Quel Blu di Genova di Michele Mozzati racconta una vicenda davvero affascinate che unisce la storia, quella con la S maiuscola, alla storia dei suoi personaggi: Ernesto, Cesco e Cielo.
“Sono cresciuto nella convinzione che il senso della nostra esistenza stia nella forbice tra i Grandi Forse del Trascendente e le Devastanti Verità del Quotidiano. Credo sarà il motore di questa storia.”
Nelle prime pagine del romanzo, ambientate nel 2015, Pietro Giudici Esposito Sommariva si trova a San Francisco nella villa che era stata dei suoi nonni e dei suoi avi prima di lui, perché suo padre, poco prima di morire, gli affida il compito di vendere la loro casa in Hill Street e di riportare in Italia, a Milano, alcuni di quei ricordi che hanno legato la loro famiglia a quella casa, a quel luogo.
Pietro ritrova nella soffitta della villa, così ricca di storia, i diari del suo trisavolo Ernesto Giudici, il quale, per paura di dimenticare la sua vita avventurosa, aveva deciso di scriverla in quelle pagine, corredate anche da alcune illustrazioni.
Il ritrovamento di queste memorie è raccontato nel primo capitolo del romanzo, in seguito invece viene narrata la storia di Ernesto, la sua amicizia con Cesco, l’amore per Cielo, il viaggio avventuroso che lo porta in America e la nascita della famiglia Giudici-Esposito-Sommariva.

Tutto inizia nel 1853, quando Milano è teatro della rivolta mazziniana contro il dominio austriaco: una rivolta che non ha un piano ben congegnato, che coinvolge soprattutto gli strati più poveri della società e che era quindi destinata fin dalla sua nascita ad un insuccesso.
Ernesto appartiene ad una famiglia benestante e borghese e crede fermamente nel progetto della creazione di un’Italia unita e repubblicana, per questo partecipa alla rivolta del 1853, con esiti alquanto nefasti. Ernesto era nel gruppo di rivoltosi che doveva occuparsi del Castello Sforzesco, all’epoca la più grande caserma austriaca a Milano, ma ben presto cade, a causa di una scala marcescente, in un buco dal quale non sa uscire. Subito dopo finiscono nel buco anche un soldato austriaco e Francesco Esposito, detto Cesco. Il soldato, per salvarsi, guida i due rivoltosi verso l’uscita e Ernesto e Cesco si danno alla fuga.
Cesco è un giovane ragazzo napoletano che si è trasferito a Milano da poco in cerca di fortuna che pensa di poter ottenere facendo scoprire agli abitanti della città il gusto unico e inconfondibile della pizza. Cesco è anche lui convinto dalla causa mazziniana e sogna un’Italia libera dagli invasori (gli austriaci a Milano, ma anche i Borbone nel sud Italia). Il giovane, sebbene sia solo un panettiere, è molto curioso ed è un lettore vorace di classici e per questo dimostra una cultura che supera quella del borghese Ernesto.

I due, che diventano presto amici e legati da un destino comune, scappano dalle truppe austriache che continuano ad arrestare e a giustiziare coloro che avevano preso parte alla rivolta. Qui si apre una bella parentesi del narratore che riflette sul fatto che la ricerca storica si occupi solo dei grandi personaggi politici, dimenticando spesso che dietro a queste personalità capaci di immaginare progetti idealistici ci sono molti signor nessuno, popolani che sacrificavano la loro vita anche in piani di attacco davvero poco efficienti:
“Quanta vita c’è dentro queste poche righe che raccontano, come dei fermo immagine, una città, un angolo di storia anche troppo dimenticata. Ci sono i grandi ideali dei grandi pensatori pieni di grandi futuri immaginati. Davvero bella gente, spesso celebrata come padri della patria, condottieri eroici o teorici inarrivabili. Ma questi uomini importanti della nostra storia pensavano forse troppo, a volte, e avevano una certa resistenza a misurarsi con la quotidianità. Così a farsi ammazzare, magari anche perché le loro vite erano state affidate a operazioni azzardate, alla fine erano i poveracci. I garzoni, i costruttori di pianoforti, i decoratori degli appartamenti del centro.”
Ernesto e Cesco riescono, grazie all’aiuto di alcuni alleati rivoltosi, a nascondersi fuori Milano e poi a raggiungere Genova dove vengono accolti presso il palazzo della famiglia Sommariva. È qui che entra in scena Maria Celeste, detta Cielo, una giovane nobildonna, bellissima, dall’aspetto fiero, delicato e audace, che porta i pantaloni e che incanta i due uomini. Cielo ha due occhi verdi magnetici che catturano lo sguardo di qualsiasi persona ed è caratterizzata da una grande intelligenza e intraprendenza. Per descrivere l’atteggiamento della giovane ragazza la si paragona a un calabrone:
“Il paradosso del calabrone, erroneamente attribuito a Einstein, dice più o meno che la struttura alare, in relazione al suo peso, non è adatta al volo. Ma lui non lo sa, e vola lo stesso. Non lo sa e vola lo stesso.
Ogni volta che mi capita di osservare un calabrone o un bombo, suo simile, sorrido. Mi diverte, questa cosa; mi fa anche riflettere. Non so se è del tutto vera, ma chi l’ha inventata o tramandata è un benefattore della quotidianità, forse dell’umanità.
Occorrerebbe a volte fare come il calabrone, o come il bombo, che è anche più simpatico. Fornirci di una buona dose di coscienziosa incoscienza e fingere di non sapere del nostro peso che ci dovrebbe impedire il volo.”
Maria Celeste è proprio come il calabrone, perché non sa andare per mare, non sa come affrontare degli astuti affaristi, ma decide lo stesso di partire per l’America per portare il carico di tessuto, il denim, ai fratelli Levi e di contrattare con loro per raggiungere un giusto prezzo. Cielo, Ernesto e Cesco partono insieme alla volta di questa avventura.

La storia che viene raccontata nel romanzo, come ho già detto, è molto interessante e originale e altrettanto originale è il tono con cui gli eventi vengono narrati. Il narratore delle vicende, ovvero Pietro, che sta leggendo il diario di Ernesto, interviene più volte nel testo con parole che fanno riflettere, pensieri profondi, ma anche con un tono ironico che rende il racconto ancora più piacevole.
“Quando si parla, l’anima del dire si nasconde – sta – nei silenzi, in ciò che non viene detto ancora, che non viene detto ora, che non verrà detto mai. E se hai la disponibilità a quel tipo di ascolto fatto di pause e di silenzi, il non-suono sa raccontare più di mille parole.”
“Difficile dire cosa può essere il cielo stellato quando intorno hai solo il buio del mare.”
L’espediente del manoscritto ritrovato è quasi da manuale per il genere del romanzo storico, basti citare solo i due casi più celebri: Alessandro Manzoni con I promessi sposi e Umberto Eco con Il nome della rosa. Quel blu di Genova è quindi un romanzo storico, perché il contesto che dà il via alla vicenda è quello ben preciso dell’Italia pre-unitaria e anche perché questo viaggio che compiono i nostri protagonisti per due mesi verso l’America è qualcosa che tanti italiani prima e dopo l’unità d’Italia hanno affrontato. È suggestivo anche vedere descritte due città come New York e San Francisco, agli albori del loro sviluppo esponenziale. Sopra questa ambientazione storica è costruita poi la vicenda originale di Ernesto, Cesco e Cielo, tre persone alla ricerca della libertà, che agiscono fuori dagli schemi e che riescono a trovare un equilibrio tra loro difficile da trovare altrove e un amore senza regole.
“Tutte le storie sono storie d’amore” questo è l’incipit del diario di Ernesto che più volte viene ripetuto all’interno del romanzo e niente può rappresentare meglio di queste parole il libro di Michele Mozzati: l’amore, come sentimento puro e assoluto, ma presente anche nel suo aspetto fisico più delicato, senza restrizioni e giudizi è al centro del romanzo e al centro del rapporto dei tre protagonisti, i cui cognomi resteranno uniti per sempre nella loro discendenza: Pietro Giudici Esposito Sommariva.
L’unico difetto che ho trovato nel romanzo è, a volte, una poca coesione tra i diversi capitoli che lo compongono, ma Quel blu di Genova è comunque un libro piacevole che si legge velocemente e che fa vivere al lettore un’avventura che parte in Italia, attraversa l’oceano Atlantico e arriva fino in America.
Alessandro Audisio
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