CONTRO LE MOSTRE E IL DEGRADO CULTURALE

“L’impegno per far emergere inedite prospettive nella lettura e nell’itinerario di un artista, per ricostruire il tessuto dei rapporti figurativi e per far riaffiorare la rete visiva dentro cui una determinata opera è stata concepita? Sono attività che spesso vengono giudicate poco redditizie, noiose, intellettualistiche”
(Contro le mostre, p. 7)

“Il sonno della ragione genera mostre”
(Contro le mostre, p. 40)

Avevamo già parlato di questo libro almeno in un’altra occasione, servendocene per introdurre la recensione di quella mostra su Dürer e l’Italia a Palazzo Reale-Milano che ci aveva lasciati con non poche perplessità.

Scritto dallo storico dell’arte Tomaso Montanari e dal critico d’arte e curatore Vincenzo Trione, Contro le mostre, uscito nel 2017 per i tipi Einaudi, dovrebbe diventare – a nostro avviso, ed è il motivo per cui ne riparliamo in questo articolo – la bibbia dei giorni nostri per il frequentatore di musei che vuol essere preparato e consapevole, oltreché argomento di riflessione, diciamo pure autocritica, per gli esperti del settore.

Il libro nasce da un bisogno o, per meglio dire, un’urgenza che gli stessi autori non hanno potuto esimersi dal definire “politica”, essendo che voleva rispondere ad una chiamata del buonsenso, e soprattutto, della coscienza civile la quale per anni sembrava essere rimasta inascoltata. Attraverso questa avventura letteraria, si dà poi il caso, hanno avuto modo di unirsi per uno scopo comune, conoscendosi reciprocamente e scoprendo ulteriori motivi di affinità, due figure del mondo scientifico che avevano diverse formazioni alle spalle e interessi disparati: Tomaso Montanari, docente presso l’Università “Federico II” di Napoli, già allievo di Paola Barocchi e Francis Haskell alla Scuola Normale Superiore di Pisa, autore di libri sull’arte moderna e il Barocco, noto per il suo impegno nel coniugare la conoscenza della storia dell’arte con obiettivi di cittadinanza attiva, e Vincenzo Trione, preside della Facoltà di Arti e docente all’Università IULM di Milano, anch’egli autore di saggi e articoli ma soprattutto curatore di mostre in Italia e all’estero nonché del Padiglione italiano alla LVI Biennale di Venezia (2015).

Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, l’argomento non è neanche poi così nuovo visto che, già nel 1959, lo storico dell’arte Roberto Longhi ne scriveva tra le pagine di Mostre e musei, seguito dieci anni più tardi dal collega tedesco Edgar Wind con il suo Arte e anarchia. Se tuttavia ancora nell’ultimo quinquennio noi stessi abbiamo sentito la necessità di criticare le mostre che siamo andati a vedere, questo significa ch’esso argomento non ha esaurito minimamente la propria attualità. Perciò lo scopo di questo libro vuole essere proprio quello di aprire gli occhi su retroscena non sempre piacevoli, a motivo di esortare i lettori a riscoprire, pure nei confronti dell’arte (e quindi del patrimonio culturale), un ruolo di cittadinanza, e non di clientelismo, che persino è bene ricordare sia stato sancito dalle leggi dello Stato all’articolo 9 della Costituzione. Forte di questa missione, la coppia Montanari-Trione si avvale di una prosa appassionata e coinvolgente, impietosa ad onore della schiettezza, tecnica non più del necessario ma senza rinunciare all’autorevolezza di un linguaggio esperto e competente. Il fenomeno delle mostre in Italia viene esaminato in maniera approfondita e con dovizia di esempi, ricorrendo spesso con umiltà intellettuale ai contributi di altri scrittori come ad esempio, per citarne qualcuno: Salvatore Settis, Jean Clair, Pietro Citati, Theodore Adorno, Guy Debord, Mario Vargas Llosa, Mark Kelly, Hans-Ulrich Orbist e Simon Schama. Se poi talvolta, nel corso dei suoi capitoli – sei in tutto escluse la premessa, la nota al testo e la conclusione –, il libro sembra doversi ripetere, lo fa solo perché è giusto riportare alla sua dimensione un problema che ha molte teste proprio come l’Idra di Lerna, il mostro di mitologica memoria.

Fig. 1
Fig. 1. Contro le mostre, copertina del libro.

Il panorama che di riga in riga viene tratteggiato è piuttosto infausto e sembra, a prima vista, non lasciare possibilità di rimedio. Da qualche tempo, infatti, i nostri musei organizzano mostre che ne tradiscono la stessa funzione civile: dovrebbero essere uno strumento con il quale la ricerca scientifica si mette al servizio della comunità, proponendosi all’attenzione di quest’ultima solamente quando effettivamente c’è qualcosa da dire, e invece, finendo nelle grinfie di biechi affaristi, esse proliferano più del necessario, assottigliando l’apporto formativo e, cosa peggiore, trasformandosi ogni volta nel fine ultimo dell’ennesima operazione commerciale. Molto spesso una mostra italiana viene organizzata non perché alle spalle si porti anni di studi, bensì perché qualcuno ha intercettato un bisogno di cultura sul quale è possibile speculare. E proprio come si fa nelle imprese più moderne e spietate, anche in questo nobile settore, non soltanto accade che l’offerta venga costruita sul profilo dell’utente medio, ma la riuscita dell’evento, figlio di un sistema che ricerca spasmodicamente il successo di facciata e i facili guadagni, viene misurata proprio sul numero di biglietti staccati.

In sostanza, la strategia è questa. Con la scusa di volersi allontanare da quelli che vengono percepiti, diciamo anche screditati come eventi elitari, destinati a pochi esperti, si rivolgono le mostre ad un pubblico (solitamente composto da famiglie) in cerca di uno svago da potersi chiamare “colto” o “educativo”; che dia cioè l’impressione di avere imparato qualcosa in più sull’arte, ma che sia però abbastanza leggero da non richiedere sforzi e non impegnare troppo tempo. Ecco allora che si punta su un numero miseramente ristretto di artisti i cui nomi sono scelti sempre e solo tra i più noti universalmente e mediaticamente più efficaci, soprattutto pittori solitamente conosciuti più per come hanno vissuto che per cosa hanno dipinto (vedi Caravaggio o Van Gogh, trasformati prima in “artisti maledetti” e dopo in vere e proprie popstar). Oppure, ulteriore opzione, si propongono tematiche facili e capaci di attraversare archi di tempo lunghi secoli, ma il cui apporto nei confronti della ricerca appare il più delle volte insignificante: i vari da … a …, o le diverse esposizioni sui temi della neve e dell’oro ne sono un esempio. A monte vi è poi un’organizzazione frettolosa, che non di rado vuole rincorrere l’anniversario di turno e che sempre insegue motivazioni ed interessi non soltanto commerciali, ma qualche volta persino politici, diplomatici se non addirittura propagandistici; mai scientifici o divulgativi, comunque. Quasi sempre, inoltre, essa muove dall’azione di amministrazioni locali che delegano a società for profit non soltanto i servizi aggiuntivi: biglietteria, bookshop, bar-ristorante (già di loro pertinenza in base all’oscena legge Ronchey del 1993), ma la stessa possibilità di scegliere quali opere esporre e con quali modalità. Chi vi lavora dietro, d’altro canto, non si pone nelle mani di autorevoli comitati di studiosi, che possano seguire attendibili criteri storiografici e condurre lavori interpretativi o attributivi onesti e ponderati, ma preferisce affidarsi all’ammaliante e provocatoria figura di qualcuno che dall’oggi al domani si sia visto nominare curatore, e che molto spesso è una persona di nessuna competenza specifica ma che si dice in grado di spaziare tra diversi ruoli (storico e critico dell’arte, architetto, organizzatore, manager…) e soprattutto di coinvolgere le istituzioni museali più importanti, i collezionisti più facoltosi e affamati di visibilità, le banche più note e gli sponsor maggiormente pronti a legare il proprio nome ad imprese di finto mecenatismo.

Fig. 2
Fig. 2. Due fotografie della mostra Escher a Palazzo Reale (Milano, 2017), la quale si era caratterizzata per la forte presenza di espedienti ludico-didattici.

Ne risultano così delle carrellate di opere (in verità non più opere ma semplici immagini, quasi immateriali e pertanto non dissimili da quelle che possiamo vedere sullo schermo di un telefonino, oppure slegate dalla realtà del loro supporto e quindi riprodotte su una borsa all’ultima moda) raccolte senza criterio, talvolta di non eccelso valore sotto il profilo storico-critico, ed esposte, anzi imposte in rapida successione, praticamente esibite come trofei, reliquie o specchietti per allodole all’interno di allestimenti tracotanti; kermesse pretestuose, circondate da fiumi di parole autoreferenziali e vuote, urlate sui mezzi di comunicazione ma tutto sommato mediocri e prive di contenuti. Facendo leva su quadri/icona attraggono un pubblico sempre più vasto, spesso senza nemmeno dotarlo di apparati esplicativi adatti e curati. E poiché è meglio se il visitatore è munito di smartphone con fotocamera per i selfie e accesso ai social network, non di rado si prevedono anche momenti che dietro la maschera dell’operazioni didattica nascondono il volto del facile intrattenimento e dell’operazione promozionale.

Come se tutto questo non fosse abbastanza, esiste poi una ricaduta che sembra non interessare per nulla chi si mette a capo di questa macchina perversa la quale trasforma i musei da «snodi decisivi del nostro patrimonio» (Contro le mostre, p. 16) in luoghi del tempo libero, del turismo alla buona, dello shopping e dello svago consumistico. Organizzare così tanti eventi in così tanti luoghi diversi comporta la delicata questione di spostare le opere d’arte e, talvolta apertamente in barba al parere dei conservatori più esperti e delle più elementari regole museografiche, da una parte si mette a repentaglio la salute di quadri e sculture fragilissime per motivi che non valgono un rischio mai completamente riducibile a zero, e le derivanti spese, dall’altra invece si occupano spazi già studiati nell’ottica di permettere che si fruiscano le collezioni permanenti. Si tratta di una questione al cui proposito non si parla quasi mai, eppure è un fatto che i continui viaggi, occasioni di sollecitazione meccanica e di sbalzi termici, per non parlare degli interventi d’imballaggio, disimballaggio e allestimento, causano stress e deterioramento a quelli che, in virtù della loro unicità, dovrebbero essere tutelati nel migliore dei modi; anche a costo di mancare qualche appuntamento estemporaneo con le persone. Gli incidenti occorsi anche in tempi non così remoti, e dei quali viene reso conto nello svolgersi del libro, dovrebbero ormai avere fatto scuola.

Fig. 3
Fig. 3. Hestia Giustiniani, 470-60 a.C., copia romana in marmo di un originale bronzeo, Roma, Museo di Villa Torlonia. Straordinariamente concessa al prestito nell’ambito della mostra Rovine e rinascite dell’arte in Italia (Roma, 2008), l’opera è stata inavvertitamente danneggiata durante la fase di disallestimento. 

A causa di una contemporaneità tanto scellerata e desolante, i professori Montanari e Trione individuano alcuni comportamenti che, originatisi dapprima fuori i musei – soprattutto nell’ambito delle biennali, quella veneziana e quelle che da essa hanno preso l’ispirazione –, alla fine sono giunti a contaminarli peggio di un morbo virulento. In primo luogo, bisogna ricordare come la politica negli ultimi tempi non abbia favorito il connubio fra tutela e valorizzazione, intendendo quest’ultima come messa a reddito del patrimonio, in contraddizione con il Codice dei Beni Culturali, e condannando luoghi come gli archivi e le biblioteche, considerati improduttivi, oppure un numero di tredici musei ritenuti di seconda classe, a non ricevere attenzione e risorse.

In secondo luogo, alla fonte del peccato originale ci sarebbe proprio quel fenomeno di “biennalizzazione” che ha portato nei musei e nelle mostre una logica a base di spettacolo e debolezza critica, riduzione a marchio di tendenza e mondanità, eccentricità e favoritismi, massificazione e disordine, illusione per i visitatori di essere liberi di esprimere il proprio giudizio sulle opere esposte e autocrazia della curatela.

In terzo luogo, poi, la questione del contesto:

“Se c’è un motivo per essere “contro le mostre” è che le mostre sono contro il contesto […] il fenomeno delle mostre rappresenta ormai la più grande operazione di rimozione dal contesto mai messa in atto in tempo di pace”
(Contro le mostre, pp. 36, 47 – 48)

E su questo punto, nell’anno in cui è stato pubblicato il libro, lo stesso in cui a Milano si è svolta l’Esposizione Universale (detta Expo, come si conviene ad un linguaggio rapido e di facile impatto commerciale), aspra è stata la polemica, della quale Montanari rende conto nel capitolo II, circa lo spostamento di importanti pezzi del nostro patrimonio artistico nazionale verso la sede di una manifestazione che aveva tutt’altra tematica da sviluppare.

In quarto ed ultimo luogo, viene esaminata anche la faccenda dei crossover: installazioni d’arte contemporanea poste in un presunto, e quasi mai onorato, dialogo con il passato, dalle quali i progettisti di allestimenti museali d’oggigiorno sembrano avere molta ispirazione. Anche qui, la questione del contesto risulta fondamentale. Opere che non sono state pensate per dialogare con il luogo in cui vengono inserite (sia esso un museo, un sito archeologico oppure una piazza), rendono di fatto quest’ultimo niente più che una prestigiosa cornice scenografica, una vetrina pubblicitaria volta a conferire autorevolezza e legittimazione ad artisti mossi solo dal narcisismo e dal desiderio di un incontro con la Storia, aspirando a farne parte, e la ricerca della provocazione. Quel che sembra peggio è che per lasciare spazio a questi improbabili faccia-a-faccia, come pure alle diverse sfilate di moda che negli ultimi tempi hanno invaso i musei, «parti significative di collezioni permanenti dei musei vengono occultate o portate nei depositi» (Contro le mostre, p. 117).

Fig. 4
Fig. 4. A sinistra: installazione sulla facciata di Palazzo Strozzi in occasione della mostra Ai Weiwei. Libero (Firenze, 2016). Secondo Vincenzo Trione, si tratterebbe di un esempio di crossover particolarmente riuscito. A destra: Gaetano Pesce, Maestà tradita, 2016, Firenze, Piazza Santa Maria Novella.

Dunque, come reagire a tutto questo? Come spezzare questo circolo vizioso, in cui regnano inutilità e diseducazione, voglia di protagonismo e mercificazione di un patrimonio inestimabile? Come avvedersi che questo primato tutto italiano non ci sta facendo onore? È tutto da buttare quello cui assistiamo, o è giusto credere che biennali e crossover, come anche l’invasione di supporti tecnologici all’interno delle mostre siano strumenti adoperati perlopiù nella maniera peggiore? Su quest’ultimo punto, la posizione dei due autori è per la seconda possibilità. Laddove poi lo Stato non vuole intervenire, suggeriscono gli stessi, sarebbe opportuno che almeno gli addetti ai lavori si dotassero di un proprio codice di autoregolazione etica, ricominciando a fare solo le mostre necessarie, possibilmente di piccole dimensioni, programmandole nel corso di periodi lunghi, e però senza rinunciare all’ambizione di mettere a contatto il mondo della ricerca e il grande pubblico; scopo, quest’ultimo, sul quale dovrebbe basarsi l’esistenza di ogni museo. In questa cornice, storici e critici d’arte dovrebbero pertanto riscoprire la loro funzione di interpreti, onde ridare voce, con assennatezza e indipendenza, e senza ricorrere a banalità, ad un passato altrimenti imperscrutabile per la gente di oggi:

“Nell’età del tutto è consentito, la critica deve tornare a farsi pratica seria, controllata, supportata da studio, sorretta da tensione etica e intellettuale, capace di difendersi dalle pressioni dell’establishment
(Contro le mostre, p. 77)

Per quanto riguarda invece il pubblico l’invito è a frequentare di meno le mostre e a riscoprire, con occhi curiosi, quel patrimonio diffuso, gratuito, fatto di scorci urbani e monumenti ancora inseriti nel loro contesto. In altre parole, le persone dovrebbero allargare i propri orizzonti quando si tratti di Storia dell’arte, e non il rincorrere delle mode – tali sono diventati i più famosi pittori – alimentando un sistema che vuole solamente trarne guadagno. Infine, un pensiero è rivolto anche alla scuola. Potrebbe sembrare ripetitivo, ma è solo ripartendo da lì, affrontando cioè il problema sul piano intellettuale, ed elaborando delle alternative, che si potrà costruire una nuova generazione solida eticamente e culturalmente preparata, capace di riconoscere l’imbroglio e di opporsi al degrado:

“Un pubblico di cittadini, non di spettatori o clienti: un pubblico che ha vitale bisogno di crescere e di scoprire le ragioni della propria umanità e della propria civiltà assai più di quanto non abbia bisogno di essere intrattenuto”
(Contro le mostre, p. 45)

Niccolò Iacometti

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