra la luce emessa e lo spazio costruito. E proprio nella chiesa di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa, dove non sarebbe improprio sostenere che Flavin abbia lasciato il proprio testamento spirituale, egli è andato ben oltre le sue consuetudini, riuscendo quasi a smaterializzare la fonte luminosa, a nasconderla talmente bene affinché l’occhio del fedele potesse concentrarsi solo sull’effetto prodotto; e all’improvviso fu come se l’arte, ancora una volta, fosse ritornata a celebrare la gloria di Dio, o chi per esso.
Niccolò Iacometti
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