Prima che venisse realizzato il Carlo Felice (1828), a Genova i teatri più importanti erano tre: il Falcone, il Sant’Agostino e la piccola sala delle Vigne. Secondo la consuetudine tutta italiana, non soltanto questi erano luoghi di spettacolo ma fungevano anche, e in un certo senso principalmente, da posti in cui venivano messe in scena le dinamiche sociali. Oggi, di essi non rimane alcunché. In questa breve anche se non originale trattazione approfondiremo la conoscenza di questi luoghi perduti, esaminandoli uno alla volta sulla base dei principali studi esistenti. Tra questi il contributo più significativo proviene sicuramente dalle ricerche di Armando Fabio Ivaldi, autore del saggio Genova e il Teatro, fra Seicento e primo Ottocento, contenuto nel catalogo della mostra Il Teatro Carlo Felice di Genova. Storia e progetti, curata da Ida Maria Botto e svoltasi a Genova nel 1986, che spiega quali fossero nel capoluogo ligure i teatri dove più di frequente si tenessero gli spettacoli e ne traccia una breve ma esaustiva cronistoria.

Il primo teatro di cui ci occuperemo è quello del Falcone. Questo sorgeva in luogo di un’antica osteria, della quale in qualche maniera avrebbe conservato il nome: l’hospitium ad signum falconis, la cui attività nell’ospitare la commedia dell’arte risaliva già al 1566. [1] Verso gli anni Quaranta del XVII secolo, di tutte le cosiddette hostarie genovesi è stata proprio questa a subire la più rapida trasformazione verso il nuovo modello teatrale importato da Venezia, e con l’introduzione di palchetti rivestiti in stoffe pregiate, non più tardi del 1646, nacque un vero e proprio teatro destinato a rimanere il solo nella Genova dell’epoca ad avere avuto fin dall’inizio una struttura e un’organizzazione tipicamente veneziane, e anche il solo – pur senza smette di funzionare anche da locanda –, fino alla fine del Seicento, «in grado di assicurare un’attività pubblica abbastanza continuativa, legata in particolare all’opera in musica “mercenaria”». [2] Ora, per quanto l’importanza di questo luogo fu tale che gli consentì di sopravvivere almeno fino agli inizi dell’Ottocento, è giusto segnalare la notizia risalente al 1653 di un altro teatro, noto come teatro o stanza di S. Domenico, nel quale si recitava la commedia e la cui esistenza spinge a interrogarsi circa una possibile, eventuale concorrenza con il Falcone diventato nel frattempo Teatro Adorno. Dal 1602 infatti, esattamente un paio d’anni dopo che il vecchio proprietario (tale Giacomo de Zaretti) decise di mettere l’immobile con tanto di suppellettili all’asta pubblica, ad occuparsene, una volta aggiudicatisi l’affare, sarebbe stato il nobile Gabriele Adorno, in seguito alla cui morte (nel 1611) nel 1639 la gestione sarebbe passata al discendente Giacinto, che diresse il teatro «per profitto proprio o con ulteriore procura per tre nipoti».[3] Il 1667, così come lo definisce Ivaldi, fu poi un anno importante nella storia del teatro Falcone, essendo che gli Adorno lo affittarono ad una società di aristocratici genovesi i quali s’impegnarono a ricostruire la sala con due ordini di sedici palchi ciascuno e un terzo «per il sfogo della gente ordinaria». [4] Nel corso di poco più di dieci anni il teatro e l’annessa locanda si guadagnarono una fama gloriosa presso la popolazione genovese, ma nella primavera del 1680, per contrasti fra la famiglia Adorno – già in dissesto finanziario – e i suoi procuratori, nonché il cattivo stato della sala, l’intero edificio venne messo nuovamente all’incanto e infine, dopo lunghe e non semplici trattative, acquistato da Eugenio Durazzo per 26.680 lire genovesi. [5]
Perfettamente in linea con l’atteggiamento che aveva avuto il precedente proprietario, le intenzioni che Eugenio Durazzo ebbe nei confronti del teatro Falcone furono di erigere un suntuoso palazzo cui la sala ad uso spettacoli sarebbe stata annessa, il tutto prospettante sulla via Balbi che nel frattempo era diventata la seconda strada di prestigio della città di Genova, coronando «un premeditato disegno speculativo che andava anche a tutta gloria del casato». [6] La riapertura di un Falcone interamente rinnovato coincise però con l’inaugurazione di un nuovo teatro chiamato di S. Agostino; presi insieme questi due eventi pubblici testimoniano quanto l’opera in musica fosse appassionante per la popolazione genovese anche se rimase nel quadro di un divertimento di lusso, autocelebrazione della nobiltà locale. Per questo motivo, a Genova, il teatro Falcone – ex Adorno e d’ora in poi conosciuto anche come teatro Durazzo – e il teatro di S. Agostino, rimasero per tutto il Settecento «le sale urbane di maggiore prestigio», e pur di impedire la concorrenza tra le due istituzioni, già nel 1706, si arrivò ad un accordo privato fra proprietari col quale si convenne di regolamentare l’attività dei rispettivi teatri in base ad «un sistema biennale di stagione accuratamente avvicendate». [7] Scrive Ivaldi:
La costruzione di sale più grandi e più moderne, sarà tuttavia solo in apparenza un modo per allargare davvero lo spettacolo pubblico alle classi medie e di rendersi flessibili alle nuove istanze della ricca borghesia: in realtà, siamo di fronte ad uno dei tanti aspetti ambigui della cultura genovese del Settecento. […, infatti N.d.A.] S’incrementa l’aspetto speculativo e commerciale della gestione di un teatro, mentre, per altro verso, l’accentuata struttura impresariale dell’esercizio è comunque sempre funzionale alla classe dominante, meno dinamica delle generazioni seicentesche ed ormai irrigidita su posizioni di casta chiusa e conservatrice. […] Forse mai come nel passaggio fra il secolo XVII e il XVIII, è possibile stabilire, per Genova, una relazione così stretta fra il mondo dello spettacolo in senso lato – nelle sue forme, manifestazioni, stereotipo – e l’ideologia ed il costume dell’aristocrazia locale […, la quale N.d.A.] doveva soddisfare la necessità di imporsi, anche visivamente, dinnanzi alla città. [8]
Due parole circa l’architettura di questi due teatri; prima il S. Agostino, nato da una speculazione edilizia condotta nella zona urbana compresa tra i quartieri di Sarzano e S. Donato, rimasta gravemente danneggiata dall’artiglieria francese del 1684, e di cui era proprietario il nobile genovese Nicolò Maria Pallavicino, marchese, il quale conosceva e ammirava la vita artistica e culturale della Roma di fine Seicento. Tutt’oggi costituisce un problema la paternità del progetto, attribuito però a Carlo Fontana sulla base di due osservazioni: da una parte il Fontana era sicuramente conosciuto dal marchese Pallavicino, inoltre è attribuita a Filippo Juvarra, suo allievo, quella che viene ritenuta una copia dei disegni originali conservata alla Biblioteca Nazionale di Torino. [9] Più grande del Falcone, il S. Agostino presentava una pianta a ferro di cavallo con cinque ordini di plachi e un’area, in fondo alla platea, semiellittica, dal profilo mistilineo, sopraelevata e balaustrata, alla quale si accedeva per mezzo di scale che divergevano nel senso della salita, e con due bracci che percorrevano il perimetro della sala fino a terminare, quasi in corrispondenza del spazio dell’orchestra, ciascuno con pochi gradini che giravano verso la platea. Colpiscono, secondo Ivaldi, la non molta profondità del palco (9,30 metri) e l’esiguo spazio a forma trapezoidale previsto per gli scenari (da 17,36 a 12,40 metri), il quale avrebbe reso problematica la manovra a vista dei fondali nonché l’impiego di macchineria complessa e inoltre caratterizzava il teatro per il «poco sfondato», [10] vale a dire per la scarsa illusione prospettica che la scena comunicava agli spettatori. Dopo vari interventi nel corso del secolo XIX, sia di restauro che di riadattamento, il teatro venne definitivamente distrutto durante la Seconda guerra mondiale. Dal 1986, in luogo sorgono le tre sale del Teatro della Tosse, sede dell’omonima compagnia fondata dal regista Tonino Conte e lo scenografo Emanuele Luzzati.

Due disegni conservati alla Bibliothèque de l’Opèra di Parigi, attribuiti senza prove decisive all’architetto francese Gabriel Pierre Martin Dumont e riferiti presumibilmente al S. Agostino, prima o poco dopo il 1770 (a scapito dell’intestazione che li rimanderebbe invece al teatro delle Vigne), [11] fanno emergere come la sala abbia assunto una forma a U sotto la gestione della famiglia Durazzo la quale nel frattempo ne aveva acquisito la proprietà. Disegni successivi (1780), opera di Cosimo Morelli, indicano che il teatro ha subito un riadattamento con variazione della curva dei palchetti allo scopo di aumentarne il numero (sia pure di soltanto due palchi in più per fila, da 25 a 27) e un’elevazione dell’altezza complessiva dell’edificio da circa 13,64 metri (disegni di Torino) fino a 15. La conquista più grande, comunque, riguardò il proscenio che venne ampliato per dare ai cantanti maggiore spazio d’azione; in questa maniera il problema del «poco sfondato» della scena «veniva aggirato, ma non risolto, vista l’impossibilità di acquistare aree contigue al teatro, al fine di ingrandire il perimetro esterno». [12] Nel 1790, il S. Agostino era ormai diventato «la più grande sala urbana per pubblici spettacoli», [13] acquisendo pertanto il nome di teatro di Genova. Risalgono a questi anni ulteriori modifiche interne dall’evidente intenzione speculativa, e nuove decorazioni alla cui realizzazione parteciparono l’architetto Lorenzo Fontana e i pittori Carlo Alberto e Antonio Baratta. Venne quindi rafforzata la curva dei palchetti, aggiunto un sesto ordine adibito a piccionaia, e si affittò il magazzino del convento attiguo ed omonimo al teatro come laboratorio e deposito per le scene. Di contro, la sala perse di buona prestazione acustica, insorsero problemi di areazione e il palcoscenico divenne più stretto e sproporzionato rispetto all’alveare dei palchi. [14]

Parliamo adesso del Falcone, ormai noto come Teatro Durazzo. Anche in questo caso disponiamo di tavole attribuite alla mano di Juvarra (le quali provengono sempre dalla Biblioteca Nazionale di Torino) secondo le cui indicazioni 8,18 erano i metri «agibili e utilizzabili», [15] e la sala presentava una forma a U che si restringeva leggermente verso il fondo. Anche in questa pianta troviamo la stessa soluzione del S. Agostino, con un’area sopraelevata e balaustrata che doveva estendersi tramite camminamenti lungo i lati della platea. Sappiamo poi di un disegno, allegato al contratto di locazione del 1677 e andato perduto, il quale riportava due ordini di sedici palchetti ciascuno e una piccionaia. Anche qui lo spettatore si sarebbe trovato di fronte a una scena scarsamente profonda, il che «poteva creare inconvenienti perfino nell’elementare alternanza di scene corte e scene lunghe», [16] in più si segnala l’assenza o la scarsezza d’impianti idraulici necessari alla frequente presenza di fontane e peschiere nelle opere in musica del secondo Seicento. Con ogni probabilità al vaglio degli studiosi, anche la facciata del palazzo voluto da Eugenio Durazzo per incorporare il teatro, datata 1705, sarebbe opera di Carlo Fontana. Nello stesso anno, il nuovo teatro venne inaugurato con cinque ordini di palchi degradanti e sporgenti (contro i quattro rettilinei dei disegni di Torino), e per una delle opere serie con le quali venne inaugurato, l’Eraclea di Alessandro Scarlatti, l’allestimento vide la presenza come scenografo di un’importante firma coma Francesco Galli da Bibbiena. Divenuto poi proprietà dei Savoia nel 1824, dopo vari rimaneggiamenti e i cospicui danni subiti, ancora una volta, a causa del secondo conflitto mondiale, alla fine venne demolito per essere ricostruito con forma totalmente diversa. [17]

Due parole anche sulla piccola sala delle Vigne, per concludere. Nacque anch’essa come osteria e prese il nome dalla vicina basilica di Santa Maria delle Vigne; sebbene ci sia ignoto quando esattamente venne trasformato in teatro pubblico; un documento del 1772 attesta che già in quell’anno il teatro apparteneva al nobile Paolo Camillo Mainero. Passò infine anch’esso nelle mani dei Durazzo, presumibilmente alla morte del Mainero nel 1782, e alla fine venne chiuso per motivi di sicurezza nel 1881, dopo essere stato adibito, al più tardi già dal 1848 (anno dell’acquisto da parte del commerciante Antonio Romanengo) quasi esclusivamente a teatro di marionette. A scapito delle poche notizie rimasteci di questa sala, è dal contratto di affitto del 1772, stipulato fra Camillo Mainero e Gaetano Pittalunga in data 19 novembre, che deduciamo le più interessanti notizie circa il suo aspetto complessivo in questo periodo: il teatro possedeva una platea contenente ventidue panche con spalliera, tre ordini, ciascuno di tredici palchi, cui si aggiunge un loggione a tre gradinate, un’orchestra e una scena provvista di otto quinte laterali di tela a libretto, con la rappresentazione di un salone regio, sette cieli (quattro rappresentati il soffitto del salone e tre «aria di bosco», cui lo scrivente immagina dovessero essere abbinate delle quinte con lo stesso soggetto) e un sipario blu, il tutto corredato da un sistema «agile per fare la mutazione delle scene» e uno di illuminazione. [18]
In ultima battuta, vale la pena soffermarsi circa il ruolo che ebbero i teatri e, più in generale, lo spettacolo genovese durante il periodo napoleonico. Dall’estate 1805 alla primavera 1914, Genova fu parte di un impero al quale si era annessa spontaneamente. Già nel 1806, in seguito all’emanazione a Parigi di un regolamento sui teatri, vennero redatti un censimento ed una classificazione delle sale pubbliche cittadine: il S. Agostino rimase quindi il primo teatro urbano e venne adibito a feste da ballo e opera in musica, mentre il Falcone ottenne il privilegio di ospitare una compagnia di prosa stabile, alla quale la città di Genova, in quanto fra le più importanti dell’Impero, ebbe diritto d’allora in avanti; il Vigne, dal canto suo, fu declassato a spettacoli di curiosità. [19] Contemporaneamente si svilupparono ulteriori luoghi teatrali, tra i quali bisogna ricordare il piccolo festone dei Giustiniani la cui ubicazione era nei pressi della stessa dimora gentilizia (sede della Compagnia di Dilettanti, diretta da Pietro Cambiasi e Gaetano Lavaggi), e le sale di breve durata in cui vennero riconvertiti, tra il 1812 e il 1813, la chiesa di S. Paolo in Campetto e l’oratorio del Rosario in piazza di S. Teodoro, entrambi sconsacrati. Riaprirono anche «i teatrini di antiche villeggiature di fine Settecento», [20] come quello di Albaro cui era annessa una sala da gioco o di altre località liguri. Anche se non poteva reggere il confronto insieme ai teatri di Milano e Napoli, Genova divenne comunque a tutti gli effetti un rinomato centro di produzione operistica. [21]
Già in quegli anni si caldeggiava perciò la necessità di avere un teatro più grande e moderno, e dal 1810 al 1813 fu il prefetto Marc-Antoine Bourdon de Vatry a incaricarsi di perorare una causa che tuttavia, almeno per il momento, era destinata a concludersi in un nulla di fatto, complici la morte dell’architetto Andrea Tagliafichi – autore di un primo progetto, richiesto già nel 1799 e persino già approvato da Parigi – e il tramonto del dominio di Napoleone Bonaparte. A riprova di quanto fosse sentita la necessità di avere una sala da spettacoli come quella che sarebbe diventata il teatro Carlo Felice, opera eccelsa dell’architetto Carlo Barabino (ricostruito dal 1987 al 1991 su progetto di Aldo Rossi, Ignazio Gardella e Fabio Reinhart, in seguito ai danneggiamenti subiti nella Seconda guerra mondiale), nel discorso in occasione dell’insediamento del nuovo sindaco (Gian Carlo Serra, 1810) Bourdon de Vatry faceva presente il teatro tra le cose da fare che erano più urgenti. [22]
Niccolò Iacometti
NOTE:
1 A Genova, come già in altre parti d’Europa ove nascevano oppure giungevano le compagnie di giro, con i loro repertori destinati alle classi più semplici, agl’inizi del Seicento, la messa in scena di spettacoli popolari trovava ospitalità nei luoghi di aggregazione per eccellenza di quel pubblico al quale i medesimi si rivolgevano: le osterie. Scrive Ivaldi: «Durante il periodo di carnevale, molte compagnie di comici italiani e forestieri (francesi o spagnoli), recitavano «commedie» nelle “hostarie” genovesi: alla “Croce Bianca”, nei pressi della piazza del Guastato; in quella detta “del Falcone”, probabilmente per l’insegna esterna che la distingueva, vicina a Strada Balbi; oppure nell’altra denominata “delle Vigne”, ubicata dall’omonima chiesa. Importante era pure l’”hostaria” di S. Marta, situata in prossimità della Porta di S. Fede, che esisteva ancora, ma come semplice locanda, nella prima metà del Settecento». I. M. BOTTO (a cura di), Il Teatro Carlo Felice di Genova. Storia e progetti, Sagep Editrice, 1986, p. 9. Maria Di Dio Rapallo nel suo saggio per lo stesso catalogo, intitolato I Teatri in Liguria, spiega anche il motivo per cui le “hostarie” furono i primi luoghi ad ospitare spettacoli a pagamento: «Spesso […] il ricavato della questua finale non è sufficiente alla sopravvivenza della “Compagnia” per cui i suoi componenti preferiscono barattare le loro prestazioni con il cibo e l’alloggio offerto da qualche intraprendente gestore di hostaria o taverna che in tal modo intende attirare un maggior numero di clienti». Ibid., p. 189.
2 Di non secondaria importanza è il fatto che ad allestire in Genova i primi spettacoli veneziani di cui si ha notizia certa, in questo periodo, fu probabilmente il compositore e librettista (nonché virtuoso della tiorba) Benedetto Ferrari, al quale si deve assieme a Francesco Mannelli (pure lui compositore) di avere dato forma moderna al teatro professionale con la nascita, a Venezia fra il 1636 e il 1639, del teatro d’opera a pagamento. L’osteria del Falcone sorgeva nel borgo di Prè, sul nucleo di un precedente edificio del Quattrocento e, nel secolo XVII, si presentava con una pianta irregolare, dotata di un ampio giardino sulla Strada Balbi, numerose camere al primo piano e una sala grande, all’ingresso, abbastanza curiosa per l’ulteriore analogia che stabiliva con i più o meno contemporanei corrales spagnoli o gli yards elisabettiani. Ibid., pp. 9-11.
3 Nella fattispecie si ritiene che Giacinto Adorno si sia occupato solo inizialmente della gestione finanziaria del teatro Falcone, invocando persino la consulenza di un notaio (il quale altri non era che suo cognato, tale Ondia o Oncia). D’altro canto, fino a poco dopo il 1650, sembra che l’onere d’impresario spettasse proprio all’oste della locanda, nella cui gestione l’Adorno intervenne più o meno direttamente. In ultimo, la conduzione del Falcone venne forse allargata, finché Giacinto restò in vita, anche ad una serie di altri nobili imparentati con quest’ultimo, a ciascuno dei quali vennero assegnate mansioni diverse. Riguardo poi l’esistenza di un’ulteriore sala, restano molti interrogativi circa la sua ubicazione, tanto che un’ipotesi identifica la stanza con un piccolo ambiente, il quale però avrebbe avuto in quest’epoca un carattere privato, annesso a palazzo Spinola di S. Pietro (oggi della Prefettura). Molto più interessante è comunque il fatto che la sala fosse dotata di piccoli palchi. L’acquisto avvenne per mezzo di un fiduciario, tale Bernardo Bozzo, o Bozio. L’atto è datato 15 luglio e il pagamento fu per un totale di 25.501 lire e 16 soldi, più il partito di 300 lire per il Bozzo. Ibid., pp. 9-11.
4 Ibid., p. 12.
5 Quella dei Durazzo era un’emergente famiglia di nuova aristocrazia che già dalla seconda metà del Seicento aveva avuto degli interessi finanziari e commerciali nella Francia di Luigi XIV, fra le città di Lione e Parigi; interessi che nel caso del fratello di Eugenio ebbero modo di legarsi alla cultura dello spettacolo al di là delle Alpi. L’ambasciatore Gio. Luca Durazzo si distinse infatti per essere stato: «Un acuto ed intelligente osservatore e commentatore, nel corso della sua missione diplomatica, della trasformazione e della crescita della monarchia d’Oltralpe: dagli spettacoli, ancora italiani, delle nozze reali, ai primi balletti di Fontainebleau, che evidenziano l’inizio del monopolio musicale francese». Ibid., p. 14-15.
6 Ivi.
7 Il Falcone e il S. Agostino si mantennero importanti anche dopo l’apertura del teatro delle Vigne e la temporanea conversione in luoghi per le rappresentazioni pubbliche di due oratori, quello di S. Giovanni Battista e quello di S. Bartolomeo delle Fucine, nel 1749. A proposito della rivalità tra le due sale principali, Ivaldi scrive che una simile politica non era altrettanto in uso, nello stesso periodo, in città altrettanto importanti come ad esempio Roma e Venezia, e che proprio Carlo Goldoni, durante un soggiorno genovese nel 1736, ebbe modo di apprezzare il criterio adottato nel capoluogo ligure. Ivi.
8 Ivi.
9 Ivaldi non esclude a priori, anche se l’ipotesi non trova conferma nelle ricerche d’archivio, che un progetto sia stato chiesto anche a Ferdinando Galli da Bibbiena nel 1700. Ibid., p. 16.
10 Ibid., pp. 16-17.
11 Il teatro delle Vigne sarebbe in effetti arrivato alla fine del Settecento con solo tre ordini di palchi. Ibid., p. 17.
12 Ibid., p. 18.
13 Ibid., p. 19.
14 La piccionaia, o loggione, veniva altrimenti chiamata pollaro o, secondo una denominazione completamente opposta, tanto per la nobiltà del termine quanto per l’immagine cui esso si richiamava, paradis. Ibid., pp. 19-20. Carlo Alberto Baratta fu anche scenografo del S. Agostino, per i cui spettacoli disegnò le scene nel 1786. F. NATTA, C. LUMINATI, Schedatura scientifica di teatri e sale cinematografiche presenti in Liguria e del patrimonio collegato, Regione Liguria – Dipartimento Agricoltura, Turismo, Cultura – Scuola di Scienze umanistiche dell’Università degli Studi di Genova, s.a., p. 150. Per il Carlo Felice, invece, suo figlio Francesco avrebbe dipinto un sipario del cui bozzetto e della cui realizzazione si trovano descrizioni rispettivamente in I. M. BOTTO (a cura di), Op. cit., p. 37 e G. B. VALLEBONA, Il teatro Carlo Felice, cronistoria di un secolo, 1828-1928, s.e., 1928, s.p.
15 A supporto della teoria riguardo la paternità dei disegni ci sono la grafia degli elaborati, alcune note scritte e persino gli errori di ortografia abituali di Juvarra. Per una trattazione approfondita circa i problemi attributivi legati a questo e agli altri disegni conservati alla Biblioteca Nazionale di Torino, afferenti ai teatri del Falcone e di S. Agostino, vedi I. M. BOTTO (a cura di), Op. cit., p. 20. Sulle dimensioni della scena, riporta Ivaldi: «Come nel caso del S. Agostino, siamo di fronte ad una misura media per la fine del Seicento/inizio Settecento, ma non certo ottimale per i sofisticati macchinisti scenici dell’epoca barocca». Ivi.
16 Ibid., pp. 21-22.
17 Attualmente i suoi spazi risultano convertiti a funzione espositiva. F. NATTA, C. LUMINATI, Op. cit., p. 4.
18 I. M. BOTTO (a cura di), Op. cit., pp. 24-25.
19 Accanto all’opera in musica e alle feste da ballo, la dominazione francese diffuse anche spettacoli come le già usate marionette, gli esercizi ginnici, i saltatori, le cavallerizze e, in un misto tra Illuminismo e suggestioni esotico-mistiche, i numeri di magia bianca e i voli aerostatici. Ibid., pp. 40-41.
20 Ibid., p. 40.
21 Ibid., p. 41.
22 E. DE NEGRI, Carlo Barabino, ottocento e rinnovamento urbano, Sagep Editrice, 1977, p. 125. Il progetto del prefetto Vatry prevedeva anche l’istituzione di un museo. I. M. BOTTO (a cura di), Op. cit., p. 40.
BIBLIOGRAFIA:
I. M. BOTTO (a cura di), Il Teatro Carlo Felice di Genova. Storia e progetti, Sagep Editrice, 1986.
E. DE NEGRI, Carlo Barabino, ottocento e rinnovamento urbano, Sagep Editrice, 1977.
F. NATTA, C. LUMINATI, Schedatura scientifica di teatri e sale cinematografiche presenti in Liguria e del patrimonio collegato, Regione Liguria – Dipartimento Agricoltura, Turismo, Cultura – Scuola di Scienze umanistiche dell’Università degli Studi di Genova, s.a.
G. B. VALLEBONA, Il teatro Carlo Felice, cronistoria di un secolo, 1828-1928, s.e., 1918.
*Tutte le immagini, esclusa la prima, con relative informazioni in didascalia vengono da I. M. BOTTO (a cura di), Il Teatro Carlo Felice di Genova. Storia e progetti, Sagep Editrice, 1986, pp. 16-17. La prima immagine è tratta da AA. VV., Carlo Felice. Rinascita di un teatro, GGallery, 1991, s.p.
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