Rube Goldberg. Il volto ridicolo della meccanizzazione

“Le invenzioni hanno fatto così tanti passi da gigante che, con poche eccezioni, nessuno può essere riconosciuto come l’inventore di un qualche grandioso apparecchio meccanico. Chiedete a qualunque comune cittadino chi ha perfezionato la radio e non lo saprà. Provate a scoprire chi ha reso possibile telefonare una fotografia attraverso il continente e non andrete da nessuna parte. Potrebbe essere stato il senatore Borah o Connolly Occhiosolo o Jascha Heifitz.”

(Rube Goldberg, It’s the Little Things That Matters, trad. dell’autore, Collier’s, 3 novembre 1928, p. 12)

Nell’elenco degli artisti che non troverete facilmente sui manuali di storia dell’arte, gli artisti fuori dagli schemi o i cosiddetti outsiders, ad alcuni dei quali Alfredo Accattino, firma autorevole di Art e Dossier, ha dedicato un libro nel 2017, si possono incontrare delle personalità veramente singolari. Tra queste, è mia opinione, bisognerebbe riservare un posto anche a Rube Goldberg, ingegnere e vignettista statunitense che, nonostante oggi il suo nome e la sua figura rimangano quasi del tutto sconosciute alla maggior parte delle persone (in modo particolare alle nostre latitudini, e aggiungerei comprensibilmente) ha saputo interpretare la propria epoca con il giusto insieme di leggerezza e perspicacia.

Quello in cui visse, d’altro canto, era stato davvero un momento storico interessato da grandi cambiamenti. Gli anni a cavallo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo avevano visto l’Occidente, e in particolare il Nord America diventare terreno di coltura per la seconda rivoluzione industriale e il sorgere di una nuova e inedita società dei consumi: l’elettricità e l’acqua corrente erano entrate nelle case, seguite a ruota dai primi esemplari di elettrodomestici mai costruiti. Il futuro era in quegli utensili automatici. Nel corso dei decenni, inoltre, le persone impararono a conoscere il cinema, la radio e il telefono. Frutto della nuova modalità di realizzazione a catena di montaggio che aveva riempito le fabbriche, le automobili invasero le strade. Da quel momento i temi della meccanizzazione e del progresso tecnologico irruppero nel dibattito pubblico, provvedendo ai giornali anche ottimi spunti per la satira di costume. Il mondo che aveva preso a cambiare sempre più rapidamente, alla fine, era diventato qualcosa di cui l’uomo cominciava a sentire il bisogno di ridere, forse per esorcizzare la paura di venirne sopraffatto.

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Fig. 1 Rube Goldberg nel 1916, ritratto sul manifesto di un suo cortometraggio (The Fatal Pie) prodotto dall’ancora esistente casa cinematografica Pathé. Sotto il nome si legge: il fumettista più famoso al mondo.

Reuben Garret Lucius Goldberg (San Francisco, 1883 – New York, 1970) cominciò a mostrare attitudine per il disegno all’età di sei anni. Diventato undicenne, gli furono impartire le prime lezioni. Ad un certo punto, credendo probabilmente di assecondare le inclinazioni del figlio, suo padre, commissario di polizia e dei vigili del fuoco, lo convinse a studiare ingegneria, così il nostro si laureò a Berkeley nel 1904. Benaccetta o meno che fosse, quella scelta avrebbe determinato la sua carriera.

Dopo un semestre trascorso al dipartimento per le acque e le reti fognarie della sua città natale, Goldberg esordì come vignettista sportivo. Nel 1907, si recò a New York. Nonostante si fosse già distinto ampiamente, la sua fortuna incominciò nel 1915, quando il giornale per il quale lavorava, il New York Evening Mail, entrò nel giro di un famoso gruppo editoriale. Goldberg si vide riconosciuto tra i più noti e contesi vignettisti d’America, con diritto ad un lauto compenso: 25.000 dollari all’anno, oltre circa 600.000 dollari attuali. Poi, come altri del suo mestiere, volle sperimentare il linguaggio dell’animazione. Solamente nel 1916, realizzò sette cortometraggi in forma di cinegiornali satirici. Nello stesso anno sposò una certa Irma Seeman, dalla quale ebbe due figli. Intanto però s’era già iniziato a parlare di “Golbergian”; a tutt’oggi non sono molti i fumettisti che posso vantarsi di avere ispirato un neologismo basato sul proprio nome. Originariamente riferito alle situazioni apparse nelle sue vignette intitolate Foolish Questions, pubblicate in venticinque anni dal 1909, e successivamente incluso nel Random House Webster’s Unabridged Dictionary – il più completo dizionario americano, dato alle stampe nel 1966 – con il significato di “improvvisato e incredibilmente complesso”, questo termine finì per avere il significato con il quale ancora oggi si utilizza oltreoceano: marchingegno tanto sofisticato quanto inutile.

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Fig. 2 Il professor Lucifer Gorgonzola Butts in una vignetta del 1931, con il suo improbabile tovagliolo automatico.

Dal 1929 al 1931, infatti, Goldberg disegnò le storie di un buffo inventore pieno di risorse le cui macchine strampalate avrebbero dovuto risolvere ogni sorta di problema quotidiano. Niente di trascendentale, ovvio. Perlopiù si trattava di operazioni come ad esempio pulirsi la bocca durante i pasti, cacciare le tarme dagli armadi oppure adottare la soluzione più “igienica” per leccare i francobolli… adoperando una tartaruga. Il suo nome era professor Lucifer G. Butts, A.K. laddove in molti hanno speculato che questo suo titolo accademico significasse All Knowing mentre la G., disse il suo stesso autore, stava nientemeno che per Gorgonzola (una parola da lui considerata talmente buffa da essere addirittura la sua preferita). Nessun dubbio che ci fosse qualcosa di autobiografico in quel personaggio; Goldberg affermò di averlo creato ispirandosi a due suoi professori dell’università, mentre i più accorti tra gli storici del fumetto non hanno mancato di notare la somiglianza tra Lucifer (Butts) e Lucius (Goldberg). Presentato come già inventore del calzino perpetuo, del block-notes autodistruggente e altre innumerevoli comodità domestiche, l’eccentrico genio della meccanica fece la sua prima apparizione a pagina 12 e a pagina 28 del bisettimanale Collier’s, il 3 novembre 1928 nell’ambito di un articolo, ovviamente satirico, sui meravigliosi ritrovati della scienza all’avanguardia e la necessità di venire sempre di più incontro ai bisogni della gente comune. Dall’anno successivo, con le sue vignette bislunghe che di certo non passavano inosservate, The Inventions of Professor Lucifer G. Butts fu una presenza fissa in cima alle pagine della testata che le pubblicava. Elemento insostituibile di ogni storia, talora addirittura prescindente dalla raffigurazione dello stesso protagonista, il quale poteva essere anche solo richiamato nella didascalia, erano i marchingegni bislacchi partoriti dall’immaginazione di Rube Goldberg, quasi come se quest’ultimo fosse in gara con la sua stessa creatura a chi avrebbe escogitato la soluzione più folle alla più elementare delle questioni.

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Fig. 3 Macchina per chiudere la finestra quando si è fuori casa.

Se volete un esempio di cosa stiamo parlando, osservate bene figura 2. Avreste mai pensato a un metodo così pratico di adoperare il tovagliolo? Tutto sembra facile con la macchina di Goldberg… pardon, del professor Butts: legate uno spago al cucchiaio, consumate tranquillamente la vostra minestra e la macchina che vi sarete preoccupati d’indossare come un cappello farà da sola. Un articolato meccanismo comprendente un secondo cucchiaio a mo’ di catapulta, un pappagallo, un peso, un accendino, un gioco pirotecnico al quale si trova legato un falcetto e, per finire, un orologio a pendolo si attiverà per togliere i residui di cibo dai vostri baffi e cavare voi stessi dal gravoso impiccio di farlo con le vostre mani. E che pensare dell’apparecchio per chiudere la finestra quando inizia a piovere e magari non siete in casa? Immancabile nella vita di ogni uomo moderno. Basta munirsi di una rana toro addomesticata che salta di gioia non appena sente il rumore della pioggia, una borsa dell’acqua calda su un piano inclinato, un grande secchio di lievito poggiato sopra ad uno sgabello, un disco, un uncino, una molla, una scimmietta, un paio di banane, due anelli ginnici collegati alla finestra in questione e il problema è risolto.

Grazie al successo ottenuto da questa serie a fumetti, con il suo approccio decisamente non occamiano e parossistico al problem solving, Rube Goldberg avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia della sua arte; probabilmente non fu l’unica ragione per la quale venne onorato del Premio Pulitzer nel 1948, e di numerosi altri riconoscimenti nel corso di tutta la sua prolifica carriera (50.000 disegni), ma è sicuro che macchine ingegnosamente complicate quanto perfettamente inutili, visti gli scopi per cui vengono concepite, sono diventate ormai un elemento comico sfruttato regolarmente dal cinema, sia esso di animazione o con attori in carne e ossa. Escludendo Tom & Jerry oppure I Flintstones (fortunata serie televisiva anni ’50, dove un’ambientazione preistorica offre il pretesto ideale per ritrarre la vita al giorno d’oggi, e le sue superfetazioni tecnologie con i propri mezzi “arretrati” e quindi più complessi) vogliamo parlare dei catastrofici tentativi di Will. E. Coyote di mettere le zampe sul Road Runner? Tuttavia, nell’opera di Goldberg sembra albergare una consapevolezza capace di andare oltre il semplice proposito del divertimento: ogni volta che il mondo si riempie di un nuovo ammennicolo, figlio delle ultime scoperte della scienza e della tecnica, gli anziani tendono a guardarlo con diffidenza mentre le nuove generazioni ne rimangono entusiaste ed incuriosite, e la domanda se complichi inutilmente le nostre vite oppure le semplifichi, oggi come novant’anni fa, è sempre in agguato.

Niccolò Iacometti

 

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