Nel 2005 il regista americano Sydney Pollack, già famoso per I tre giorni del condor (1975) o La mia Africa (1985), film nei quali aveva potuto dirigere attori del calibro di Robert Redford e Meryl Streep, ebbe l’idea, nonché l’unica occasione della propria vita,1 di cimentarsi nella realizzazione di un documentario, scegliendo come argomento la figura e la carriera dell’architetto Ephraim Goldberg, meglio noto con il nome d’arte Frank O. Gehry; in cui O. sta per Owen.
Per il gigante dell’architettura contemporanea e veterano del contesto ambientale statunitense che, più o meno alla fine degli anni Ottanta, aveva esordito nel panorama internazionale,2 non fu soltanto l’opportunità di collaborare insieme ad un altro grande maestro, questa volta del cinema. Dopo essere stato presentato al festival di Cannes, fuori concorso, l’anno successivo, Sketches of Frank Gehry (distribuito in italiano con il titolo, un po’ naïf, Frank Gehry – Creatore di sogni) avrebbe infatti contribuito a plasmare la sua immagine, abbreviando ulteriormente quel già cagionevole divario fra le stelle hollywoodiane e i principali esponenti della cultura artistica. Che il singolare progettista, oggi novantunenne, abbia sempre avuto un buon rapporto con la popolarità, dopotutto, non è questa grande scoperta.3 Nato a Toronto ma formatosi negli studi in America (prima alla University of Southern California, poi alla Harvard Graduate School of Design), in oltre sessant’anni di carriera, Gehry è riuscito ad incarnare alla perfezione la figura dell’archistar – molto spesso criticata, ma dalla quale nessuno ha mai voluto prendere le distanze – e a farsi convergere attorno non soltanto l’interesse degli studiosi, ma anche, e forse soprattutto, quello di molta gente comune, appassionatasi come mai sembrava essere successo in precedenza all’architettura e alle invenzioni sempre più mirabolanti dei suoi protagonisti.4 Un fotogramma dopo l’altro, in modo aperto e senza reticenze, egli ha così offerto un saggio della propria tecnica al grande pubblico, accettando quegli sguardi intrusivi che la cinepresa aveva fatto entrare nel suo laboratorio. Proprio lì, in quel luogo dove, circondato dai suoi fedeli collaboratori, Gehry ha trascorso la propria esistenza professionale ad osservare e a dirigere il lento e impegnativo prendere forma delle sue creazioni. Non già sulle tavole piene di quote e retini colorati, a cercare di ricongiungere i prospetti con le piante, ma tra sereni “Non mi piace questo!”, pensierosi “Prova a piegarlo in questo modo!” e tanti fogli di cartone o altro materiale che si prestasse a esemplificare quello che immaginava.

Senza dubbio il fatto di ricorrere quasi esclusivamente alla costruzione di modelli in scala per concepire spazi architettonici, assemblando una gamma di materiali eterogenei, sebbene mai del tutto vili per quanto a volte non esattamente tradizionali, si è imposto nell’immaginario collettivo diventando la sua peculiarità maggiormente riconoscibile. Parlare di Gehry senza fare accenno ai numerosi plastici che dal suo studio hanno fatto la loro comparsa alle mostre nei musei di tutto il mondo è semplicemente impossibile, pertanto non sembrerebbe azzardato definirlo un marchio di fabbrica o una firma d’autore. Attuando questo suo espediente operativo, Gehry recupera certamente un sapere antico, una prassi che risale a Michelangelo e si ibrida con i precetti dell’Arte povera.5 Non si tratta però soltanto della riproduzione in miniatura di un manufatto, frutto dell’ingegneria più avanzata e di sempre nuove ricerche compositive; la prefigurazione tridimensionale di un qualcosa, già pensato e studiato in tutte le sue caratteristiche e prossimo a realizzarsi, che dev’essere mostrato al committente. Gehry adopera il modello, si è detto, come un dispositivo progettuale a tutti gli effetti. È il punto zero dell’iter creativo, un luogo nel quale il progettare si pone allo stesso livello del costruire. Anche il plastico più rudimentale nasce sempre e si fa espressione di un metodo sofisticato e collaudato, riuscendo così a tradurre un’idea ancora embrionale in un fatto già concreto e apprezzabile.
Eppure (cosa della quale doveva essersi accorto persino lo stesso Pollack, altrimenti non avrebbe usato la parola sketches, schizzi, per intitolare il proprio documentario), Frank O. Gehry non può fare a meno di utilizzare lo strumento grafico. Disegnare è una tappa irrinunciabile nell’esperienza di tutti i progettisti che si rispettino, e Gehry non fa certo eccezione. Come però ha scritto uno dei sui colleghi, l’architetto Rafael Moneo, nel suo caso lo schizzo assume il ruolo di un passaggio obbligato, un compito il quale dov’essere assolto prima d’immergersi nel vivo del fare architettura.6 In questo modo, se in generale gli schizzi servono a fissare un’idea di massima, intravista per breve momento, e rincorsa dalla mano sul foglio di carta, per Gehry questo assunto si dimostra ancora più vero. E più che di un’idea, quand’egli sceglie d’impugnare la penna, è di un proprio limite morfologico che si tratta, se non addirittura di un confine fisico entro il quale bisognerà muoversi con la progettazione, una volta che sarà avvenuto il passaggio di responsabilità, e la parola verrà affidata ai già nominati modellini in scala, scendendo ad un livello di più completo dettaglio.

Ad un primo sguardo potremmo essere tentati d’individuare nei disegni di Gehry due opposte tendenze, due categorie al cui interno raggruppare gli esemplari del suo corpus grafico. I criteri scelti per operare questa cernita (in verità un primo livello, al quale potrebbero esserne subordinati degli altri), prendono le mosse dall’osservazione di come l’architetto rappresenti il costruito, preoccupandosi di usare il tratto nelle sue molteplici declinazioni per conferire alla propria fantasia una forma più o meno compiuta e più o meno ricca d’informazioni particolareggiate. Come si può notare facilmente, nel passaggio dagli elaborati appartenenti alla prima di queste due categorie, agli elaborati che appartengono invece alla seconda, quello cui sembrerebbe assistere – con qualche occasionale eccezione7 – è una perdita in termini di chiarezza e verosimiglianza, alla quale però non si associa una diminuzione della capacità espressiva. Vengono meno i principi della rappresentazione tradizionale, e quasi sembra che questi fogli abbiano l’unica funzione di stabilire un dialogo segreto con il disegnatore stesso, in una lingua che sarebbe incomprensibile a chiunque altro.
La prima di queste due tendenze è circoscrivibile più o meno al periodo della sua attività che termina a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, e coincide con un esercizio del linguaggio decostruttivista non ancora pienamente maturo (per intenderci, precedente alla Walt Disney Concert Hall e al Guggenheim di Bilbao). Nei disegni cui si riferiscono la rappresentazione architettonica osserva indiscutibilmente le regole di un linguaggio visivo condiviso, e quindi la preoccupazione di rendere comprensibile l’oggetto raffigurato nelle sue caratteristiche, siano esse spaziali, volumetriche oppure dei materiali che bisognerà impiegare per realizzarlo. In questo genere di fogli ritroviamo, come non succederà nella produzione successiva, l’utilizzo di alcuni espedienti pittorici che permettono di leggere in maniera abbastanza chiara, o comunque d’intuire,8 l’utilizzo della pietra e del mattone, come anche il riverbero dell’acqua nel momento in cui il costruito o, per meglio dire, il da-costruire vi si riflette. Per quanto concerne la raffigurazione di superfici vetrate, un tratto obliquo che sembra oscurarle solleva l’osservatore dal compito d’intuirne l’effettiva presenza e ottiene un maggiore realismo. Un altro elemento di grande importanza, infine, è costituito dalla presenza di figure umane. Queste infatti non compaiono negli elaborati del secondo genere, lasciando che sia proprio l’architettura l’unica protagonista del disegno.

Interesse e rilevanza particolare assumono i disegni che ritraggono e prefigurano la Gehry House a Santa Monica, un progetto del 1977. Benché siamo ancora lontani dalla sortita globale e dalla piena consapevolezza delle potenzialità del decostruttivismo, è qui che ritroviamo il segno che qualcosa stava già cambiando da tempo e, infatti, sembrano già in essi contenute le caratteristiche della produzione grafica successiva. Anche questi sono disegni in cui la geometria è riconoscibile facilmente. Esistono ancora i principi della rappresentazione tradizionale (assonometria e prospettiva), tuttavia iniziano a sparire tutte quelle aggiunte in termini di ombreggiatura e testurizzazione delle superfici. Nello schizzo, Gehry rappresenta la sua casa per mezzo di un puro contorno di linee spezzate. Il tratto non è ancora del tutto pulito, ma emerge una sorta di trasparenza che negli anni sarebbe diventata la cifra stilistica principale dei suoi disegni.

Si consideri ad esempio proprio lo Schizzo per la Walt Disney Concert Hall, datato 1987. Quattro piante dello stesso edificio, delle quali non ci è dato capire, basandosi unicamente sulle informazioni contenute nel foglio, se rappresentino quattro livelli o quattro ipotesi differenti, mostrano già come Gehry sia pervenuto ad un tratto filiforme e apparentemente ininterrotto che si aggroviglia e si fa più denso in alcuni punti precisi; come se la mano dell’architetto fosse mossa da un bisogno spasmodico di non lasciare troppo spazio libero. La composizione dell’insieme è lucidamente consapevole e la distinzione fra bianco della carta e nero dell’inchiostro è molto netta; nessun altro segno, punto o macchia che sia, disturba l’esposizione di un’idea progettuale. Verso un’ulteriore semplificazione muove invece il piccolo foglio del Marqués de Riscal, un albergo presso un’azienda vinicola progettato nel 1999 e realizzato a Elciego nei Paesi Baschi. L’edificio dal connubio tra volumi solidi, imponenti e megalitici e superfici leggere e flessuose che sembrano agitate dal vento emerge dal foglio come una serie di linee precise e sottili, caotiche e però allo stesso tempo molto chiare.

Se però nel caso di alcuni progetti, come ad esempio l’edificio berlinese della DZ Bank del 1996, appare ancora facilmente leggibile l’aspetto di un palazzo visto in sezione (la cui corte, sovrastata da una volta con forma aerodinamica, ospita uno strano blob di metallo lucente che funge da sala conferenze), una serie di altri schizzi non permette questo agio. Eloquenti in questo senso possono essere i disegni per un altro progetto iniziato nel 1996: il Peter B. Lewis Building, Weatherhead School of Management, struttura amministrativa e didattica in seno alla Case Western Reserve University di Cleveland, Ohio. Ravvisare in queste matasse di linee le forme che si vedono nel progetto realizzato non è facile, e ancora più difficile potrebbe essere stabilire, ammesso che di questo si possa effettivamente parlare, a quale stadio della progettazione corrispondano. Molto probabilmente abbiamo a che fare con dei prospetti – diversi tra loro, o ipotesi differenti per una stessa vista? – in cui ritroviamo comunque gli elementi su cui è basata la loro ideazione: un limite dal contorno rettangolare più o meno regolare in cui s’innestano elementi mistilinei. In questo foglio le linee sono meno disperse all’interno del contorno dell’immagine, come se il progettista avesse lavorato per ridefinire un segno o per evidenziare solo alcune parti del progetto. Ancora una volta, però, se si confrontasse quest’immagine con una fotografia dell’edificio realizzato non si riuscirebbe a capire come possano rappresentare lo stesso soggetto. E non serve ipotizzare che si tratti di un’idea accantonata. Questi non sono il luogo e il momento adatti per domandarsi cosa sia cambiato in corso d’opera, quali ripensamenti abbia avuto il progettista. D’altro canto, nessuna correzione occorre; per Gehry lo schizzo non è luogo di rimuginazione. In questo i suoi disegni sono diversi dai suoi modellini: gli ultimi sono il risultato di ore laboriose e continue indecisioni, mentre i primi sembrano al contrario la manifestazione di un io-creativo piuttosto determinato e sicuro di sé.

A titolo di esempio ulteriore possiamo citare lo schizzo per la sede/museo della Fondazione Louis Vuitton a Parigi oppure quello del Padiglione espositivo temporaneo della compagnia (RED),9 progettati rispettivamente nel 2005 e nel 2007. Nel primo l’andamento delle linee curvo/inclinato lascia intuire che l’edificio avrà uno sviluppo secondo questa direttrice, ma nulla di più viene lasciato a intendere. Il vetro, attore principale della messa in scena finale, non partecipa alla stesura del soggetto, e più in generale i materiali da costruzione, rispetto a quanto succedeva prima, non hanno più una voce in capitolo in questa fase della progettazione. In quanto poi al secondo disegno non ci sono elementi, al di là del puro contorno, che possano aver fatto prevedere più di tanto quale sarebbe stato l’aspetto dell’opera costruita (neanche un accenno, se non lontano, all’idea simpatica ed evocativa di una costruzione fatta con enormi tessere di puzzle). Questo suo tralasciare elementi caratterizzanti il progetto denuncia in modo chiaro come i disegni di Gehry in questa seconda fase siano qualcosa di veramente estemporaneo e cristallizzato, per mezzo dei quali la prima e più sincera espressione del genio creativo, vissuto nel rapido istante del segno tracciato, e concentrato sull’aspetto della forma complessiva, rimane impresso su carta come dopo un lampo fotografico.
Come si può evincere da questo breve excursus, l’importanza dello schizzo non viene meno anche nel caso di un architetto contemporaneo, la cui opera ha contribuito notevolmente all’ingresso nella progettazione di tecnologie più avanzate e rispondenti a nuove esigenze espressive. Il suo fascino non tramonta mai, e i collezionisti privati, anche nel caso di Gehry, cercano sempre di accaparrarsi un suo disegno autografo.
Niccolò Iacometti
Note:
1 Visto che sarebbe mancato tre anni dopo.
2 Tra le sue realizzazioni più importanti bisogna necessariamente ricordare la Gehry House a Santa Monica (1977), sua propria abitazione, la Walt Disney Concert Hall di Los Angeles (1989), l’edificio per uffici della Nationale-Nederlanden a Praga (1996), più famoso come “Fred&Ginger”, nome del concept sul quale si basa, e naturalmente quello che forse è il suo progetto maggiormente conosciuto e il più iconico della sua filosofia progettuale: il Guggenheim Museum di Bilbao (1997), simbolo di un rilancio culturale e prodigio di una tecnologia informatica il cui impiego, fuori dall’ambito aeronautico per il quale era stata concepita, a cavallo fra il vecchio e il nuovo millennio, aveva del pionieristico e lo ha sicuramente consacrato fra i massimi esponenti dell’architettura decostruttivista. Rammentiamo inoltre che nel 1980 è stato chiamato da Paolo Portoghesi alla Biennale di Venezia per partecipare alla Strada Novissima, l’installazione-manifesto del postmodernismo. Quindi è stato insignito dei seguenti riconoscimenti: Premio Pritzker (1989), Premio Wolf per le arti e Premio Imperiale (1992), Leone d’oro alla carriera (2008).
3 Non dovrebbe ugualmente stupire che Gehry abbia sentito congeniale alla propria indole l’ambiente di Los Angeles, capitale del successo a misura di celluloide. D’altronde, l’opinione che proprio Los Angeles, più di ogni altra città, abbia influenzato notevolmente il suo modo di concepire gli edifici ha trovato d’accordo più di un solo perspicace commentatore. A questo proposito si vedano G. Celant, Frank O. Gehry dal 1997, Skira, Milano 2009, p. 14 e R. Moneo, Inquietudine teorica e strategia progettuale nell’opera di otto architetti contemporanei, Mondadori Electa, Milano 2005, p. 211 e passim. Proprio Moneo pone l’accento sullo spirito di un luogo contrario all’omologazione, crocevia e agglomerato di saperi e identità differenti. Analizzando il rapporto fra Gehry e quella che alla fine è diventata la sua città di adozione, si può anche comprende l’origine di quell’accorato «Siate sempre voi stessi» che l’architetto canadese ha sempre rivolto ai propri allievi, guardando a loro come i germi di un futuro da auspicare libero e fresco, e ponendosi in continuità con la stessa cultura che aveva ispirato La fonte meravigliosa di Ayn Rand (storia di un architetto che non vuole scendere a compromessi con la società del suo tempo) e che avrebbe partorito lo «Stay hungry, stay foolish!» di Steve Jobs.
4 Dopo Frank Lloyd Wright, probabilmente, Gehry è stato l’unico architetto americano la cui capacità di sconvolgere il mondo dell’architettura abbia permesso di assurgere alla popolarità di massa. Una fama che si è alimentata del fatto che le sue opere realizzate siano state promosse allo stato di icona. Riferendoci però a Davide Rampello, presidente della Triennale di Milano nel 2009, riteniamo giusto credere che quello di Gehry sia «un successo universale, facile da comprendere e difficile da spiegare» G. Celant, Op. cit., p. 7.
5 Per un approfondimento sull’importanza del modello nella progettazione architettonica rinascimentale, con particolare riferimento a Michelangelo Buonarroti, si consiglia di leggere M. Mussolin, Forme in fieri. I modelli architettonici nella progettazione di Michelangelo, in C. Elam (a cura di), Michelangelo e il disegno di architettura, Marsilio, Venezia 2006, pp. 95-111. Verosimilmente è proprio a causa di questo suo chiamare in gioco anche materiali di recupero che il critico d’arte Germano Celant, recentemente scomparso, si è interessato all’opera di Frank O. Gehry e ne ha curato alcune mostre; una su tutte, l’antologica andata in scena alla Triennale di Milano nel 2009, il cui catalogo citiamo più volte in questo articolo. Ricordiamo in questa occasione che era stato proprio Celant a conferire una formulazione teorica ed una dignità storico-critica all’Arte povera. Possiamo credere che il motivo di questo suo interessamento risiedesse proprio nei «materiali poveri» e negli «scarti della periferie urbane» che sarebbero stati i vocaboli del dizionario progettuale di Gehry fin dai tempi della sua casa a Santa Monica, grazie ai quali, dice sempre Rampello, egli ha potuto scardinare «il rassicurante rigore del movimento moderno». G. Celant, ivi.
6 R. Moneo, Op. cit., p. 216.
7 Per esempio lo schizzo della Neue Zollhof a Düsseldorf, progettato nel 1994.
8 Moneo si riserva di essere più scettico a questo proposito, R. Moneo, Op. cit., p. 229.
9 Attraverso la collaborazione insieme ai grandi marchi, (RED) sovvenziona programmi di prevenzione e debellamento dell’HIV nel continente africano.
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