Specchiere e volute tra i Concetti di Wölfflin

Questo è il secondo dei due articoli scritti da Dario Michele Salvadeo già pubblicati in precedenza e che LetterArti ha deciso di riproporre, aggiornandoli nella veste grafica, in seguito alla sfortunate vicende della piattaforma online sulla quale erano comparsi. Il secondo, quello che state per leggere, prende in considerazione un aspetto estremamente interessante della storia dell’arte, ossia quello delle arti decorative all’interno del celeberrimo testo dello storico dell’arte svizzero Heinrich Wölfflin (Winterthur, 21 giugno 1864 – Zurigo, 19 luglio 1945) vale a dire i Concetti fondamentali della storia dell’arte, oggi leggibile nella pratica edizione Abscondita. Anche in questo caso si propone un testo agile e sintetico, ma costellato da numerosi spunti critici interessanti e che non mancherà di suscitare l’interesse e l’attenzione del lettore, specialista o meno che sia, su argomenti il cui dibattito storiografico è tutt’altro che spento. Buona lettura!

Marco Audisio

Sono trascorsi più di 100 anni dalla pubblicazione dei Concetti fondamentali della storia dell’arte (Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, 1915) di Wölfflin. Entrati di diritto nei classici della Storia dell’Arte, li si ammira oggi come una pietra miliare.

Alla base della costruzione del testo c’era una forte volontà teoretica, come d’altronde dichiarato dall’autore in apertura d’opera: individuare le possibilità ottiche che presiedono alle forme della rappresentazione così da discernere epoche e stili. Da qui le celebri cinque coppie: lineare/pittorico; superficie/profondità; forma chiusa/forma aperta; molteplicità/unità; chiarezza e non-chiarezza. Che ovviamente non mi azzarderò a disquisire, né tantomeno riassumere, rischiando di offrire un magro surrogato di un pensiero che è bene leggere nella sua organicità, attraverso una sequenza di descrizioni straordinarie di celebri opere; si invita pertanto alla lettura di una delle recenti riedizioni. Inoltre il lettore dispone oggi di una nutrita letteratura che ne favorisce l’inquadramento critico, a cominciare dai primi studi di Benedetto Croce e di Lionello Venturi.

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Fig. 1. Prima edizione dei Kunstgeschichtliche Grundbegriffe di Heinrich Wölfflin , Munchen, 1915.

Quel che mi preme qui annotare sono alcune osservazioni sulle arti decorative che Wölfflin lascia cadere lungo il saggio ad ulteriore prova della denominazione d’origine controllata e garantita della ricchezza del testo e della sua “classicità”. Parlando del pittorico opposto al lineare, Wölfflin, preso in esame un qualsiasi ambiente in stile rococò, giustifica la scelta delle specchiere non soltanto come questione di maggiore luminosità, ma come elemento volto a «svalutare anche la parete come superficie corporea, mediante la parvenza di una superficie inesistente e inafferrabile, costituita appunto dalla lastra di vetro che rifletteva le immagini». I vari oggetti si devono fondere tra loro affinché creino movimento. Infatti più avanti: «un mobile costruito con gusto pittorico ha sempre bisogno di una sua atmosfera: non si può appoggiare un cassettone in stile rococò a una parete qualunque; il movimento non deve essere interrotto». Non ci devono essere chiuse. E sull’arredamento rococò Wölfflin rileva come le ante degli armadi, con le loro volute, creino intrecci con i movimenti delle gambe dei mobili. Non vi sono elementi indipendenti, tutto si lega al prossimo in un’unità multiforme e sfuggevole. D’altronde, osserva, è una conseguenza di quella predilezione per la diagonale sviluppata dal Barocco. Il movimento delle superfici che anima gli edifici smussa gli angoli degli stessi armadi. Quel che vale per l’architettura, pittura e scultura vale anche per la mobilia. Perché per Wölfflin «tutte le trasformazioni della rappresentazione artistica sono accompagnate da mutamenti della sensibilità decorativa» che ovviamente investono tutte le espressioni artistiche. Un assunto che ben dimostra la concezione storiografica dello studioso e la sua nozione di Stile (con la S maiuscola). Aldilà del pensiero filosofico di riferimento, nel dispiegare la sua teoria Wölfflin assume un atteggiamento critico non concluso da pregiudizi e gerarchie. Un’apertura d’orizzonte su cui ha sicuramente pesato l’insegnamento del suo maestro Jacob Burckhardt che a termine della sua vita, dopo aver licenziato opere quali Il Cicerone (Der Cicerone, 1855) e La civiltà del Rinascimento in Italia (Die Cultur der Renaissance in Italien, 1860), continuava a lavorare ad una complessa impresa su L’arte italiana del Rinascimento (Geschichte der Renaissance in Italien, 1878). Concluderà soltanto il primo volume dedicato all’architettura dove trovano ampio spazio anche quelle che allora venivano chiamate “arti minori” – nel 1932 Wölfflin ne curerà l’edizione da inserire nel sesto volume dell’opera omnia, la Gesamtausgabe, del suo maestro.

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Fig. 2. Projet d’une grande Pendule, from “Oeuvre de Juste Aurele Meissonnier”, 1742-1748 circa, Metropolitan Museum of New York.

Per il peso che hanno nei suoi saggi la teoria e le questioni metodologiche, Wölfflin appartiene già al Novecento. Ma quel pensiero filosofico così robusto, quasi militante, enunciato in una scrittura adamantina diventata celebre, Wölfflin se l’è plasmato su una continua pratica di conoscitore, secondo una prassi tutta ottocentesca. Lui, che apparteneva a quella generazione dei Berenson, dei Bode, dei Venturi (padre), le cui lenti furono sempre fisse sulle opere. Quella generazione che inaugurò il nuovo secolo alla moderna Storia dell’Arte.

Dario Michele Salvadeo

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