Sii forte e paziente! Un giorno questo dolore ti sarà utile

Nel secondo incontro del ciclo Books in the USA l’attenzione è caduta sullo young adult di Peter Cameron, Un giorno questo dolore ti sarà utile. Edita in Italia da Adelphi nel 2007 e divenuta talmente famosa da ispirare l’omonimo film di Roberto Faenza (2011), l’opera dello scrittore americano ha tutte le caratteristiche per poter essere considerata un romanzo di formazione ambientato in tempi moderni. Sullo sfondo di una delle più grandi metropoli del mondo, New York, ci troviamo a seguire il goffo e a volte buffo incespicare attraverso la propria esistenza di un giovane diciassettenne.

 

Così descritto, il contenuto del libro non sembrerebbe rispecchiare il titolo, ripreso dal «Perfer et obdura! Dolor hic tibi proderit olim!» di Ovidio, e avvertito forse come eccessivamente tragico. Persino il tono della scrittura, infatti, si mantiene sempre su un registro spiccatamente comico, con tratti di forte ironia. Questa apparente patina di leggerezza, però, non ci deve trarre in inganno: sofferenza e inquietudine si ritagliano il loro dovuto spazio in quello che sembra semplicemente il placido scorrere della quotidianità di un ragazzo qualunque. Sembra, appunto, perché, anche senza per forza scontrarsi con profondi sconvolgimenti, il semplice processo di crescita che ognuno di noi affronta nell’arco della sua vita è, di per sé, sufficientemente doloroso. Le prime lotte con noi stessi e con ciò che ci circonda iniziano, nella maggior parte dei casi, durante l’adolescenza, quando i nostri occhi si accendono irrimediabilmente di una nuova consapevolezza. La nostra famiglia, i nostri amici, il nostro stesso corpo, i luoghi che fino a quel momento sono stati un rifugio entro cui racchiudere il nostro orizzonte si trasformano. Il nostro modo di sentire cambia, diventa più complesso e, con lo stratificarsi e ingarbugliarsi dei pensieri, anche la nostra identità comincia a mutare: non riusciamo più a inquadrarci in una sola immagine finita; il riflesso che lo specchio ci restituisce è un assemblaggio di atteggiamenti che decidiamo di assumere, ma solo per un breve periodo di prova. Oscilliamo fra quello che, in un’improvvisa rivelazione epifanica, ci è sembrato Il Modo Giusto di Essere e l’istante subito successivo, in cui quasi con imbarazzo ci accorgiamo invece che, no, accidenti, appariamo solo ridicoli e allora ci lanciamo a capofitto in una nuova trasformazione dagli esiti incerti.

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Fig. 3 James nel fotogramma iniziale del film.

 

Così, saltando da una convinzione che sembra immutabile per la durata di circa qualche minuto a quella successiva, anche James Sveck cerca di trovare la sua strada nel corso di queste pagine. James è sveglio, corazzato con una buona dose di sarcasmo e, per certi versi, eccessivamente prevenuto verso l’incredibile varietà di esperienze che gli si potrebbero offrire o, se vogliamo adottare il suo punto di vista, che potrebbero semplicemente disturbare la sua quiete. Le persone di cui questo giovane newyorkese si circonda sono poche e si tratta principalmente di suoi familiari: Marjorie, la madre gallerista, Gillian, la sorella studentessa, Peter, il padre avvocato e ultima ma non per importanza, la nonna materna Nanette. È nella tranquillità del quartiere residenziale in cui vive quest’ultima che James, schivo, introverso e scontroso, si sente più a suo agio.

Someday This Pain Will Be Useful To You
Fig. 4 Marjorie nella sua galleria.
Figura 6
Fig. 5 Peter e James.

La caratterizzazione dei personaggi è semplice e lineare: dopo il divorzio entrambi i genitori di James vivono la propria vita, cercando però di occuparsi al meglio dell’educazione del figlio, Gillian, pur assorbita dalla relazione con il suo professore di linguistica non si tira mai indietro quando si tratta di dare un parere deciso e disincantato e Nanette, con la sua comprensione e pazienza, riesce in ogni occasione a dare il giusto consiglio a James. Allora, vista la premessa, è il personaggio di James Sveck ad andare incontro ai più profondi cambiamenti, direte voi. Non proprio. All’apertura del romanzo il nostro protagonista è reduce da un’esperienza che lo ha profondamente segnato, influenzando sicuramente anche i progetti che ha in cantiere per il proprio futuro. Durante l’ultimo anno di scuola, infatti, James è stato costretto a partecipare alla Classe d’America, un programma della durata di un finesettimana, in cui alcuni fra gli studenti più meritevoli del paese avevano partecipato a conferenze e spettacoli. In questi due giorni la natura solitaria del ragazzo era stata messa a dura prova dalla continua e forzata vicinanza agli altri studenti, che gli apparivano immersi in uno stato d’animo troppo distante dal suo.

Una sensazione elettrica […], la sensazione di trovarsi in una parabola ascendente verso un futuro pieno di successi, e mi sono domandato come potesse essere questo miracolo, questa idiozia di sentirsi così.

Non è infatti così che James si sente: non si crede mai, nemmeno per un secondo, invincibile. La sua sensibilità gli fa osservare tutto ciò che lo circonda con una profondità e intensità diverse, a tratti dolorose. L’ultima sera del ritiro la misura è ormai colma e James si stacca dal gruppo, in preda a un forte attacco di panico. “James Sveck: il disadattato scomparso” e la disarmante convinzione che quel titolo esprima veramente chi e cosa lui sia fa sì che il ragazzo prenda la decisione di non voler mettere piede per nessuna ragione in un college. Ed è proprio dopo la maturazione di questa idea che il libro ci riporta sulle tracce del percorso di formazione di James, che cerca di perorare con poco successo la sua causa, spiegando quale sia la sua personale alternativa all’università: comprare una casa nell’Indiana e rifugiarvisi a leggere alcuni dei grandi autori della letteratura inglese, come Shakespeare e Trollope, che sente essere gli unici da cui può proficuamente apprendere ciò che gli potrebbe servire nella vita. E ancora, direte voi, tutto qui?
Sì, tutto qui.

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Fig. 6 James, Gillian e il professore di linguistica.

Durante l’estate che precede il college James cerca di venire a patti con quella che gli sembra essere l’idea migliore per se stesso, con i consigli velati di preoccupazione della madre, con l’apprensione a volte invadente del padre e con un ancora acerbo modo di rapportarsi alle persone che crede di amare. Le sue azioni sembrano spesso essere ponti sospesi sul nulla, tentativi di protendersi verso il suo Modo Giusto di Essere, rivelandosi invece le ennesime immagini riflesse insoddisfacenti. E se, forse dimentichi della precarietà che ci caratterizza a diciassette anni, assentiamo vigorosamente al «Pensi che la tua vita sia un gioco?» di Marjorie e al «Senti, bamboccio, cresci un po’!» di Gillian, è però alla fine Nanette (e chi altri potrebbe essere?) che non solo riconcilia noi con James e James con se stesso ma, con queste parole:

 E se per te andare all’università fosse proprio uno sbaglio, se effettivamente non dovesse piacerti come temi, be’… non sarà stata un’esperienza sprecata. A volte le brutte esperienze aiutano, servono a chiarire che cosa dobbiamo fare davvero. Forse ti sembro troppo ottimista, ma io penso che le persone che fanno solo belle esperienze non sono molto interessanti. Possono essere appagate, e magari a modo loro anche felici, ma non sono molto profonde. Ora la tua ti può sembrare una sciagura che ti complica la vita, ma sai… godersi i momenti felici è facile. Non che la felicità sia necessariamente semplice. Io non credo, però, che la tua vita sarà così, e sono convinta che proprio per questo tu sarai una persona migliore. Il difficile è non lasciarsi abbattere dai momenti brutti. Devi considerarli un dono – un dono crudele, ma pur sempre un dono.

ci ricorda anche che tutto quel dolore che ci sembra insensato e crudele dover fronteggiare man mano che cresciamo, altro non è che un dono e, come tutti i regali migliori, ci sarà utile. 

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Fig. 7 James e Nanette.

 

Federica Rossi

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