Nikolaus Pevsner: un pioniere degli studi sull’Architettura moderna

“Non esiste una linea di confine precisa fra attrezzo e macchina. Opere di alto livello potranno essere realizzate con attrezzi o con macchine non appena l’uomo avrà imparato a controllare la macchina e ne avrà fatto attrezzo. […] Non sono le macchine in sé ad abbassare il livello di un’opera, ma la nostra incapacità di usarle in modo corretto”
(Theodor Fisher)

“Il genere umano produrrà un’architettura completamente nuova […] quando i nuovi metodi creati […] dall’industria saranno utilizzati”
(Théophile Gautier)

La rivoluzione industriale rappresentò un nodo cruciale per la storia dell’arte, e in particolare delle arti applicate e dell’architettura; con essa si giunse ad un punto di non ritorno nel processo che, dal Quattrocento in poi, a poco a poco aveva sostituito un certo tipo di società, fatta di sapienti artigiani e colti mecenati, con una rappresentata dalla borghesia, già ascesa con un’altra rivoluzione, quella francese, e nel cui alveo iniziava a presentarsi il germe del consumismo a noi oggi anche troppo infelicemente familiare. Allo stesso tempo, fu sancito definitivamente l’ingresso della meccanizzazione nei processi di creazione artistica. Una tecnologia che si capì in ritardo, secondo il pensiero di chi l’avversava, quanto fosse destinata a cambiare il volto dell’arte in maniera più radicale di come avessero fatto a loro tempo la ruota del vasaio, il telaio a mano e il torchio da stampatore.

Una sequela impetuosa d’innovazioni, capace d’innescare una catena di aumenti repentini (della produzione, della richiesta di manodopera e, quindi, degli indici demografici), travolse così un settore che dovette accettare di non essere stato preparato: quello dell’arte e, soprattutto, della sua componente estetica. Ce ne si accorse, lentamente, dopo il 1851, quando un’Inghilterra prospera – ubriaca di grandezza così come nel frattempo le sue genti più minute, sfruttate biecamente nelle fabbriche e nelle miniere, si ubriacavano con il gin – aveva deciso di organizzare la prima grande Esposizione Universale e aveva incominciato a riempirsi di oggetti nuovi: figli di un’era appena inaugurata, nella quale imperversavano la fiducia nelle macchine e la malfidenza di quegli artisti che, con la il loro distanziamento, avevano lasciato le delicatissime questioni formali nelle mani di imprenditori incompetenti. Come se la storia delle arti applicate nell’epoca della sua riproducibilità su larga scala non sembrasse avere incominciato con il piede sbagliato, mentre dalla Gran Bretagna la tendenza si diffondeva in altri paesi del vecchio continente, fu timore di molti che il nuovo verbo avesse corrotto il buon gusto e avvelenato la sensibilità degli stessi decoratori di tappeti e altre suppellettili; una sensibilità che fino a quel momento si era alimentata di preziosi insegnamenti secolari.

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Fig. 1. A sinistra: Manifattura inglese, Argenteria presentata all’Esposizione Universale, 1851. A destra: Christopher Dresser, Teiera Hukin & Heath’s, 1877-1878.

Capofila di questo vero e proprio movimento di reazione fu William Morris con il suo Arts and Crafts. Educato nel segno del neogotico essenzialista di Augustus W. N. Pugin e della filosofia preraffaellita, nonché incline ad una qualche forma di pensiero socialista, Morris aveva incominciato a denunciare già nel 1861, e poi in una serie di lezioni tra 1877 e il 1894, la propensione degli artisti suoi contemporanei a vagheggiare su reminiscenze che sembravano molto più lontane nel tempo di quanto non lo fosse il Medioevo al quale lui stesso, uomo dell’Ottocento vittoriano, si rifaceva. E questo, a suo dire, accadeva proprio perché la maggior parte di loro si dimostrava incapace di comprendere e padroneggiare quei linguaggi storici, con il risultato di una fastidiosa sovrabbondanza decorativa. Secondo Henry Cole, un altro seguace di Pugin che aveva ispirato il pensiero morrisiano (ma che era stato anche tra gli organizzatori dell’Esposizione Universale, bisogna ricordarlo), l’ornamento di un oggetto non doveva fare che adattarsi a quest’ultimo. Nel 1859, la casa rossa progettata da Philip Webb per lo stesso Morris aprì gli occhi su un nuovo linguaggio che sapesse essere a cavallo fra due epoche e, però, allo stesso tempo esempio di semplicità e pulizia. Gli spunti sui quali si basava, negli anni successivi, furono copiati da molti architetti inglesi e statunitensi; uno su tutti, Edward Godwin, che ne ripropose il modo di costruire e arredare nella nudità delle stanze della casa che il pittore James A. M. Whistler, amico suo, complesso sommario d’impressionismo, reminiscenze storicistiche e influenze stilizzanti, aveva voluto farsi costruire a Bristol.

Nel Medioevo, secondo Morris, risiedeva però anche un preciso valore da recuperare: l’arte come espressione del piacere umano per il lavoro, avente un forte legame con la società nei suoi dispiegamenti morali, politici e religiosi, e che non può scaturire da qualcosa che egli considerava “assurdo” come il genio artistico e la pretesa di creare oggetti assecondando un lampo d’ispirazione.

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Fig. 2. Philip Webb, La casa rossa di William Morris a Bexleyheath, 1859.

L’Esposizione Universale si era però tenuta all’interno del famoso Palazzo di Cristallo, che tante bocche aveva fatto storcere (non ultima, quella di Ruskin) ma che doveva essere considerato alla stregua delle stazioni ferroviarie e dei primi grattacieli americani nell’insieme delle grandi conquiste tecniche sul ferro, la ghisa, l’acciaio e, per finire, quasi alle soglie del nuovo secolo, il cemento armato, le quali avevano tenuto impegnate non soltanto le menti degli ingegneri, ma anche quelle di architetti che si erano domandati circa la sua possibile implicazione estetica. La discussione sull’opportunità dell’ornamento e, in caso affermativo, su quale genere di ornamento andasse preferito si basava anche su questo: un altro prodotto della rivoluzione industriale, un’altra novità con la quale bisognava fare i conti.

Se da una parte i metalli avevano esordito sostituendo il legno nella costruzione di strutture portanti e, quasi come se avesse seguito il corso della natura, avevano acquistato una loro dignità di bellezza (in parte già dimostrata nella costruzione di ponti ma solo in un secondo momento nelle prime facciate dei palazzi, dalle quali emersero non senza ostentare audacia), il calcestruzzo armato finì col rimpiazzare la pietra che per tutto l’Ottocento era rimasto il materiale prediletto da ovvi motivi d’intrinseca e comunque presunta nobiltà. Un impulso allo sviluppo dell’architettura del ferro, sorprendentemente, era venuto da un architetto come Eugène Viollet-Le-Duc, reduce da campagne di restauro “in stile” nelle cattedrali francesi del Duecento. Egli aveva visto in questo prodotto dell’abilità manifatturiera una risorsa per adottare forme architettoniche proprie del tempo in cui viveva. Per quanto riguarda invece l’utilizzo del calcestruzzo armato in architettura, i suoi veri padri sarebbero stati, molto più tardi, Auguste Perret e l’urbanista Tony Garnier, i quali, come Viollet-Le-Duc, erano contrari al fatto che le qualità dei nuovi materiali dovessero essere nascoste o adattate agli stili del passato. Questo aiutò parecchio a mandare definitivamente in soffitta l’insegnamento dei vecchi maestri, anche se la mania di farsi prestare stili e motivi da epoche passate riuscì in qualche occasione a mantenersi persino nell’applicazione di un materiale nuovo e così versatile. Ma proprio la semplicità e la pulizia degli elementi strutturali, contrapposte al gusto esuberante dei particolari decorativi che vestivano le facciate dei palazzi, offrendo versioni stereotipate del Gotico e del Rinascimento, si dimostrarono le più adatte a sopravvivere nel mutato clima del xx secolo.

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Fig. 3. Louis-Charles Boileau, Interno della chiesa di St. Eugène a Parigi, 1854-1855.

A questo punto bisogna introdurre un altro elemento di quelli che avrebbe costituito il futuro Movimento moderno, nella fase di passaggio che lo separava dallo stile vittoriano. In qualche modo debitore sempre agli Arts and Crafts (se non addirittura sua inevitabile evoluzione), l’art nouveau ebbe tuttavia in Inghilterra una vita molto più breve delle sue omologhe forme che la fecero diffondere nel resto del continente. Nato negli anni Ottanta dell’Ottocento sull’onda dell’estetica preraffaellita e, nello stesso tempo, delle stampe cinesi che avevano fatto impazzire gli Impressionisti, incorse presto nell’ostracismo degl’intellettuali britannici che lo etichettarono più o meno all’unanimità, prendendo ad esempio le parole di Walter Crane, come una «strana malattia decorativa», e comunque offrendo l’opportunità a due geniali artisti, come furono lo scozzese Charles R. Mackintosh e l’inglese Charles F. A. Voysey (quest’ultimo sulla scorta di Philip Webb), di elaborarne un’interpretazione oppure un’alternativa convincente e originale. Elaborazioni, queste, capaci di sopravvivere allo stile e all’epoca nelle quali la storiografia deve spesso relegarle, per farsi ritrovare di fruttifera attualità alle radici dell’architettura, e del design, dei primi quattordici anni del secolo a venire.

Intanto però, grazie ad una vivace proliferazione di riviste che portavano le discussioni in atto all’attenzione dei compratori, esponenti di quel nuovo ceto borghese di cui il nuovo movimento accettava l’esistenza, e che non trattava da incolti parvenu, le sue varianti locali ottennero un successo strepitoso e un’importanza di rilievo per la storia dell’architettura e delle arti applicate. Tanto per fare qualche esempio: la Germania rimase fortemente legata al suo Jugendstil, anche mentre iniziavano le prime, e non certo indolori, rotture che l’avrebbero portata a guidare l’Europa nell’elaborazione del nuovo linguaggio nel xx secolo; l’Austria, più o meno sulla stessa linea, visse la stagione luminescente della Secessione viennese; Antoni Gaudí, dal canto proprio, rappresentò con il suo genio un caso totalmente a parte, prodotto eccezionale anche se tardivo di quella cultura felice; dall’altra parte dell’oceano, invece, l’art nouveau diventò oggetto di sperimentazione critica per quello che sarebbe stato il maestro di Frank Lloyd Wright, Louis H. Sullivan.

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Fig. 4. A sinistra: Charles F. A. Voysey, Casa a Shackleford, 1879. A destra: Charles R. Mackintosh, Biblioteca della Scuola d’Arte di Glasgow, 1907-1909.

La cosa importante da notare, tuttavia, riguarda ancora una volta il suo approccio alle novità dell’Ottocento: i processi di costruzione industriale e l’utilizzo del ferro; anche qui fu decisiva l’influenza di Viollet-Le-Duc. Accettandole di buongrado, a patto che s’imparasse a controllarle, l’art nouveau le mise immediatamente al servizio della propria idea di lusso; un altro concetto tra i molti che non rientravano nella filosofia di William Morris. I suoi esponenti nei diversi settori dell’illustrazione (si dovrebbero ricordare a questo proposito Arthur H. Mackmurdo e Aubrey Beardsley), dell’ebanisteria, della soffiatura vetraia o della progettazione architettonica, a partire dai belgi Victor Horta e Henry van de Velde, considerati i padri ufficiali del nuovo stile, maturarono così un gusto decorativo, dall’articolazione manierista, che poteva riproporre forme astratte o ispirazioni alla natura vegetale o animale. Ancora una volta, la spinta innovativa si trovava nelle eccezioni. Lontano dai modelli figurativi inglesi che erano stari recuperati in Belgio, Sullivan arrivò dichiaratamente a concepire, e di nuovo il cerchio riporta sul piano teorico a Pugin («non ci dovrebbero essere in un edificio elementi non necessari per convenienza, struttura e decoro»), l’ornamento come qualcosa di cui sarebbe stato meglio fare un uso parsimonioso quando addirittura non ci si fosse potuto astenere.

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Fig. 5. Louis H. Sullivan, Wainwright Building a St. Louis, 1890-1891.

In termini di evoluzione linguistica, proprio questo fu il tema centrale del Movimento moderno. Le cui basi furono gettate tutte entro il 1914. Otto Wagner, un tedesco, il quale prima dei cinquant’anni aveva attraversato fasi neobarocche e neoclassiche, in cerca di una sobrietà sempre ulteriore, nel 1896 con la sua Moderne Arkitecture teorizzò un nuovo vangelo della praticità e dell’assenza di orpelli. Questi sarebbero stati poi definitivamente screditati alla stregua di un delitto dall’austriaco Adolf Loos, e dalla sua matita polemica. L’architettura si era ridotta, con un forte guadagno dal punto di vista funzionale, alla ricerca compositiva di geometrie pure, aiutata dalle scoperte ingegneristiche a sviluppare inusuali temi distributivi.

Sul versante americano, risultati simili anche se non così radicali erano stati raggiunti da Frank Lloyd Wright, allievo di Sullivan, Ma la terra d’origine della nuova teoria architettonica rimase comunque l’Europa con la Germania in testa: il Deutcher Werkbund, l’associazione dei nuovi designer e artigiani tedeschi fondata da Hermann Muthesius, aveva fatto un grande passo avanti nell’accettare il contributo delle macchine (cosa che non avevano fatto gli Arts and Crafts) senza ipocrisie o riserve (il che non era tipico dell’art nouveau), e fra gli artisti che ne facevano parte c’erano anche Peter Behrens e il suo allievo Walter Gropius, entrambi i quali avrebbero ridisegnato l’estetica della fabbrica in due occasioni differenti ma ugualmente significative. Gropius non avrebbe mai rigettato l’importanza dei maestri com’erano stati Ruskin, Morris e van de Velde, ma nel consolidare i termini di un discorso iniziato circa sessant’anni prima, se non di più, aveva capito che l’artigianato, componente fondamentale della sua Bauhaus, non poteva rimanere indietro coi tempi, disconoscendo la produzione di massa con tutto quello che aveva comportato anche in termini di mutazione del gusto. Contemporaneamente un modo nuovo di concepire la città sarebbe stato portato alla ribalta, senza però uscire dall’esercizio teorico/utopistico, dal succitato Garnier (che non a caso disegnò la Città industriale) e dall’italiano Antonio Sant’Elia, autore di città “futuriste” ancora oggi visionarie. E tutti questi spunti avrebbero fornito il bagaglio culturale su cui avrebbe potuto costruire il proprio successo Le Corbusier, lo svizzero trapiantato in Francia che, nonostante l’impegno teorico profuso negli anni della sua prima attività, più che tra i padri del Movimento moderno andrebbe ricondotto ai suoi migliori interpreti dello stile maturo.

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Fig. 6. A sinistra: Adolf Loos, Casa Steiner a Vienna, 1910. Al centro: Peter Behrens, Fabbrica di piccoli motori elettrici a Berlino, 1911. A destra: Walter Gropius, Officine Fagus ad Alfeld an der Leine, 1911.

Tutto questo è stato affrontato in un libro che ha fatto epoca, scritto nel 1936 dallo studioso tedesco, naturalizzato britannico, Nikolaus Pevsner. Ripubblicato poi nel 1960, I pionieri dell’architettura moderna sarebbe passato attraverso alcune ristampe corrette e aggiornate. Sette capitoli, una prefazione all’edizione Pelican (quella diffusa in Italia per i tipi di Garzanti, con la traduzione e l’introduzione di Antonello Negri), un sostanzioso apparato di note e una bibliografia supplementare costituiscono la ricostruzione passo dopo passo degli avvicendamenti che hanno portato alla nascita dell’architettura contemporanea, il tentativo di sistematizzare una materia dallo sviluppo spontaneo e incontrollato. Con esemplare scrupolo accademico, Pevsner è andato persino nella pittura di fine Ottocento a cercare le possibili radici culturali di un’epoca, a cavallo fra due secoli, della quale ha potuto così tracciare il frastagliato profilo. E per quanto molti giudizi debbano essere riferiti al suo gusto, o per meglio dire alla sua personale sensibilità critica, così come nel corso della trattazione la Gran Bretagna che lo aveva accolto sembri diventare non soltanto il punto di partenza, ma anche quello di ritorno per fare ogni paragone con le esperienze continentali e transatlantiche, il suo saggio rimane a tutt’oggi uno dei contributi fondamentali per lo studio dell’argomento.

C’è però una cosa che questo libro dovrebbe insegnarci, ovvero che le categorie di bello e brutto, adoperate con indubbia competenza e utilità dagli storici dell’arte, nell’applicazione di metodi di ricerca sistematici e rigorosi, sono destinate ad essere prima o poi superate. La Storia va considerata tutta (solo dopo può essere deciso cos’è più importante raccontare in questa o in quell’altra occasione), e la vicenda editoriale de I pionieri dimostra limpidamente come opere che fino a meno di un secolo prima venivano considerate quanto di più abbietto si fosse presentato mai sulla faccia della Terra, dopo il suo esordio nelle librerie, abbiano incominciato ad essere considerate dai massimi esperti con somma gratificazione di un grande studioso e pioniere.

Niccolò Iacometti

Indice dei nomi citati, in ordine cronologico per nascita:

Henry Cole (1808-1882), Théophile Gautier (1811-1872), Augustus W. N. Pugin (1812-1852), Eugène Viollet-Le-Duc (1814-1979), John Ruskin (1819-1900), Philip Webb (1831-1915), Edward Godwin (1833-1886), Christopher Dresser (1834-1904), William Morris (1834-1896), James A. M. Whistler (1834-1903), Louis-Charles Boileau (1837-1914), Otto Wagner (1841-1918), Walter Crane (1845-1915), Arthur H. Mackmurdo (1851-1942), Antoni Gaudí (1852-1926), Louis H. Sullivan (1856-1924), Charles F. A. Voysey (1857-1941), Victor Horta (1861-1947), Herman Muthesius (1861-1927), Theodor Fisher (1862-1938), Henry van de Velde (1863-1957), Frank Lloyd Wright (1867-1959), Peter Behrens (1868-1940), Charles R. Mackintosh (1868-1928), Tony Garnier (1869-1948), Adolf Loos (1870-1933), Aubrey Beardsley (1872-1898), Auguste Perret (1874-1954), Walter Gropius (1883-1969), Le Corbusier (1887-1965), Antonio Sant’Elia (1888-1916), Nikolaus Pevsner (1902-1983).

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