Architetture che non ci sono

Il mestiere dell’architetto è il luogo per eccellenza dove si scontrano esigenze generali, spesso di pubblica o comunque altrui utilità e aspirazioni artistiche e intellettuali dei singoli progettisti. Molte volte, per coloro che lo praticano, l’occasione di vedere frustrate intere ore di lavoro tra riflessioni e numerose matite temperate è in agguato presso il tavolo di una committenza non sempre altrettanto illuminata o talora per niente lungimirante. D’altra parte, nei casi dei progetti utopistici, la compresenza di cui sopra funge da stimolo per la formulazione di soluzioni a problemi reali, ma quando non è una conoscenza della tecnologica purtroppo non ancora abbastanza sviluppata a renderle praticabili, si tratta della società che non è pronta ad accogliere. È questo il motivo per cui, come scrive Philip Wilkinson, «alcuni degli edifici più impressionanti della storia dell’architettura non sono mia stati realizzati».

Fig. 1 Anonimo, Pianta di San Gallo, 816-36 circa, Biblioteca dell’Abazia di San Gallo, San Gallo (CH).

Con il suo Atlante delle architetture fantastiche (il cui eloquente titolo originale è Phantom Architecture), nel 2017 l’eclettico saggista inglese, autore tra l’altro di numerosi libri proprio sull’architettura, ha raccolto e raccontato una selezione di cinquanta progetti che tuttavia sarebbe inutile cercare nei vari angoli del mondo. Essi, infatti, non hanno mai vissuto fuori dalla mente e dagli elaborati grafici dei loro ideatori. Dal IX al XXI secolo, la lista comprende edifici appartenenti alle più svariate tipologie, e addirittura intere città. Ad accomunarli è la continua ricerca di una perfezione che da soggettiva, a immagine e somiglianza di chi l’ha formulata, desidererebbe essere universale, per il bene collettivo. Impreziositi da un’accademica maestria che forse nell’era del disegno digitale si sta smarrendo, per quanto anche la contemporaneità non manchi di meravigliare, i progetti delle architetture inesistenti rimangono tra i prodotti più interessanti delle epoche a cui risalgono, sollecitando l’attenzione di esperti e semplici appassionati, fra ammirazione e una nota di rimpianto.

Fig. 2 A sinistra: Antonio di Pietro Averlino detto il Filarete, Pagina del Trattato di Architettura con la pianta di Sforzinda, 1460-1464. Al centro: Leonardo da Vinci, Schizzo della città a due livelli, compreso nel Manoscritto B, 1487-1489, Institut de France, Parigi. A destra: Johannes Valentinus Andreæ, Veduta di Christianopolis, in un’illustrazione dell’omonimo trattato, 1619.

Lo sguardo del libro è rivolto principalmente al mondo occidentale che dal vecchio continente si allarga verso le Americhe, e arriva soltanto nell’epoca della globalizzazione a toccare i nostri punti antipodali. Per cominciare questa storia delle utopie architettoniche, Wilkinson sceglie la pergamena anonima, datata tra l’816 e l’836, e custodita presso l’Abazia di San Gallo in Svizzera, la quale probabilmente rappresenta un progetto di risistemazione dello stesso monastero benedettino. Si nota presto come il limite fra le diverse scale d’intervento risulti molto labile. Il singolo edificio e l’intera città coesistono in una sola costruzione, come sarà anche per il progetto di Sforzinda, argomento del Trattato di Architettura di Antonio di Pietro Averlino detto il Filarete (che significa non a caso “amante delle virtù”), scritto negli anni Sessanta del Quattrocento, o la Christianopolis del reverendo Johannes Valentinus Andreæ, scrittore e teologo tedesco vissuto a cavallo fra il XVI e il XVII secolo. Nel mezzo però ci sono anche proposte che intendono rispondere a bisogni di praticità, come la città a due livelli di Leonardo da Vinci che grazie alla sua dotazione di accorgimenti ingegneristici per l’approvvigionamento di acqua pulita, la ventilazione delle case e la viabilità ripartita di merci e persone, se solo le aspirazioni del genio universale avessero trovato compimento, avrebbe rappresentato il fiore all’occhiello di una società di certo rinascente ma il cui urbanesimo era ancora in preda alle dinamiche medievali. 

Fig. 3 Il cosiddetto Great Model della Cattedrale di San Paolo a Londra, realizzato sul progetto di Christopher Wren e oggi conservato all’interno della cattedrale stessa.

Non solo esercizi intellettuali; concezioni molto spesso «troppo avanti per i tempi», le quali non si smetteranno d’incontrare. In quello stesso frangente sono diverse le costruzioni che hanno quasi visto la luce, e non ce l’hanno fatta perché magari, sono parole sempre di Wilkinson, «il costruttore finisce i soldi, incontra difficoltà strutturali impreviste o viola la normativa; gli architetti che si trovano in contrasto con i clienti, o vengono scavalcati da un concorrente, o cambiano idea, oppure propongono un progetto sbagliato per l’area o inadatto per lo scopo». La ristrutturazione del palazzo di Whitehall o il progetto per la cattedrale di San Paolo, tutti e due a Londra, per esempio, hanno dovuto passare attraverso progetti originali molto più grandiosi e poi scartati, e rivederli ci dà gli elementi per capire le aspirazioni dei massimi architetti britannici dell’epoca.

Fig. 4 A destra: Jeremy Bentham e Willey Reveley, Rappresentazione del Panopticon, 1791. A sinistra: Claude-Nicolas Ledoux, Veduta aerea delle saline reali di Arc-et-Senans, 1770 ca.

Dall’epoca dei lumi in poi, le proposte avveniristiche si moltiplicano e non smettono di confrontarsi con i bisogni di società in evoluzione tanto nei gusti estetici quanto nelle incombenze di frequenza quotidiana; dal Panopticon del filosofo Jeremy Bentham e disegnato da Willey Reveley, una prigione che poteva essere sorvegliata da un solo ufficiale delle forze dell’ordine strategicamente nascosto, al cimitero piramidale di Thomas Willson per cinque milioni di sepolture, intanto che la capitale del Regno Unito stava diventando sempre più una delle città più popolose al mondo. Non si perde allo stesso tempo il desiderio di formare una civiltà educata alla bellezza tramite il ricorso ai più eleganti giochi della geometria; i francesi Claude-Nicolas Ledoux e Étienne-Louis Boullée insegnano molto a questo proposito.

Fig. 5 Karl Friedrich Schinkel, Progetto del palazzo reale sull’acropoli di Atene, 1834.

C’è però anche il desiderio di celebrare la grandezza, talora con soluzioni bizzarre. Nel 1758, l’architetto Charles-François Ribart de Chamoust propose di costruire un enorme elefante alla fine degli Champs-Élysées in onore di Luigi XV, con sale da ballo e da rinfresco al proprio interno (l’idea sarebbe stata ripresa da Napoleone per un monumento in Piazza della Bastiglia, di cui fu realizzato solo un modello in gesso a grandezza naturale che rimase in esposizione fino al 1846, e dall’americano James V. Lafferty, nel 1881, che lo pensò come attrazione per pubblicizzare una serie di appezzamenti di terreno edificabile a Margate City nel New Jersey). Karl Friedrich Schinkel, il padre del neoclassicismo germanico, suggerì nel 1834 che il palazzo del nuovo re di Grecia, il bavarese Ottone di Wittensbach, nel contesto della trasformazione che avrebbe reso Atene la degna capitale del nuovo regno liberato dalla presenza ottomana, sorgesse niente meno che sull’acropoli. Al di là dei numerosi problemi tecnici, questo avrebbe relegato il sito archeologico, come ha scritto lo storico dell’architettura David Watkin, al ruolo di «celebrativo ornamento da giardino»; per fortuna non se ne fece nulla.

Fig. 6 Joseph Paxton, Sezione trasversale della Great Victorian Way, 1855.

La scienza e la tecnica che stavano nel frattempo progredendo, grazie all’introduzione del ferro e al continuo miglioramento del suo utilizzo, non soltanto avevano concessero a Joseph Paxton di realizzare il celeberrimo Crystal Palace per la Grande esposizione del 1851, ma altresì d’immaginare un innovativo sistema viabilistico per quella stessa Londra che ormai contava due milioni  e mezzo di abitanti e vedeva ogni giorno arrivare in città duecentomila persone, non soltanto a piedi ma altresì con il treno e le carrozze. Questa volta però la grande struttura completa di negozi affacciati e diverse linee di convogli metropolitani doveva circondare come una specie di anello irregolare tutto il centro della città, correndo per 17,7 chilometri, e se non fosse stato per il costo eccessivo e l’insorgere di un problema più pressante, quello delle fognature, avrebbe trovato attuazione grazie al benestare sia del parlamento sia della corona.

Forti della stessa fede nel progresso, idee sopra alle righe sono nate dall’immaginazione fervida di architetti non certo accusabili di essere stati dei meri sognatori: Cutchbert Brodrick, Charles Rennie Mackintosh e Antoni Gaudì (tanto geniale quanto visionario anche nei suoi progetti realizzati). Le potenzialità dei nuovi materiali e la versatilità in un’ampliata gamma di utilizzi hanno condotto e continuano a condurre i progettisti a suggerire qualcosa di sempre più ardito e del quale non sempre si ha la certezza che si tratti di fantasie. Le Corbusier aveva veramente intenzione di sventrare il centro di Parigi per mettere in pratica i principi della propria città ideale, la Ville Radieuse.

Fig. 7 A destra: Frank Lloyd Wright, Veduta del grattacielo Illinois, 1959. A sinistra: Ludwig Mies van der Rohe, Grattacielo sulla Friederichstrasse, 1922.

Una cosa che appare evidente, inoltre, è come a ricorrere con una certa frequenza sia il tema della verticalità. La sfida dell’uomo a conquistare l’infinità dei cieli sembra non avere tempo, e le stesse ambizioni dietro al rifacimento della navata centrale della cattedrale di Beauvais (il cui soffitto fu portato a 47,5 metri nel 1272, e crollò appena dodici anni più tardi dimostrando ai costruttori del Medioevo che avevano ormati raggiunto un limite da non superare) le avremmo ritrovate nelle opere di  Vladimir Tatlin, autore del Monumento alla Terza Internazionale, Frank Lloyd Wright, che nel 1959 disegnò un grattacielo alto 1600 metri sopra Chicago, e Jean Nouvel che nel 1992 pensò ad una torre “senza fine” alta 425 metri e con la cima di vetro che svanisce confondendosi nell’aria. Ma l’elenco potrebbe essere più lungo, e Wilkinson ne coglie l’occasione per raccontarci le più superbe invenzioni, tali sono rimaste, di Adolf Loos e Ludwig Mies van der Rohe.

La grandiosità esasperata non può essere soltanto un cedimento alla megalomania, quanto un impulso a mettere alla prova le opportunità della scienza e della tecnica. In un mondo sempre più popoloso e sempre più caotico, diventa poi necessario escogitare soluzioni abitative (laddove questo termine in architettura assume un senso esteso) inusitate a rischio di apparire stravaganti. Ne sapevano certamente qualcosa El Lissitzzky, Peter Eisemann o Kenzo Tange che in Russia, in America e in Giappone hanno cercato di immaginare come vivere la città nei secoli a venire.  

Fig. 8 A sinistra: Kenzo Tange, Progetto per la baia di Tokyo, 1960. A destra: Peter Eisemann e Michael Graves, Jersey Corridor, 1965.

Sono davvero molti temi che animano l’excursus tracciato da Wilkinson, e le possibilità d’interpretazione sarebbero troppe anche per una sola pubblicazione. Per quanto non sia frutto di uno specialista, il volume, forte anche di una confacente bibliografia, e di un apparato iconografico piacevole da osservare e di un’impaginazione accattivante si presta alla consultazione e si dimostra un interessante strumento divulgativo, tale da non volersi rivolgere unicamente ad un pubblico di architetti.

Niccolò Iacometti

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