Parasite è un film del 2019 diretto dal regista sudcoreano Bong Joon-ho. Vincitore della 72 ͣ edizione del Festival di Cannes e successivamente dei titoli “miglior film in lingua non inglese” e “miglior film in lingua straniera” rispettivamente ai BAFTA e ai Golden Globe, il lungometraggio di Joon-ho non ha fermato la sua scalata aggiudicandosi i premi nelle categorie “miglior film”, “miglior film internazionale, “miglior regista” e “migliore sceneggiatura originale” agli Oscar. Ultimo ma non per importanza, a maggio di quest’anno, Parasite è “miglior film straniero” ai David di Donatello.


Protagonista della vicenda è la famiglia Kim, composta dal padre Ki-taek, la madre Chung-sook, il figlio Ki-woo e la figlia Ki-jung. I Kim vivono di sussidio di disoccupazione in una casa in quelli che potremmo definire dei veri e propri sobborghi. L’intera abitazione è sotterranea con le finestre poste a livello della strada. I nostri protagonisti cercano in tutti i modi di sopravvivere con lavoretti occasionali e tanta astuzia. Scaltri e furbi sono soprattutto Ki-woo e Ki-jung che, sfruttando l’offerta di un amico di Ki-woo, riescono a entrare come insegnanti privati a servizio della benestante famiglia Park. Una volta assunto Ki-woo come insegnante privato della figlia maggiore Da-hye, i Park si lasciano via via aggirare dai vari stratagemmi inventati dal ragazzo e da Ki-jung, assunta subito per fare arteterapia al minore dei Park, Da-song. I sotterfugi attuati dai due fratelli Kim portano alla sostituzione della storica governante di casa Park con loro madre e dell’autista con loro padre. Sembrerebbe a questo punto che tutto sia in discesa per i Kim, che si godono di nascosto la lussuosa casa Park durante i periodi vacanzieri di questi ultimi. Sembrerebbe, ma, con un colpo di scena, proprio durante una delle gite fuoriporta dei Park, i Kim scoprono di non essere gli unici “parassiti” rintanati in quella casa. Anche la precedente domestica e suo marito infatti, si erano stabiliti in un bunker sotterraneo presente nell’abitazione e di cui forse nemmeno i padroni di casa sospettavano l’esistenza. Da questo momento la situazione si complica fino ad arrivare all’inevitabile tragico scioglimento che non solo vede lo smantellamento di tutta la messa in scena dei Kim e della governante con il marito, ma porta anche alla morte di questi ultimi e di Ki-jung.


Il motivo del soffermarsi così tanto sulla trama, cari lettori, è dovuto alla presenza, già nell’ossatura del film, di elementi che a mio parere rivestono un significato simbolico forte, a cominciare dalla posizione delle abitazioni rispettivamente dei Kim e dei Park che sembrano rimandare alle categorie generali di alto/basso, superiore/inferiore. A evidenziare fortemente questo dislivello non è solamente il vedere in alcune inquadrature la casa dei Kim e in altre quella dei Park e poter fare così un confronto nella nostra testa fra le zone differenti della città in cui sono collocate, ma anche la lunga sequenza in cui i Kim, dopo la scoperta della presenza della governante e di suo marito nel bunker, ingaggiano uno scontro molto violento con questi ultimi, venendo però costretti a interrompersi per un’improvvisa telefonata dei Park che hanno anticipato il loro ritorno a casa. Ki-taek, Ki-woo e Ki-jung si trovano allora a dover scappare e tornare nel loro appartamento, lasciando nella ricca dimora dei loro datori di lavoro solo Chung-sook, che, svolgendo il ruolo di domestica avrebbe comunque dovuto rimanere nella lussuosa casa per sorvegliarla durante l’assenza dei Park. In questa fuga notturna non vediamo solamente quanto siano distanti spazialmente le due abitazioni, ma ci accorgiamo anche di quante e quanto ripide rampe di scale i tre protagonisti scendano per giungere nel proprio sobborgo. Corrono sotto una pioggia torrenziale e gradino dopo gradino si allontanano dai “piani alti” della città per raggiungere i loro “piani interrati”.
Proprio l’acqua è il secondo elemento che in questa fuga notturna caratterizza ancora di più l’infimità delle condizioni di vita dei Kim. Arrivati infatti finalmente nel loro scantinato si trovano a dover fronteggiare un allagamento dovuto non solo, come già accennato, al forte temporale che quella notte si abbatte sulla città, ma anche allo strabordamento della rete fognaria. Dai sanitari e dai tombini l’acqua di fogna riempie ogni stanza della casa dei Kim, che si muovono a fatica in questo putridume per recuperare almeno qualche oggetto di primaria utilità. Unendo acqua, scale e la loro comparsa in rapida sequenza possiamo notare come questi elementi concorrano entrambi a rimandarci a un senso di infimità, alla sfera dell’inferiorità. Il primo e l’ultimo gradino delle scale infatti non sanciscono solamente l’inizio e la fine di un elemento architettonico ma rimandano anche alla scala sociale, alle classi sociali: quelle più ricche che si trovano sul podio, le più povere, gli indigenti che idealmente si trovano sul primo gradino partendo dal basso, e il mito agrodolce della scalata (appunto) sociale e del self made man che continua a frullare nella testa di Ki-woo. Nel mentre però i Kim si trovano appunto in basso e, più scabrosamente, devono muoversi nel liquame, in condizioni quindi estreme, come i topi, i parassiti, gli scarafaggi.

Animali che vivono di scarti e che si muovono sottoterra o dietro i mobili. A questo rimanda anche il nascondiglio non solo del marito della precedente domestica dei Park, che insediatosi nel bunker della lussuosa villa compiva notturne incursioni nella cucina padronale per rubare avanzi e cibo dalla dispensa, ma anche il nascondiglio in cui devono rintanarsi Ki- taek, Ki-woo e Ki-jung, per evitare di essere scoperti dai Park entranti in casa inaspettatamente prima del giorno stabilito per il ritorno dalla gita. Padre, figlio e figlia si nascondono sotto il tavolo della sala, rimanendo lì immobili per tutto il tempo necessario affinché la signora e il signor Park si addormentino. I Kim rimangono lì sotto, spostandosi occasionalmente strisciano sul pavimento (quindi sempre a un livello raso terra, infimo) per evitare di essere visti o sentiti e, una volta spente le luci della villa, possono sgattaiolare finalmente in strada e iniziare la fuga di cui sopra. Sgusciare fuori dal sotto un tavolino, strisciare, rotolare, tutte azioni che rimandano ancora una volta alla sfera dell’inferiorità, contrapposta a quella della superiorità emanata invece dai Park, dal loro stile di vita, dai loro soldi.

Assumendo questo fermo immagine dei Kim bloccati sotto il tavolino del salone dei Park come punto fisso di riferimento, penso sia importante analizzare due episodi: il primo è l’antefatto, ciò che ha preceduto questa situazione di stasi e di blocco dei tre protagonisti sotto il prezioso mobile e il secondo è invece ciò che accade nel mentre sul divano posto davanti al tavolino assunto come nascondiglio.
L’antefatto è una violentissima rissa tra i Kim e la domestica precedente dei Park e suo marito. I due nuclei famigliari si azzuffano, utilizzando anche oggetti contundenti per ferirsi, non risparmiando colpi perché sanno che da quel momento il vincitore del conflitto potrà continuare a vivere nella villa dei Park e salvandosi così da una vita di stenti. È importante quindi per entrambi gli schieramenti che si decreti il più forte perché, come recita il proverbio, mors tua vita mea. Ecco, parliamo di schieramenti, perché è proprio l’immagine che appare allo spettatore: ogni membro della famiglia Kim agisce e sferra colpi per far sì che i due coniugi rivali soccombano e viceversa. A ben vedere però di schieramenti sarebbe più logico parlare riguardo ai Park da una parte e ai Kim con la precedente domestica e suo marito dall’altra. È quindi una distorsione che viene messa in atto, una perversione di quello che dovrebbe essere il comportamento delle persone appartenenti alla stessa classe sociale, che creando un fronte comune contro la fonte dei propri disagi potrebbero ottenere miglioramenti effettivi della loro condizione. Non c’è collaborazione quindi, ma una legge del branco dove il più forte comanda. E proprio di branco sembra poter parlare quando il giorno successivo, in una pace precaria che sembra essersi ristabilita, Chung-sook ha lo scrupolo di controllare le condizioni di salute della precedente domestica, rimasta ferita gravemente dalla schermaglia della sera prima. Invia quindi il figlio Ki-woo a sincerarsi che tutto vada bene nel bunker, dicendogli anche di portare ai due coniugi del cibo. Solamente una volta stabilita la loro supremazia quindi i Kim si sentono abbastanza sicuri per mostrare solidarietà e comprensione verso i loro precedenti avversari, ora sottomessi. Sarebbe probabilmente scattato lo stesso meccanismo anche se gli esiti della rissa fossero stati opposti. Non sembra infatti esserci mai spazio per l’idealismo, per un pensiero che non sia immediatamente diretto alla sopravvivenza contingente e questo perché i grandi discorsi di giustizia e uguaglianza, per quanto lodevoli, non sfamano. Potrebbe sembrare un ritratto cinico, ma non è nient’altro che la realtà per una fascia di popolazione mondiale vastissima, da cui sono esclusi solamente pochi privilegiati.

Tornando al film e precisamente al secondo episodio che vorrei analizzare, possiamo vedere come i Kim, che pure hanno sventato la minaccia dei due coniugi nemici, siano però immediatamente ricondotti alla loro condizione subalterna dalle parole sprezzanti che il signor Park pronuncia parlando proprio di loro alla moglie. Marito e moglie si trovano infatti distesi sul divano del loro salone, inconsapevoli che proprio sotto di loro ci sia quasi tutta la famiglia Kim. Dopo aver degradato a mero espediente di eccitazione sessuale una delle ingegnose macchinazioni pensate da Ki-jung per far sostituire l’autista dei Park con suo padre, si confidano poi sull’odore che sentono sempre addosso ai loro dipendenti domestici. Il signor Park in particolare insiste sul fatto di sentire sempre addosso a Ki-taek un particolare odore, che non definirebbe puzzo, ma che avverte comunque come sgradevole. È un dialogo umiliante non solamente per le condizioni in cui avviene ma anche per l’introduzione dell’elemento olfattivo che rimarrà una costante e che ci viene fatto notare con gesti magari non così evidenti, ma che alla luce di queste parole assumono per noi il preciso significato di manifestazione di fastidio; il signor Park che abbassa lievemente il finestrino dell’automobile che sta guidando Ki-taek e arriccia il naso, il soffermarsi di Ki-taek stesso sull’odore dei suoi vestiti ogni giorno dopo aver origliato le parole del signor Park da sotto quel tavolino e ancora la signora Park che inizia a prestare attenzione annusando a volte l’aria per cercare di avvertire l’odore di cui le ha parlato il marito. Si tratta quindi anche in questo caso di sottolineare l’inferiorità dei Kim e di continuare a schiacciare la loro immagine con questa operazione di degradazione costante condotta per tutto il lungometraggio.

L’ultimo campo che vorrei infine prendere in esame è quello del cibo, sia inteso come rimando alla categoria del concreto in opposizione a quella dell’astratto, degli ideali, sia nello specifico come differenti pietanze che individui di estrazione economica diversa sono abituati a consumare. Una delle prime battute con cui si apre Parasite, pronunciata da Chung-sook, ci dà infatti subito la posizione tenuta dall’intera sceneggiatura del film. Quando, nelle scene iniziali, l’amico di Ki-woo va a trovarlo, reca con sé in dono a tutta la famiglia Kim un grosso masso, una pietra che dovrebbe portare fortuna e prosperità. Tutti i membri della famiglia ringraziano del pensiero tranne Chung-sook il cui unico sferzante commento è «Era meglio del cibo». La pietra infatti propizierà anche la buona sorte, ma, come detto prima a proposito dei grandi ideali, non sfama, non è utile alla sopravvivenza che appare appunto essere l’orizzonte a cui sono rivolte tutte le azioni dei nostri protagonisti. Non ci stiamo muovendo in una rappresentazione da sogno, ma stiamo assistendo alla messa in scena della cruda realtà, in cui notiamo come un piatto che per i Park è semplicemente un veloce spuntino notturno, contempli invece fra gli ingredienti uno fra i tipi di carne più costosi e pregiati della Corea. Viceversa, durante la sera cruciale della zuffa fra i Kim e la precedente domestica, Ki-jung mangia gli stuzzichini di carne essiccata destinati al cane dei Park, ritenendoli buonissimi e migliori di qualsiasi altra carne abbia mai mangiato. Non si tratta di palati diversi, ma di abitudini alimentari diverse determinate da possibilità di accesso alle risorse a loro volta diverse e non paritarie. È, inoltre, ancora una volta, una degradazione perché trattandosi appunto di cibo per cani si attua una assimilazione al grado di bestia, che seppur domestica, è e rimane un animale diverso e inferiore all’uomo.
Con il fotogramma di un cane poi si conclude la scena più ricca di pathos del film, cioè l’omicidio di Ki-jung compiuto dal marito della domestica per vendicare la morte della moglie avvenuta in seguito alle ferite riportate nello scontro con i Kim. La feroce violenza avviene nello scenario idilliaco della festa di compleanno organizzata per il figlio minore dei Park. Fra i tavoli decorati con larghe tovaglie bianche svolazzanti alla fresca ombra degli alberi maestosi del giardino della villa, appare quest’uomo dagli occhi folli per il dolore con in mano uno spiedo da barbecue. L’assassino si dirige verso Ki-jung e a poco valgono i tentativi di salvataggio di Ki-taek, Chung-sook e Ki-woo. Molto significativa a questo proposito è la disposizione spaziale degli invitati: i Kim accorrono per salvare la loro congiunta ma nessuno tra le persone benestanti amiche dei Park e lì presenti interviene o muove un dito per evitare la tragedia ormai certa, nemmeno i Park stessi, legati comunque a Ki-jung da un rapporto di lavoro, conoscenza e fiducia. In mezzo a queste due fazioni, nello scompiglio e nel dolore del dramma ormai consumato, cammina pacifico il cane dei Park che si avvicina allo spiedo da barbecue infilzato in un corpo umano ancora caldo e annusa pacificamente le fette di carne grigliata appese alla lama, con l’intenzione di cibarsene. Dal consumare cibo per cani a esserlo, ancora si viene a stampare una vivida immagine di infimità nella nostra mente.

La denuncia della condizione subalterna di un consistente strato di popolazione sudcoreana ha portato il governo a stanziare dei fondi in aiuto delle classi più bisognose. È una realtà impossibile da ignorare che il lungometraggio di Bong Joon-ho ha contribuito a portare all’attenzione del mondo intero, mettendoci senza complimenti né fronzoli davanti agli occhi ciò che si è disposti a fare pur di sopravvivere nella condizione più svantaggiata possibile. Inserendo quindi non solo a livello visivo dei rimandi a una interpretazione più profonda ma facendo anche pronunciare ai suoi protagonisti delle freddure che assumono l’aspetto di dure verità il regista vuole farci prendere coscienza delle più aspre contraddizioni del modello di società imperante. Come infatti dice con lucida freddezza Ki-jung, la signora Park non «è così gentile!» e basta, ma «[è] gentile perché è ricca» e fra questa e la prima affermazione si cela un grande scarto di cui proprio Ki-jung sarà la prima a fare le spese.
Federica Rossi
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