Il 16 febbraio 1980 a Milano, nelle sale di Palazzo Reale, veniva inaugurata una mostra destinata a divenire uno degli eventi più significativi del secondo Novecento: si intitolava L’altra metà dell’avanguardia 1910 – 1940 e raccontava, per la prima volta, i maggiori movimenti artistici del ventesimo secolo dal punto di vista delle donne che li avevano animati. La mostra, prodotta dal Comune di Milano, era stata progettata e curata da Lea Vergine (Napoli, 1936 – Milano, 2020), una studiosa di origine napoletana, giunta nel capoluogo lombardo nel 1968.
Ai tempi dell’Altra metà dell’avanguardia, Lea era ormai una critica affermata: aveva d’altra parte iniziato la propria carriera giovanissima e vantava alcune collaborazioni assai significative, come quella con Giulio Carlo Argan (Torino, 17 maggio 1909 – Roma, 12 novembre 1992) che nel 1964 l’aveva invitata a partecipare alla progettazione della rivista “Linea Struttura”; in questa occasione, tra l’altro, la studiosa aveva conosciuto il futuro marito, il designer novarese Enzo Mari (Novara, 1932 – Milano, 2020). Sin dagli anni Settanta aveva inoltre iniziato a scrivere per importanti testate nazionali, come “Il Manifesto” e “Il Corriere della Sera”.

Dopo essersi interessata alle avanguardie e, in linea con i contemporanei studi dello stesso Argan, a correnti più moderne, come l’arte cinetica e programmata, Lea aveva iniziato, per prima in Italia, ad esplorare il nuovo panorama dell’azione performativa e della Body Art. Le sue ricerche in tale senso si erano concretizzate nel volume Il corpo come linguaggio (La “Body-art” e storie simili) (Prearo, 1974): il testo teorizzava in modo pioneristico e diretto la nascita e l’evoluzione di questa controversa espressione, in quegli anni nel pieno della propria vita, attraverso le testimonianze e le opere di sessanta artisti ed era corredato da un ricco apparato fotografico.
Poco tempo dopo, nel 1975, la neonata Libreria delle donne di Milano, storico centro di propagazione della cultura femminista, propose alla studiosa di eseguire e presentare una ricerca su un gruppo di nove artiste contemporanee: Carla Accardi, Mirella Bentivoglio, Amalia Del Ponte, Grazia Varisco, Nanda Vigo, Valentina Berardinone, Tomaso Binga, Nilde Carabba e Dadamaino.
Questo primo approccio al “nuovo” mondo dell’arte al femminile, unito alla presa di consapevolezza dello scarso spirito critico che caratterizzava, in quegli anni, gli studi in tale senso, convinsero Lea ad approfondire le proprie ricerche e a convogliarle in un’esposizione. Come affermato in seguito da lei stessa, un ulteriore impulso era derivato da altre due mostre andate in scena nel corso degli anni Settanta: “Kunstlerinnen international 1877-1977”, allestita presso lo Schloss Charlottenburg di Berlino e “Women artists: 1550-1950”, ospitata al Brooklyn Museum di New York. Questi eventi si erano in realtà rivelati, secondo la critica, soprattutto delle sterili rassegne di nomi organizzati in modo incoerente, che univano artiste professioniste ad altre che si erano approcciate all’arte in modo più dilettantesco, prendendo in considerazione archi temporali troppo vasti e disomogenei; problemi che si riscontravano, peraltro, nei pochi saggi accademici pubblicati sul tema. Da queste considerazioni derivò la decisione di proseguire le proprie ricerche, concentrandole allo stesso tempo in un arco di tempo più ristretto, dal 1910 al 1940, e limitandole alle sole artiste che avevano avuto un ruolo organico all’interno delle avanguardie, non in quanto personaggi secondari e gravitanti intorno ai leader maschili, ma come personalità in grado di apportare ai rispettivi movimenti un contributo creativo e innovativo.

A lavori terminati, il materiale raccolto riguardava più di cento pittrici, scultrici, grafiche e fotografe internazionali, rigorosamente selezionate secondo criteri qualitativi, che spaziavano dal Blaue Reiter, al Cubismo, al Futurismo, al Dadaismo, sino al Costruttivismo, al Surrealismo, all’Astrattismo e alla Nuova Oggettività. Un risultato straordinario, se si considera che si trattava di una materia sino ad allora quasi sconosciuta e che moltissime opere erano andate perdute o si erano conservate in condizioni assai precarie.
Come spiegherà la stessa curatrice nell’introduzione al catalogo della mostra, dopo alcune riflessioni la scelta allestitiva era caduta infine sulla suddivisione degli spazi in sezioni dedicate ognuna ad un movimento artistico, così da mettere in risalto, al di là dell’inevitabile eterogeneità, le analogie nel linguaggio delle artiste appartenenti allo stesso gruppo di avanguardia e scongiurare il metodo di lavoro seguito sino a quel momento in ambito critico e accademico, evitando una mera elencazione “enciclopedica” di nomi ed opere d’arte. Ogni figura di artista era inoltre accompagnata da una scheda biografica che ne raccontava la vita in modo “scientifico” e basato su dati attendibili, privi di accenti romanzati o di luoghi comuni. Accanto a nomi già noti, come Frida Kahlo, Dora Maar o Tamara de Lempicka, Lea Vergine portò inoltre per la prima volta alla conoscenza del pubblico un vero e proprio mondo sommerso, fatto di personalità sino ad allora sconosciute o dimenticate nel corso degli anni: l’auspicio era che il proprio lavoro, senza nessuna pretesa di esaustività, fosse un punto di partenza da cui sviluppare ulteriormente queste affascianti tematiche.

La notevole qualità della mostra fu anche dovuta al fatto che, per la sua realizzazione pratica, la curatrice aveva potuto contare sul contributo di due straordinari designer: Achille Castiglioni (Milano, 1918 – 2002), autore degli apparati allestitivi, e Grazia Varisco (Milano, 1937), ideatrice della parte grafica.
Nel volume L’arte ritrovata. Alla ricerca dell’altra metà dell’avanguardia, edito da Rizzoli nel 1982, Lea Vergine, terminata l’esperienza dell’esposizione – che, dopo l’esordio milanese venne portata al Palazzo delle Esposizioni di Roma e alla Kulturhuset di Stoccolma – racconterà il duro, affascinante e a tratti avventuroso percorso di ricerca, le difficoltà nel reperire alcune opere o nel rintracciare e nell’approcciarsi ad alcune di loro, soprattutto quelle meno conosciute.

Gli studi condotti da Lea Vergine, fondamentali per chi si occupa di tali tematiche, hanno quindi permesso di riscoprire, o, in alcuni casi, rendere note per la prima volta, le artiste che hanno avuto un ruolo all’interno delle avanguardie storiche e hanno fatto luce sul modo in cui esse hanno dialogato e si sono confrontate con la controparte maschile. È così emerso come queste donne avessero uno “spazio parallelo” all’interno dei rispettivi movimenti, ovvero un’autonomia espressiva che le pose nelle condizioni di sviluppare ricerche e linguaggi indipendenti.
Oltre all’analisi dei movimenti del primo Novecento, già storicizzati, sono davvero numerosi i contributi apportati da Lea Vergine allo studio e alla comprensione della cosiddetta “arte giovane”, ovvero quella appartenente alla contemporaneità vera e propria, a cui la studiosa ha dedicato numerose mostre, a partire dagli anni Ottanta fino al 2013, e altrettante, illuminanti pubblicazioni. Nel 2000, il volume Body Art e storie simili. Il corpo come linguaggio è stato riedito da Skira, con una postfazione nella quale la stessa Lea analizza i corsi più recenti della Body Art, dagli anni Novanta sino ai nostri giorni, mentre nel 2005 ha visto la luce, per i tipi del Saggiatore, L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940, ripubblicato sotto forma di libro.
Infine, non si può non citare, nel corpus della studiosa, il testo autobiografico L’Arte non è faccenda di persone per bene (Rizzoli, 2016), nel quale l’intellettuale, conversando con la storica dell’arte Chiara Gatti, ripercorre la propria straordinaria vicenda umana e professionale, a partire dall’infanzia trascorsa a Napoli, passando per Roma, fino all’arrivo a Milano e la scelta di essere testimone diretta del contemporaneo.
Lo scorso ottobre Lea Vergine è purtroppo scomparsa, a poche ore di distanza dal marito, Enzo Mari, entrambi vittime di complicazioni dovute al COVID-19. Sono così mancati due personaggi iconici del XX secolo, la cui eredità è però ancora viva e attuale, come testimonia anche la grande retrospettiva Enzo Mari curated by Hans Ulrich Obrist with Francesca Giacomelli, dedicata al grande designer e inaugurata alla Triennale di Milano lo scorso 17 ottobre.
Grazie alla sua determinazione, alla sua passione a al suo eccezionale spessore culturale, Lea Vergine ha portato alla luce nuovi universi del passato, rimasti inesplorati per decenni, e, allo stesso tempo, ha saputo intuire e cogliere con grande sensibilità i mutamenti del panorama artistico nel loro divenire. Nel 2013 l’Accademia di Brera le ha conferito il Diploma Accademico Honoris Causa in Comunicazione e Didattica dell’arte e il titolo di Accademico d’Italia e la motivazione dei prestigiosi riconoscimenti ben racchiude la ricchezza delle doti umane e professionali della studiosa: “Rigorosa, anticonformista, raffinata, sagace, ironica, originale, capace di dialogare da più decenni con la cultura nazionale e internazionale […] I suoi saggi svelano le trame complesse delle azioni umane: interagiscono con la cultura del passato, parlano del presente e lasciano intravedere il futuro”.
Chiara Franchi
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