Poeta segnico di connessioni primordiali ed eterne: Paul Klee alle origini dell’arte

C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”

È con queste parole che Walter Benjamin descriveva, tentando inoltre di spiegare il suo significato di Storia, una delle opere più toccanti di tutta la storia dell’arte novecentesca: Angelus Novus di Paul Klee (Münchenbuchsee, 1879 – Muralto, 1940). È con queste parole che avvenne, per noi, l’incontro con Klee sui banchi dell’Università quando studiavamo in Statale. Da subito quest’artista ci apparve complicato, difficile, proprio per il suo non appartenere a quella o quell’altra categoria; ci era chiaro che ogni tentativo di incasellarlo in categorie estetiche e formali o di costringerlo in ambiti storiografici come ha fatto molta della critica novecentesca, ci avrebbe portato ancora più lontani dalla sua comprensione e assimilazione.
Una difficoltà affievolita, ma non ancora del tutto scomparsa, grazie allo studio approfondito del contesto artistico entro il quale Klee ha operato durante la sua vita. Un artista reso meno complicato solo in parte dal nostro aver studiato e capito artisti da cui, secondo la critica, Klee avrebbe preso a prestito linguaggi figurativi. Per noi la mostra al Mudec di Milano poteva essere una occasione per arrivare finalmente a carpire i segreti di un artista che a entrambi non lascia indifferenti ma che proprio per il suo essere misterioso suscita in noi la sfida della sua comprensione. Non è stato proprio così: ma procediamo per gradi.

In scena fino al prossimo 3 marzo presso il Mudec (Museo delle Culture di Milano), la mostra Paul Klee. Alle origini dell’arte propone una consistente selezione di opere realizzate dall’artista svizzero nell’arco di tutta la sua carriera. L’esposizione, a cura di Raffaella Resch e Michele Dantini, è promossa, come di consueto per quanto riguarda questo polo culturale, dal Gruppo 24 Ore e per il suo allestimento è stato possibile contare sul prezioso sostegno del Zentrum Paul Klee di Berna, prestigioso museo dedicato alla figura dell’artista svizzero.
La mostra si articola in cinque sezioni, proponendoci quindi un approccio tematico e non cronologico alla produzione di Klee; come suggerisce il titolo stesso, abbiamo la possibilità, in questa sede, di ripercorrere i suoi tentativi di definire una propria idea di primitivismo artistico, non solo attraverso il confronto figurativo con l’arte del passato, ma anche, e soprattutto, in senso formale e concettuale.

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Fig. 1 Paul Klee, Vergine sognante, 1903, Berna, Zentrum Paul Klee.

Si tratta di una ricerca alla quale Klee si avvicina per gradi; i suoi primi interessi, coltivati durante gli studi all’Accademia di Belle Arti di Monaco, sono per lo Jugendstil e per l’immaginario fantastico e inquietante del simbolismo tedesco, complici gli insegnamenti di Franz von Stuck (Tettenweis, 1863 – Monaco di Baviera, 1928). Sono suggestioni che, nel giovane artista, trovano sfogo innanzitutto nell’arte grafica e in una pratica che egli perseguirà poi per tutta la carriera, quella della caricatura. Quest’ultima non è solo uno strumento per interpretare in chiave a volte satirica, altre volte grottesca, l’attualità, ma diviene anche un mezzo per dare vita al proprio personale repertorio di creature chimeriche che già cedono a quell’infantilismo, nel senso più nobile del termine, che diverrà poi in Klee uno dei suoi tratti più riconoscibili. Un esempio è offerto in mostra dall’incisione Vergine sognante, una caricatura tratta dalla fortunata serie di acqueforti dal titolo Inventionem.

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Fig. 2 Paul Klee, Sommo Guardiano, 1940, Berna, Zentrum Paul Klee.

La presa di coscienza verso la potenza espressiva del colore giungerà solo all’inizio degli anni Dieci, grazie al fondamentale incontro con Vasilij Kandinskij (Mosca, 1866 – Neuilly-sur-Seine, 1944) e il suo “Der Blaue Reiter” e all’ancora più decisivo viaggio in Nord Africa, a Tunisi e Hammamet, grazie al quale Klee ha la possibilità di risalire ai primordi della cultura figurativa islamica. Ciò contribuisce a determinare in lui quella svolta verso un approccio ascetico, non solo all’arte ma alla vita stessa, mentre assistiamo all’affacciarsi nelle sue opere di forme più pure e geometriche e colori pieni e caldi, mezzi attraverso i quali egli cerca di ridefinire i concetti di religiosità e misticismo, in modi che ambiscono ad oltrepassare in modo adogmatico la convenzionalità dei culti. Si tratta di un modo non solo di operare, ma di vivere che segnerà l’artista per tutta la sua esistenza, come testimonia il dipinto Sommo Guardiano, realizzato poco prima della morte, nel 1940.

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Fig. 3 Paul Klee, Tempo di forza, 1933, Berna, Zentrum Paul Klee.

Un altro aspetto estremamente interessante della produzione di Klee, molto ben approfondito nella terza sezione della mostra, riguarda il suo approccio ai complessi sistemi di alfabeti e simboli delle culture con le quali, di volta in volta, egli entra in contatto. Lettere e ideogrammi non sono tuttavia considerati nella loro consueta funzione di strumenti per la comunicazione verbale; al contrario, l’artista se ne serve per esaltare le loro qualità puramente grafiche o comunque in grado di suggestionare immagini più che parole; ci imbattiamo dunque, in queste opere, nella presenza di lettere e simboli tratti dai sistemi di linguaggio più disparati, a volte isolati, come la grande “K” nel dipinto Tempo di forza, altre volte accostati gli uni agli altri nel dispiegarsi delle loro infinite possibilità di evocazione.
Nelle due sale successive, il visitatore può, in un certo senso, immergersi nei panni dell’artista ed avere esperienza diretta dei modi attraverso cui vennero da lui affrontati due dei linguaggi che hanno segnato di più l’immaginario delle avanguardie storiche e dai quali, dunque, anche egli non poté sottrarsi. L’etnologia, innanzitutto: nonostante per Klee questo termine non implichi solamente le già citate riflessioni sulle produzioni arabe-mediterranee, già trattate in precedenza, e non si esaurisca nemmeno nella rielaborazione dell’imperante “arte negra”, quest’ultima è pressoché l’unica a trovare qui spazio: vediamo infatti esposti, in questa sala, alcune maschere provenienti dall’Africa, e lacerti di tessuti di abiti precolombiani, che, forse, hanno un ruolo non così determinante nell’identificare il sistema culturale a cui l’artista attinse. La scelta è stata giustificata dai curatori con la volontà di restituire un’idea dell’immaginario a cui fece riferimento Klee che fosse il più possibile vicino alla sua vera esperienza e, pertanto, sono stati scelti reperti forse analoghi a quelli che lui ebbe modo di vedere in occasione delle sue visite alle varie collezioni Europee: dubbi sull’efficacia di questa sezione ne rimangono e molti anche. Restano infatti escluse dalla trattazione altre fonti d’interesse alle quali l’artista guarda, che risultano parimenti significative, se non di più, anche perché affrontate più raramente dalla critica, quali l’arte celtica e la pittura tedesca del primo rinascimento, cui di esempi in mostra non ve n’è traccia.

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Fig. 4 Paul Klee, Senza titolo (Clown dalle grandi orecchie), 1925, Berna, Zentrum Paul Klee.

Trova poi spazio un’interessante sezione dedicata a quella che fu, come anticipato, l’esperienza di Klee alle prese con l’universo fiabesco dell’infanzia, immaginario che nella sua produzione assume un ruolo centrale. Non sono tuttavia esempi pittorici quelli qui presentati, bensì manufatti: più precisamente, le marionette che Klee stesso costruì per il figlio Felix fra il 1916 e il 1925, utilizzando materiali di recupero con perizia tutta manuale, artigianale, memore forse dell’esperienza dell’artista al Bauhaus. Impossibile non notare, tuttavia, come l’esito finale esuli dalla dimensione del solo gioco: osservando questi oggetti, si avverte infatti il richiamo a certe esperienze dada, come quelle della pittrice e designer Sophie Taeuber – Arp (Davos, 1889 – Zurigo, 1943) – anch’essa svizzera – che negli stessi anni fabbrica una serie di burattini per la messa in scena degli spettacoli teatrali del movimento. La sala dedicata alle marionette di Klee offre inoltre un’interessante esperienza interattiva: vi è stata infatti ricostruita una “lanterna magica”, un antico strumento che permetteva, nell’epoca antecedente all’invenzione del cinema, la proiezione di immagini in movimento su uno schermo. Tale dispositivo viene messo a disposizione dei visitatori, che hanno la possibilità di manovrarlo per animare i personaggi ideati da Klee.

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Fig. 5 Paul Klee, Paesaggio in verde con mura detto Costruzione boschiva, 1919, Milano, Museo del Novecento.

L’ultima sala, infine, è dedicata alle opere astratte, ma si tratta di un concetto di astrazione che l’artista, come per ogni ambito da lui affrontato, riesce a personalizzare. Sebbene riscontriamo infatti, nella produzione di questa fase, elementi figurativi, come dettagli desunti dalla vegetazione o profili di architetture religiose, tali immagini non potrebbero essere più distanti dalla realtà, poiché la loro esistenza viene ricondotta a forme pure ed essenziali e si snoda all’interno di precisi schemi geometrici. Senz’altro significativo, in questo senso, è il fatto che l’artista, a partire dagli anni Venti verrà chiamato ad insegnare al prestigioso Bauhaus di Weimar, istituto nel quale otterrà proprio le cattedre di teoria della forma e teoria del colore.
Per concludere, come già anticipato nell’introduzione all’articolo, una volta tirate le somme sulla mostra in oggetto ci siamo resi conto di come, in realtà, essa abbia contribuito solo in parte ad accrescere le conoscenze sull’artista che ci derivavano dagli studi scolastici e universitari. L’esposizione è senz’altro utile per presentare Klee al grande pubblico: essa permette infatti di avere un’idea abbastanza completa della sua produzione, affrontando le tappe essenziali della sua carriera in modo comprensibile e didascalico, complice anche un allestimento non dispersivo e che permette una fruizione gradevole delle opere.
Sicuramente molto apprezzabile è l’ampio spazio restituito alla grafica, disciplina solitamente “snobbata” nei contesti rivolti al pubblico non specializzato. A questa nota positiva fa tuttavia da contrappeso l’esiguità della sezione dedicata alla cosiddetta “arte primitiva”, ricondotta a poche testimonianze esotiche, nonostante, come del resto viene esplicato negli stessi pannelli della mostra, Klee ebbe modo di confrontarsi anche con la quasi totalità delle culture prerinascimentali occidentali, delle quali però non vi è traccia. Se approfondite, esse avrebbero permesso di avere una prospettiva più completa sul costituirsi della filosofia sottintesa alla produzione dell’artista, la quale, essendo un unicum nel panorama artistico novecentesco, necessita di essere affrontata attraverso fondamenta e chiavi di lettura precise e ben consolidate.

Chiara Franchi
con nota introduttiva di Marco Audisio

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