Sfida al Barocco. Roma, Torino, Parigi – 1680-1750

Recensire una mostra come quella in scena nella Citroniera juvarriana alla Reggia di Venaria Reale (Torino), non è una cosa semplice e lo spazio a mia disposizione sarebbe insufficiente a tracciare con chiarezza ed esaustività un’impresa mastodontica che vanta prestiti da tutto il mondo con una quantità spasmodica di capolavori – oltre duecento opere esposte – che raramente ho visto radunati tutte insieme in un solo luogo. Qui mi limiterò all’essenziale (si fa per dire), demandando al lettore la fatica o per rimanere in tema, la sfida di andare a vedere di persona l’esposizione e di leggere il bel catalogo a corredo dell’evento che consta di ben 600 pagine ed è edito dalla casa editrice genovese Sagep, uno strumento metodologico di ricerca scientifica – diviso idealmente in due parti, la prima riguardante i saggi e la seconda le schede delle opere – indispensabile per decifrare e chiarire un complicato tratto della cultura figurativa occidentale.

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Fig. 1. Locandina della mostra.

La mostra è curata da Michela Di Macco, Giuseppe Dardanello e Chiara Gauna e rimarrà aperta al pubblico fino al prossimo 20 settembre con tutte le misure anti covid del caso. La mostra rappresenta l’esito di un articolatissimo progetto di indagini scientifiche svolte nell’ambito del programma di ricerche sull’età e la cultura del Barocco della Fondazione 1563. L’esposizione suddivisa in quindici sezioni più una Overture introduttiva raduna, come detto poc’anzi, oltre duecento opere tra pitture, pale d’altare, sculture, disegni, mobili, argenti preziosi, arazzi e incisioni e racconta su binari paralleli il districarsi della cultura figurativa tra Roma, Torino e Parigi dal 1680 al 1750, un periodo dove le scelte figurative degli artisti erano prevalentemente incentrate sulla meditazione dei grandi maestri del passato. La sfida è quella lanciata dagli artisti in nome della modernità, dove ai modelli della cultura classica si aggiungono quelli dell’antichità rinascimentale, Raffaello su tutti, ma anche la modernità interpretata dai grandi esponenti della cultura figurativa contemporanea ossia quella della prima metà del Seicento che ha come suo massimo esponente Carlo Maratti. La mostra conduce i visitatori in uno straordinario viaggio nell’Europa delle arti dalla fine del Seicento alla metà del Settecento. Un percorso verso la modernità, incentrato sul confronto diretto tra Roma e Parigi, i due poli di riferimento culturale dell’intera Europa, con i quali Torino intesse in quegli anni un fitto dialogo di idee e di scambio di opere e di artisti, alcuni dei quali chiamati a corte dagli esponenti di casa Savoia su mediazione del geniale architetto Filippo Juvarra.

Le opere e gli artisti che sfilano sotto gli occhi del visitatore all’interno di una location davvero suggestiva sono tra i più importanti esponenti della cultura figurativa del periodo: da Carlo Maratti a Francesco Trevisani, da Sebastiano Conca a Corrado Giaquinto a Pierre Subleyras, da Giovanni Carlo Panini a Pompeo Girolamo Batoni per proseguire sui pittori della modernità parigina, come Francois Boucher e Jean Siméon Chardin, agli scultori come Pierre Legros, Edme Bouchardon, Francesco Ladatte e Ignazio Collino, chiamati a rinnovare le imprese monumentali, ai maestri dell’ornato e delle arti  preziose, agli esponenti di maggior rilievo delle scuole romana, napoletana e veneziana voluti a Torino da Filippo Juvarra, tra i quali spiccano Francesco Solimena, Sebastiano Ricci, Gianbattista Crosato e Giovanni Battista Pittoni. La mostra indaga, seppure per un breve tratto, anche la primigenia formazione del gusto figurativo torinese esemplificato in mostra da opere del veneto Andrea Pozzo, del viennese Daniel Seiter e del genovese Bartolomeo Guidobono.

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Fig. 2. Veduta dell’allestimento della mostra.

Questa non è la prima mostra sul barocco che si vede a Torino, infatti altre tre mostre prima di quella odierna prendevano in esame, seppure con ricerche ed esiti molto diversi, il periodo che oggi viene riconosciuto sotto l’etichetta di comodo di Barocco. La prima è stata quella andata in scena nel lontano 1937 curata da Vittorio Viale, seguita dall’altrettanto mastodontica Mostra sul Barocco Piemontese del 1963 sempre a cura di Vittorio Viale, coadiuvato però da una serie di illustri studiosi tra cui si deve ricordare almeno Andreina Griseri, e che andò in scena nelle sale di Palazzo Reale a Torino. L’ultima è stata quella dal titolo Diana Trionfatrice, Arte di corte nel Piemonte del Seicento curata da Michela di Macco e Giovanni Romano nel 1989. Quest’ultima mostra, altrettanto ampia per quantità di opere e per le energie messe in campo nella ricerca scientifica, è stata tanto sfortunata dal punto di vista dell’affluenza di pubblico, quanto insuperata dal punto di vista metodologico, un evento che per la prima volta provava a ragionare non solo sulla cultura figurativa barocca a Torino ma che prendeva in considerazione gli esiti che quella stessa cultura figurativa aveva generato tra le province del ducato sabaudo, anche se lo faceva analizzando solo i rapporti tra le opere del territorio e la committenza ducale sabauda.

La mostra odierna è molto diversa dalle prime tre per intenti, finalità e raggio di azione. Si è avuta l’impressione visitando la mostra che questa volta, la cultura figurativa torinese sia stata lasciata volutamente in secondo piano, per far emergere più chiaramente gli altri due grandi centri artistici, vale a dire Roma e Parigi. Qui i rapporti reciproci e i debiti contratti dei pittori francesi nei confronti di quelli romani per nascita o adozione si riescono a seguire con più facilità rispetto alle altalenanti ed eterogenee scelte di gusto figurativo che stanno a monte dell’arte di corte torinese, ma che per certi versi, appunto, si possono seguire ragionando sul gusto artistico diffuso a Roma a partire dagli anni ottanta del Seicento mediante la diffusione non solo dell’influenza dell’Accademia di San Luca o dell’Accademia di Francia, ma forse anche e soprattutto per via dell’Accademia dell’Arcadia i cui due maggiori esponenti furono certamente il mecenate Nicolò Maria Pallavicini e il cardinale Pietro Ottoboni. Il periodo che la mostra prende in esame può passare sotto, anche in questo caso in maniera convenzionale, al nome di “Classicismo Arcadico”, che vanta tra le sue fila pittori del calibro di Poussin, Maratti, Solimena, Juvarra, tutti artisti che contribuiranno a traghettare quel linguaggio artistico nelle generazioni che verranno dopo di loro e che la mostra esemplifica molto bene. Le scelte figurative si esplicano nelle composizioni dove a prevalere sono i soggetti sacri e mitologici quasi mai fini a sé stessi ma avulsi di più o meno reconditi significati moraleggianti o storici, immersi in una atmosfera agreste e bucolica, non priva di accezioni retoriche e celebrative. Pur tuttavia è bene non fare di ogni erba un fascio, le generalizzazioni portano infatti ad un appiattimento esagerato lontano dagli intenti della mostra.

Come dicevo all’inizio di queste note, non è possibile riferire dettagliatamente della mostra e di tutte le opere esposte, tuttavia, come in molti altri casi, mi limiterò ad accennare alle opere che ho reputato davvero straordinarie e sulle quali il visitatore deve avere la pazienza di fermarsi più a lungo nella sua osservazione. Nella prima sezione assolutamente da non perdere è la magnifica Allegoria delle arti di Pompeo Batoni in colloquio con i Cinque sensi di Pierre Subleyras e gli Attributi delle arti di Jean-Baptiste-Siméon Chardin, un colloquio tra le opere che meditano su quale fosse nel XVIII secolo l’arte maestra arrivando ad una sorta di aequa potestas fra le arti: pittura, scultura e architettura, ma anche musica e letteratura, tendendo a presentarsi come consorelle.

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Fig. 3. Jean Simeon Chardin, Gli attributi delle arti, olio su tela, 1731, Parigi, Musée Jacquemart André.

Fra i numerosi disegni della seconda sezione dove i pittori francesi dimostrano un colloquio serrato con i grandi maestri del rinascimento spicca il superlativo disegno di Edme Bouchardon raffigurante una copia da Raffaello con il gruppo di Enea Anchise e Ascanio tratto dalla stanza vaticana dell’incendio di Borgo, o ancora la bellissima sanguigna di un anonimo maestro tratta dal monumentale rilievo di Alessandro Algardi con l’Incontro fra Attila e Leone Magno. Poco più avanti si incontrano due splendidi modelli in marmo di Corneille Van Cléve ossia il Polifemo e il suo pendant ovvero la Galatea di Robert le Lorrain, morceau de réception per l’Académie royale de peinture et de sculture a Roma, seguite dalla levigatissima Leda e il cigno di Jean Thierry, anch’essa bozzetto di presentazione per l’ammissione presso l’Accademia di Francia a Roma. Queste tre splendide sculture hanno tutto il sapore e la raffinatezza di opere finite a tutti gli effetti.

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Fig. 4. Edme Bouchardon (da Raffaello), Enea, Anchise e Ascanio, sanguigna su carta, 1724-1726 circa, Parigi, Musée du Louvre – Département des Arts.

Poco più avanti ecco sfilare i comprimari della pittura romana sul finire del Seicento: Carlo Maratti con la calibratissima e bellissima Madonna con il Bambino tra i Santi Carlo Borromeo e Ignazio di Loyola (1672-1679) che si conserva a Roma nella chiesa di Santa Maria della Vallicella a Roma e di cui esiste una bella replica giunta, non si sa bene in che modo, introno agli anni trenta del Settecento nella cappella della Madonna del Rosario della chiesa di San Colombano a Biandrate e che ho avuto modo di segnalare nella mia tesi di specializzazione da poco discussa presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Le sta accanto la gigantesca pala del napoletano Luca Giordano raffigurante la Destinazione della Vergine (1685) conservata nella cappella di Sant’Anna della chiesa di Santa Maria in Portico in Campitelli, splendido esempio di aderenza stilistica nei confronti del maestro Pietro da Cortona. Intrise di elementi cortoneschi sono anche le tele rispettivamente del toscano di nascita ma romano di adozione Luigi Garzi con Mosè salvato dalle acque (1690-1695 circa), oggi presso la Basilica di Superga, ma un tempo nella Villa della Regina a Torino, e di Giovanni Battista Gaulli detto il Baciccio con il Giuseppe riconosciuto dai suoi fratelli (1695-1700 circa). Di Baciccio in mostra è presente anche l’abbacinante bozzetto della volta del Gesù di Roma, inoltre lì accanto si può ammirare il bozzetto di Carlo Maratti con l’Allegoria della Clemenza per il Palazzo Altieri a Roma. Accanto alla pittura è presente la scultura con esempi straordinari tra cui basti ricordare il bozzetto in terracotta di Pierre II Legros con il Beato Stanisalo Kostka sul letto di morte (1702-1703 circa) o il San Matteo (1715 circa) di Camillo Rusconi.

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Fig. 5. Carlo Maratti, Madonna col Bambino tra i santi Carlo Borromeo e Ignazio di Loyola, olio su tela, 1672-1679 circa, Roma, Chiesa di Santa Maria in Vallicella.

Qui si innestano le scelte figurative torinesi sul finire degli anni Settanta del Seicento; su tutti va almeno menzionata la Morte di San Francesco Saverio di padre Andrea Pozzo e la “lunare” Diana e Orione (1685 circa) del viennese Daniel Seiter, lette alla luce della coeva pittura genovese rappresentata in mostra dallo splendido Abramo che bandisce Agar (1694-1696) di Bartolomeo Guidobono.

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Fig. 6. Daniel Seiter, Diana e Orione, olio su tela, 1685 circa, Torino, Galleria Giamblanco.

Una linea di ricerca che si sviluppa in mostra e che riflette le scelte figurative di alcuni artisti, soprattutto francesi, è quella incentrata sulla natura e sul naturalismo. A esemplificare gli esiti alla base di quelle che saranno le ricerche stilistiche e formali della grande pittura impressionista passando per la scuola di Barbizon ci sono il Paesaggio (1700-1710 circa) di Nicolas Largiglièr, lo splendido Stagno (1692-1700 circa) di Francois Desportes  e ancora la meravigliosa natura morta con l’Anatra dal collo verde appesa al muro e una melangola (1730 circa) di uno dei protagonisti della mostra così come della pittura francese dei primi decenni del XVIII secolo, vale a dire Jean Siméon Chardin.

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Fig. 7. Jean Siméon Chardin, L’Anatra dal collo verde appesa al muro e una melangola, olio su tela, 1730 circa,  Paris, Musée de la Chasse et de la Nature.

Parallelamente a queste ricerche i pittori che vivevano e operavano a Roma presso l’Accademia di San Luca declinano le loro opere e i loro stili su quelli che erano i principi formali e letterari dell’Arcadia. In questo tratto di mostra spicca il sensuale Amore e Psiche del fiorentino Benedetto Luti o l’altrettanto delicato e sensualmente spirituale Cristo sostenuto dagli angeli dello sloveno Francesco Trevisani. Un dialogo, tra gli altri istituiti in mostra, che qui merita una menzione speciale per i temi bucolici, amorosi e mitologici tanto cari alla tradizione arcadica, è quello tra il superlativo dipinto di Pierre Subleyras (altro protagonista dell’esposizione) custodito alla National Gallery di Londra, ovvero Diana ed Endimione (1738 circa) e quello di medesimo soggetto (del 1746) di Trevisani. Sublime anche la Betsabea al bagno (1700-1710 circa) del romano Giuseppe Bartolomeo Chiari che dimostra ben più di qualche meditazione e fascinazione sulle opere e sullo stile di Sebastiano Conca e di Carlo Maratti.

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Fig. 8. Francesco Trevisani, Diana ed Endimione, olio su tela, 1746, Kassel, Museumslandschaft Hessen Kassel.

Mi piace ricordare che proprio per l’adesione così stringente alle tematiche arcadiche che è anche uno degli argomenti principali su cui ruota la mostra, Diana ed Endimione di Pierre Subleyras è stata scelta come immagine coordinata dell’intera esposizione; campeggia infatti sui manifesti e sulla copertina del catalogo mirabile rielaborazione grafica a cura di Leandro Agostini e Chiara Tappero.

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Fig. 9. Pierre Subleyras, Diana ed Endimione, olio su tela, 1738 circa, Londra, National Gallery.

Andando avanti nell’esposizione Torino torna la protagonista della mostra, vengono esposte infatti le tele che Carlo Emanuele III si fa approntare per il suo appartamento all’interno del Palazzo Reale di Torino, commissionando nuove opere e facendo arrivare da Rivoli quelle già dipinte in precedenza da diversi pittori, fra cui il napoletano Francesco Solimena e il veneziano Sebastiano Ricci. Colui che sovraintende alla ristrutturazione degli ambienti del Palazzo reale di Torino è il grande architetto messinese Filippo Juvarra. Nella sezione sono presenti alcune delle tele che Sebastiano Ricci appronta per il Castello di Rivoli tra cui la Rebecca al Pozzo e il Ritrovamento di Mosè (1727-1728 circa), dai colori vibranti e pastellati, e dalle composizioni dinamiche realizzate mediante linee diagonali che accentuano il senso della teatralità delle scene.

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Fig. 10. Sebastiano Ricci, Mosé salvato dalle acque, olio su tela, 1727-1728, Torino, Musei Reali- Palazzo Reale.

Insieme alle tele di Ricci, a Rivoli erano molto verosimilmente presenti anche le due tele del pittore di corte Carlo Francesco Beaumont raffiguranti rispettivamente Alessandro che restituisce il regno al figlio della Regina di Cleofa (1725) e Annibale giovinetto giura odio ai romani (1727 circa) memori della lezione di Solimena. Parallelamente in mostra sono esposte le tele di Francesco Solimena, appunto, con la Cacciata di Eliodoro dal tempio (1723), quella di Sebastiano Conca con il Trasporto dell’Arca dell’Alleanza (1732-1736), quella di Agostino Massucci con il Giudizio di Salomone (1738), quella del veneziano Gianbattista Pittoni con il Sacrificio delle figlie di Iefte (1732-1733) dagli strabilianti colpi di luce, ed infine quella di Franceso Monti raffigurante il Trionfo di Mardocheo (1733-1736) dai toni cromatici che per certi versi richiamano alla mente gli esiti della pittura di tocco del bolognese Giuseppe Maria Crespi; queste ultime quattro tele vengono approntate appositamente per gli ambienti del Palazzo Reale torinese. L’intento della dinastia Sabauda era infatti quello di creare nel suo massimo edificio di rappresentanza “una galleria dei maestri delle scuole d’Italia”.

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Fig. 11. Francesco Solimena, Eliodoro cacciato dal tempio, olio su tela, 1723, Torino, Musei Reali – Galleria Sabauda.

Non si è appena finito di ammirare tali capolavori che ci si apre davanti agli occhi un’infilata straordinariamente sontuosa di gigantesche pale d’altare. La prima che si erge in tutta la sua monumentalità è la pala con San Filippo Neri che raccomanda la città di Torino al Bambino Gesù tenuto in braccio da Maria Vergine con gran carteggio d’Angeli (1722-1723 circa) di Francesco Solimena che normalmente si conserva nella chiesa di San Filippo Neri a Torino, edificio progettato da Filippo Juvarra. La tela è alta 5 metri e 60 e larga 3 metri e 25 e per l’occasione è stata restaurata e pulita, affinché il visitatore possa ammirarla in tutta la sua straordinarietà.

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Fig. 12. Francesco Solimena, San Filippo Neri che raccomanda la città di Torino al Bambino Gesù tenuto in braccio da Maria Vergine con gran carteggio d’Angeli, olio su tela, 1722-1723 circa, Torino, chiesa di San Filippo.

Accanto le sta la pala d’altare raffigurante la Sacra famiglia col Padre Eterno, lo Spirito Santo e angeli (1715 -1720 circa) della collegiata di Santa Maria Assunta di Ceva nei pressi di Cuneo dipinta da Sebastiano Conca, un’opera stupefacente per via della qualità della stesura pittorica e per l’uso di una tavolozza chiara e lucentissima. Tra le altre magnifiche pale bisogna accennare almeno a quella di Corrado Giaquinto con L’Immacolata Concezione e la visione del profeta Elia (1741) per la cappella Turinetti nella chiesa della Madonna del Carmine a Torino, dove il gruppo centrale dell’Immacolata sembra, oltre a richiamare gli esiti della pittura napoletana del Solimena, essere stato influenzato dalla tavolozza di Beaumont. Spettano proprio a Claudio Francesco Beaumont le magnifiche tele con La visione mistica della beata Margherita di Savoia (1730) della Basilica di Superga e la stupefacente Deposizione dalla Croce (1731 circa), vero coup de théatre della mostra, già nella chiesa di Santa Croce a Torino e oggi in deposito temporaneo presso i musei civici di Palazzo Madama. Ancora da menzionare è il bozzetto in gesso della monumentale pala d’altare in marmo dello scultore Bernardino Caminetti con il Beato Amedeo IX di Savoia che intercede presso la Madonna con il Bambino per il successo nella Battaglia di Torino (1729-1730 circa) per la Basilica di Superga.

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Fig. 13. Claudio Francesco Beaumont, Deposizione dalla Croce, olio su tela, 1731 circa, Torino, Chiesa di Santa Croce.

Finito questo turbinio di mastodontici capolavori da capogiro, si passa alla visione di una serie di arazzi in parte realizzati su cartone di Claudio Francesco Beaumont per poi approdare a una sezione ricca di mobili e oggetti sontuari tra cui orologi, appliques, candelieri, piatti e placche argentate e dorate che vogliono esemplificare le scelte della corte sabauda e dei più raffinati vertici del clero nei confronti degli “oggetti d’uso quotidiano”, dove a farla da padrone incontrastato è la ricchezza e la ricercatezza dell’ornato. Tra i molti tavoli a console spicca su tutti la scrivania (1741) di Pietro Piffetti, mentre tra gli oggetti sontuari bisogna almeno citare il fantastico Vaso battesimale del 1716 circa realizzato da Francesco Natale Juvarra coadiuvato dal fratello Filippo, l’Ostensorio dell’Angelo con la testa del Battista del 1746 circa e il favoloso Calice con il Cristo nell’Orto (1760-1770 circa) entrambi capolavori in argento di Francesco Ladatte. Quest’ultimo oggetto proviene dal Museo del Tesoro del Duomo di Vercelli ed è appartenuto al potentissimo cardinale e arcivescovo di Vercelli Giuseppe Maria Filippa di Martignana, fautore, insieme all’altrettanto influente arcidiacono Giuseppe Maria Langosco di Stroppiana, del rinnovamento del Duomo eusebiano, nonché degli aggiornamenti figurativi dell’arcidiocesi vercellese.

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Fig. 14. Pietro Piffetti, Scrivania, legno di noce impiallacciato in legno violetto e altri legni, 1741, Venezia, Ca’ Rezzonico.

Sul finire della mostra è ancora il confronto tra le scelte figurative romane e quelle francesi che lega insieme alcuni dei pezzi più affascinanti dell’esposizione; penso ad esempio a un gruppo di sculture opera di René Michel Slodts ovvero Crise e Ifigenia (1740 circa). Le ricerche di Slodts, pensionaire dell’Accademia di Francia a Roma, riflettono in maniera originale e del tutto barocca sugli esiti della scultura antica, specialmente del Laocoonte, come nel caso della figura di Crise. Chiude la sezione la magnifica e un poco inquietante Vestale Tuscia (1743) del veneto Antonio Corradini, anch’essa il frutto delle meditazioni e delle rielaborazioni e soprattutto del confronto con la scultura classica.

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Fig. 15. Antonio Corradini, Vestale Tuscia, marmo, 1743, Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini e Galleria Corsini.

Le riflessioni sul vero e sul naturale trovano compiute esperienze negli esiti raggiunti da Pierre Subleyras nel suo favoloso e sensualissimo Nudo femminile di schiena (1732 circa) della Galleria Nazionale di Palazzo Barberini a Roma dalla pennellata squisitamente raffinata stesa per tratti inclinati sovrapposti degni dei più bei disegni a pastello di Degas, e da una qualità pittorica eccezionalmente calibrata e sofisticata mediante l’uso di un chiaroscuro che segue l’inclinazione dei raggi di luce, provenienti da sinistra, che lasciano parte delle natiche e delle gambe in penombra andando ad accentuare ancora di più la forte carica erotica di questa pregevolissima tela.

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Fig. 16. Pierre Subleyras, Nudo femminile di schiena, olio su tela, 1735 circa, Roma, Gallerie Nazionali d’Arte Antica, Palazzo Barberini.

La mostra continua gettando lo sguardo sugli artisti delle nuove generazioni che preannunciano gli esiti di quello che sarà il neoclassicismo in un confronto serrato tra Roma e Parigi. Qui emergono opere magnifiche di Pompeo Girolamo Batoni come L’Educazione di Achille (1746) della Galleria degli Uffizi di Firenze o il Sacrificio di Ifigenia (1740-1742) di Londra, dai toni pastello e dalla composizione eminentemente teatralizzata. Ma come per gli artisti più sopra incontrati le nuove riflessioni si impostavano sulle generazioni di pittori precedenti anche per questi “outsider” i modelli sono i pittori della generazione precedente. Ecco che anche in questo caso non mancano opere strabilianti di Sebastiano Conca come il Miracolo di San Turibio (1726) e le meditazioni su Raffaello di Pierre Subleyras nel suo San Camillo de Lellis che salva gli ammalati dell’Ospedale di Santo Spirito durante l’inondazione del Tevere del 1598 (1746), dove al centro è ancora lapalissiano il confronto con l’Enea e Anchise dell’affresco vaticano. A chiudere la sezione della mostra spiccano due pale d’altare, la prima è quella di Francesco Ferrandi detto l’Imperiali che a Roma lascerà lo splendido Transito di San Romualdo (1730 -1734 circa) che dialoga lì accanto con quella che sarà, appunto la stagione figurativa successiva, vale a dire con la Madonna col Bambino e i Beati Pietro, Castora, Forte e San Rodolfo (1732-1733 circa) dipinta da Pompeo Batoni per la chiesa romana di Sant’Andrea e Gregorio al Celio; un assoluto capolavoro dell’artista.

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Fig. 17. Pompeo Girolamo Batoni, Madonna col Bambino e i beati Pietro, Castora, Forte e Lodolfo, olio su tela, 1732-1733 circa, Roma, Chiesa dei Santi Andrea e Gregorio al Celio.

A questa produzione tutta italiana, romana nello specifico, si affianca anche la pittura francese, che oltre a produrre scene sacre raffinatissime e paesaggi bucolicamente spirituali come nel San Girolamo addormentato (1751) o il San Giovanni Battista nel deserto (1746 circa) di Joseph Marie Vien o ancora il San Francesco che medita nella solitudine (1747) di Jean Baptiste Marie Pierre, si confronterà anche con la pittura mitologica e con quella del tutto profana e un poco frivola, che in mostra è bene esemplificata dalla strabiliante Aurora e Cefalo (1733) dalle forme sensualissime e dalla Donna che indossa la giarrettiera (1742) di Francois Boucher.

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Fig. 18. Francois Boucher, Aurora e Cefalo, olio su tela, 1733, Nancy, Musée des Beaux-Arts.

Un rapido sguardo è poi affidato alle fantasie architettoniche di Filippo Juvarra, prefigurazioni di un gusto che sarà tipico dei Capricci e fatto proprio da artisti del calibro di Marco Ricci e di Giambattista Piranesi. Prima di uscire, ancora meditazioni sull’antichità classica e sulla modernità del Rinascimento, ecco che il Cristo che porta la croce (1745) di Edme Bouchardon sembra un Michelangelo redivivo se confrontato con quello del Buonarroti in Santa Maria sopra Minerva, e ci sembra un miracolo. Accanto gli sta uno tra i più bei Mercurio che si allaccia i calzari (1744) opera di Jean Baptiste Pigalle anch’esso intriso di cultura italiana, romana in special modo, dove la luce accarezza delicatamente ogni fibra del marmo che da pietra fredda algida e gelida si trasforma in materia viva, vibrante e calda. E che dire poi delle Nozze di Amore e Psiche di Batoni del 1756? Basterebbe accennare al fatto che quelle superfici dipinte così algide e perfettamente tornite nella loro impalpabile raffinatezza sensuale e squisitezza formale frutto delle meditazioni su Raffaello mescolate agli esiti della grazia e della dolcezza ancora correggeschi, faranno gola al principe del neoclassicismo in persona: Antonio Canova. Il disegno tenero, grandioso, di belle forme del Batoni sarà la principale qualità a cui lo scultore darà nuova vita facendo convivere l’aspetto grazioso e quello eroico.

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Fig. 19. Pompeo Girolamo Batoni, Nozze di Amore e Psiche, olio su tela, 1756, Berlino, Staatlichen Museen, Gemäldegalerie.

Sfida al Barocco è una mostra, come si avrà avuto modo di capire leggendo questa recensione che pure molto ha dovuto sacrificare in nome di una presunta sinteticità, complessa e intricata negli sviluppi e negli scambi, forse non sempre pienamente a fuoco, ma che se il visitatore ha la pazienza di vedere con attenzione non mancherà di svelare i suoi fili e le sue connessioni, aprendo un mondo davvero unico e suggestivo, fatto di artisti e di opere assolutamente straordinarie.

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Fig. 20. Jean-Baptiste Pigalle, Mercurio che si allaccia i calzari alati, marmo, 1744, Parigi, Muséè du Louvre – Département des Sculptures.

Molto ben fatta è la regia illuministica ed espositiva, che fa cogliere molti particolari di opere, soprattutto le pale d’altare, che normalmente stanno in chiese prive di quella luce necessaria per poterle ammirarle pienamente. Eccessivamente sintetici risultano forse i pannelli esplicativi e le carte di sala; piccolezze perdonabili a fronte di un lavoro così mastodontico e di sicura qualità scientifica e metodologica, frutto anche e forse soprattutto, della sinergia con il mondo dell’Università. Dalla mostra si esce piuttosto stanchi, pur tuttavia si è consapevoli di due cose: la prima è che si sono visti degli assoluti capolavori, la seconda è che si esce con la consapevolezza dell’esistenza di opere di cui fino a qualche ora prima il visitatore ignorava l’esistenza, e si è imparato qualcosa di nuovo, qualcosa che ci porteremo con noi come bagaglio culturale e intellettuale per il futuro, una crescita personale sempre utile.

Sfida al Barocco è una mostra da visitare assolutamente, non solo perché indaga un tratto un poco trascurato dall’industria delle mostre e quindi poco conosciuto al grande pubblico, ma perché fa emergere molto chiaramente un aspetto a nostro avviso fondamentale: l’assoluta preminenza e importanza dell’arte italiana su quella europea, cui tutti i principali centri artistici e corti d’Europa, almeno fino alla fine Settecento, dovettero guardare come a uno tra i più fulgidi fari.

Marco Audisio

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