Le Signore dell’Arte. Storie di donne tra ‘500 e ‘600: una lettura e una panoramica

A Milano, fino al 25 luglio 2021, nelle sale del piano nobile di Palazzo Reale è in scena la bella mostra Le Signore dell’Arte. Storie di donne tra ‘500 e ‘600, curata da Anna Maria Bava, Gioia Mori e Alain Tapié. Il catalogo che accompagna l’esposizione è edito da Skira ed è acquistabile presso il bookshop della mostra al prezzo di 34 euro. L’esposizione raccoglie oltre centotrenta opere di trentaquattro artiste vissute tra il 1500 e il 1600. Ogni sezione della mostra corrisponde circa a una sorta di affondo monografico su una specifica figura, dove vengono esposte le opere più rappresentative del percorso artistico di queste pittrici. Fino a questo momento, a Milano, non si era vista una rassegna così omogenea che presentasse in una sola volta una panoramica della pittura del Cinque e Seicento tutta dal punto di vista femminile.

Fig. 1. Sofonisba Anguissola, Madonna dell’Itria, 1578-1579, Paternò (Catania), parrocchia Santa Maria dell’Alto, chiesa dell’ex monastero della Santissima Annunziata

Poco dopo aver passato l’ingresso della mostra, e aver superato il video di presentazione dell’esposizione, ci si trova davanti alla tavola di Sofonisba Anguissola che idealmente introduce lo spettatore nel modo della pittura femminile del Cinquecento. Si tratta della pala, fresca di restauro (2020-2021), raffigurante la Madonna dell’Itria, databile al 1578-1579 e proveniente dalla chiesa parrocchiale di Santa Maria dell’Alto (già chiesa dell’ex monastero della Santissima Annunziata) di Paternò nei pressi di Catania. A guidare il visitatore nelle varie sezioni dell’esposizione ci sono, nelle carte di sala e nelle didascalie alle varie opere puntali e precise, riferimenti ai primi critici che si sono occupati di segnalare la presenza di queste artiste donne sulla scena artistica del tempo; primo fra tutti Giorgio Vasari. Nella prima edizione delle Vite (1550), Vasari dedica una sola biografia ad una pittrice donna: si tratta della scultrice bolognese Properzia De Rossi, che aveva lavorato nel cantiere tutto maschile di San Petronio, difendendo fino allo stremo la sua attività. Nella seconda edizione delle Vite risalente al 1568, Vasari cita molte più artiste tra cui la cremonese Sofonisba Anguissola protagonista della prima sezione della mostra, celebrata in un famoso ritratto di Antoon Van Dyck del 1625 che la ritrae sul letto di morte, tela presente in mostra. Sofonisba faceva parte di un trio di sorelle tutte pittrici di cui oltre a lei c’erano Lucia ed Europa, di cui, sicuramente, Sofonisba era la più dotata artisticamente. Infatti quest’ultima riuscirà a raggiungere anche il prestigio internazionale lavorando presso la corte di Madrid in Spagna. Se le due sorelle sono presenti in mostra con due tele dalla qualità piuttosto modesta, ossia l’Autoritratto di Lucia Anguissola (1557) e il Ritratto di Livia de Zanchi di Europa, le opere di Sofonisba sono di gran lunga quelle più interessanti. Basti pensare al penetrante Ritratto di canonico lateranense del 1556 proveniente dalla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia o alla bellissima tela raffigurante la Partita a scacchi (1555) proveniente dal museo di Poznan in Polonia. Qui i colori e la raffinatezza delle stoffe di cui sono vestite le protagoniste del dipinto sono resi con dovizia di particolari e lasciano all’occhio il compito di soffermarsi su ognuno di questi particolari che rapiscono il visitatore.

Fig. 2. Sofonisba Anguissola, Partita a scacchi, 1555, Poznan (Polonia), Poznan Muzeum

Un’altra pittrice che si incontra subito dopo la sezione dedicata a Sofonisba è Lucrezia Quistelli, pittrice fiorentina nata nel 1541, allieva del grande Alessandro Allori e moglie del conte Clemente Pietra, della quale si conosce una sola opera che è presente in mostra; si tratta del Matrimonio mistico di Santa Caterina d’Alessandria del 1576 conservato a Silvano Pietra (Pavia) nella chiesa parrocchiale di Santa Maria e San Pietro. La figura della Madonna mi ricorda i valori plastici e luminosissimi di un’opera di Artemisia Gentileschi della quale parleremo sotto. Nella stessa sezione si incontra la più famosa ricamatrice della seconda metà del Cinquecento, ossia la lombarda Caterina Cantoni (Milano, 1542 – Milano, 1601) moglie di un nobile milanese apprezzata da diverse corti europee, che in mostra è presente con un raffinatissimo ricamo raffigurante le Divinità planetarie, emblemi e scene religiose (1590 circa). La particolare tecnica di ricamo messa a punto dall’artista farà sì che la sua abilità venga ancora oggi chiamata tecnica del “punto alla cantona”. Molto più avanti nel percorso della mostra (la citiamo qui perché legata al ricamo come la sua “collega” Caterina Cantoni) è presente all’esposizione la figura di Antonia Pellegrini (Milano, 1583 – Milano, dopo il 1635), altra artista milanese il cui nome è legato soprattutto ai ricami eseguiti per la canonizzazione di San Carlo Borromeo. In mostra è presente infatti un suo ricamo di cappuccio di piviale con l’Incoronazione della Vergine (1609-1610 circa), il cui cartone preparatorio per l’esecuzione del panno le è stato fornito da Giovan Battista Crespi detto il Cerano. Di fronte al ricamo della Catoni e a lato della tela della Quistelli si trova una tela di Claudia del Bufalo (attiva a Roma tra la fine del XVI secolo e gli inizi del XVII secolo) appartenente ad una nobile famiglia romana del Seicento raffigurante il Ritratto di Faustina del Bufalo (1604, Roma Collezione Dario del Bufalo). Il dipinto, dai tratti aggraziati, fa sfoggio di una particolare attenzione nei confronti delle stoffe e dei ricami di cui è vestita la giovane effigiata.

Fig. 3. Caterina Cantoni, Telo ricamato con Divinità planetarie, emblemi e scene religiose, 1590 circa, Galleria Moshe Tabibnia

Nelle sue Vite, ed eccoci arrivati ad un’altra sezione della mostra, Vasari cita due monache artiste: la suora carmelitana Antonia Doni morta nel 1491, figlia di Paolo Uccello e la suora domenicana Plautilla Nelli, formatasi sui disegni di Fra Bartolomeo, che intorno al 1568 era priora del monastero di Santa Caterina da Siena a Firenze. In mostra si trova un bel dipinto di Plautilla che raffigura Santa Caterina da Siena come Caterina de’ Ricci (1560-1580 circa). Il dipinto è pervaso da un’aura squisitamente spirituale, la santa è raccolta nella preghiera e nella meditazione sopra il crocifisso. A queste due artiste poc’anzi citate, va aggiunta la ben più conosciuta, almeno per questi territori, Orsola Maddalena Caccia, istruita all’arte della pittura dal padre Guglielmo Caccia detto il Moncalvo, il quale aveva lavorato a Torino insieme ad Alessandro Zuccari per la decorazione della Grande Galleria di Carlo Emanuele I e a Milano con gli artisti del potente cardinale Federico Borromeo. Dell’impresa torinese non rimane più alcuna traccia, se non in alcuni disegni e nel Parnaso di Palazzo Tizzoni a Vercelli, fatica del solo Moncalvo. Questi fece monacare la figlia, al secolo Theodora Caccia, nel 1620 all’età di ventiquattro anni presso il convento delle orsoline di Bianzè, e nel 1625 lo stesso Moncalvo istituì appositamente per la figlia e altre sue compagne pittrici, il monastero “domestico” di Moncalvo presso Asti. Qui Orsola divenne ben presto badessa, carica che ricoprì dal 1627 al 1652. Continuò la sua attività di pittrice almeno fino al 1670 facendo di quel cenacolo di orsoline un centro di spiritualità e fervore artistico. Si spense a Moncalvo nel 1676.

Fig. 4. Orsola Maddalena Caccia, Sibille (dall’alto, da sinistra a destra: Sibilla Cumana, Sibilla Delfica, Sibilla Ellespontica, Sibilla Libica, Sibilla Persica, Sibilla Tiburtina), 1640-1650 circa, Asti, collezione Fondazione Cassa di Risparmio di Asti

In mostra sono presenti diverse opere di Orsola Maddalena tra cui si deve citare almeno il magnifico gruppo di sei Sibille eseguite tra il 1640 e il 1650 oggi conservate presso la collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Asti; la monumentale e straordinaria pala eseguita per la chiesa di Sant’Antonio da Padova a Moncalvo, raffigurante la Natività di San Giovanni Battista (1630-1640) e le tre belle tele, la prima raffigurante l’Allegoria mistica del 1635 circa, la seconda databile al 1620-1630 con Santa Cecilia che suona un organo positivo e angeli musicanti proveniente dai Musei Reali di Torino, e l’ultima con Santa Margherita d’Antiochia (1640-1650 circa) proveniente dal Santuario della Beata Vergine delle Grazie a Curtatone nei pressi di Mantova.

Fig. 5. Orsola Maddalena Caccia, Natività di San Giovanni Battista, 1630-1640 circa, Moncalvo (Asti), parrocchia di Sant’Antonio da Padova – Diocesi di Casale Monferrato (Alessandria)

Proseguendo nella visita alla mostra, si incontra la seziona dedicata a Lavina Fontana, la quale nacque a Bologna nel 1552, e ben presto si dedicò all’arte della pittura introdotta in questo mondo dal padre Prospero Fontana di cui Lavinia sfruttò appieno la fama e gli influenti contatti riuscendo a superarlo per fama e qualità artistica. Celebri sono i suoi Autoritratti alla spinetta, come quelli, presenti in mostra della collezione Mario Scaglia e quello dell’Accademia Nazionale di San Luca a Roma, rispettivamente del 1595 e del 1577. Ma il capolavoro di Lavinia che si può ammirare a questa esposizione è sicuramente la grande e bellissima Pala Gnetti raffigurante la Consacrazione della Vergine tra i Santi Elena, Agnese, Donnino e Pier Crisologo del 1599 oggi conservata a Marsiglia presso il Museé des Beaux arts, ma un tempo nella chiesa bolognese di Santa Maria dei Servi. Un altro dipinto, di tutt’altre dimensioni rispetto alla Pala Gnetti, ma che ha suscitato in me grande ammirazione, è la tela con Galatea e amorini cavalcano onde della tempesta su un mostro marino (1590 circa). Se si osserva, appunto, il grande mostro marino e ci si sofferma sulla parte finale della grande coda della bestia che sembra formare un grande “occhio da ciclope”, non si farà fatica a cogliere un’eco ante litteram dei mostri fantastici che animano i disegni e le opere dell’artista visionario Odilon Redon.

Fig. 6. Lavinia Fontana, Pala Gnetti, anche detta Consacrazione della Vergine tra i Santi Elena, Agnese, Donnino e Pier Crisologo, 1599, Marsiglia, Museé des Beaux Arts

Nella stessa sezione dedicata a Lavinia Fontana si trovano anche alcune tele di Barbara Longhi pittrice ravennate figlia di Luca Longhi ricordata dal Vasari per la sua grazia; nacque nello stesso anno di Lavina anche se la sua fama come pittrice non superò mai i confini ravennati. La sua è una pittura di natura prettamente domestica caratterizzata da una produzione gradevole ma per lo più seriale, destinata alla locale committenza privata. Di una certa qualità è la tela, presente in mostra, raffigurante una Santa Caterina d’Alessandria del 1580 circa, oggi conservata presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna.

Fig. 7. Lavinia Fontana, Galatea a amorini che cavalcano onde della tempesta su un mostro marino, 1590 circa, Collezione privata

Poco più avanti eccoci alla sezione dedicata a Elisabetta Sirani pittrice nata a Bologna nel 1638 e scomparsa prematuramente a soli ventisette anni, che in dieci anni di attività superò di gran lunga il padre, il pittore Giovan Andrea Sirani, principale allievo di Gudo Reni, il quale fu anche il maestro della pittrice, anch’essa bolognese, Ginevra Cantofoli, e anch’essa presente in mostra con una serie di tele raffiguranti verosimilmente delle graziosissime Sibille provenienti da diverse istituzioni museali italiane. Tornando per un momento ancora alla sezione dedicata a Elisabetta Sirani, le opere presenti in questo tratto di esposizione sono veramente eccezionali: dalla splendida Sacra Famiglia con Sant’Anna, San Giovannino e un angelo (1660) proveniente dal Museo Borgogna di Vercelli, alle sensualissime due versioni con Venere e Amore, la prima del 1645 conservata presso la Collezione d’arte e storia della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna e la seconda, forse ancora più bella della prima, del 1664 di collezione privata (immagine di copertina).

Fig. 8. Elisabetta Sirani, Sacra Famiglia con sant’Anna, san Giovannino e un angelo, 1660, Vercelli, Fondazione Museo Francesco Borgogna

In area veneta (e quasi senza accorgersene si è entrati in un’altra sezione della mostra) ben presto famoso divenne il rapporto che legò Tintoretto alla figlia Marietta Robusti detta la Tintoretta, straordinaria ritrattista, cresciuta all’ombra del padre e in una bottega piena zeppa di uomini, morta giovanissima, le cui opere spesso e volentieri sono passate sotto la firma di Tintoretto. Due sono i ritratti che della pittrice si mostrano in questa esposizione: l’Autoritratto di Marietta Robusti detta la Tintoretta (ante 1590) e un secondo raffinatissimo Autoritratto con madrigale del 1580 circa. In questa sezione c’è anche la pittrice Chiara Varotari sorella del ben più noto Alessandro detto il Padovanino, con opere a mio avviso più che mediocri.

Fig. 9. Fede Galizia, Giuditta e Oloferne, 1601, Roma, Galleria Borghese

Senz’altro un’altra delle sezioni più riuscite dell’esposizione è quella dedicata alla pittrice Fede Galizia, nata verosimilmente a Milano introno al 1574, e figlia del miniaturista trentino Nunzio Galizia. Ritengo che in questa mostra si può ammirare una delle versioni più riuscite di Giuditta e Oloferne (1601), quella cioè proveniente dalla Galleria Borghese a Roma. I tratti stilistici di questa magnifica tela richiamano alla memoria echi leonardeschi mediati forse dalla lezione di Bernardino Luini, ravvisabili in particolar modo nella testa caricata della fantesca in secondo piano e nella testa mozzata del generale Oloferne. Straordinario è poi il modo della pittrice di affrontare con squisita perizia l’esecuzione delle stoffe e dei gioielli che agghindano la giovane Giuditta. Qui meritano una menzione anche la grande tela con San Carlo in abito penitenziale con la croce e il Sacro Chiodo (1615 circa, Milano, Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano), tela influenzata dalla lezione del Cerano, e le tre delicatissime e naturalistiche Nature morte di cui Fede divenne ben presto una specialista.

Fig. 10. Fede Galizia, San Carlo Borromeo in abito penitenziale con la croce e il Sacro Chiodo, 1615 circa, Milano, Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano

Passata la sezione dedicata a Fede Galizia si incontra un’opera della pittrice palermitana Rosalia Novelli, figlia del ben più famoso pittore siciliano Pietro Novelli. Di Rosalia in mostra è presente una grande tela molto sofferente rappresentante la Madonna Immacolata e San Francesco Borgia dipinta nel 1663 per la chiesa del Gesù di Casa Professa a Palermo, affiancata ad un altrettanto ammalorata tela del padre Pietro raffigurante lo Sposalizio della Vergine (1647) conservata presso la chiesa di San Matteo al Cassano. Le due tele sono qui esposte affiancate per sottolinearne il comune imprinting pittorico, nonché stilistico.

Fig. 11. Rosalia Novelli, Madonna Immacolata e san Francesco Borgia, 1663, Palermo, chiesa del Gesù di Casa Professa

Poco oltre si incrocia il caso del tutto singolare, nella seconda metà del Seicento, delle tre artiste milanesi figlie del pittore borgognone Vincent Voulot italianizzato in Vincenzo Volò, specializzate nel genere della natura morta: si tratta di Margherita (la più famosa), Francesca Vicenzina e Giovanna Vicenzina. Questa sezione è ricca di tele, a dire il vero di qualità non eccelsa, dove a farla da padrone sono grandi tele con nature morte di fiori.

Fig. 12 Giovanna Garzoni, Canina con biscotti e una tazza cinese, 1648, Firenze, Galleria degli Uffizi

Una delle ultime sezioni della mostra è dedicata al ruolo delle Accademie del disegno nel XVII secolo. Diverse sono infatti, ad esempio, le finalità dell’Accademia delle Arti del disegno fondata nel 1563 da Giorgio Vasari con l’approvazione di Cosimo I de’Medici, nata dall’intento di vedere riconosciuta l’eccellenza degli artisti e di assicurare la trasmissione del loro sapere attraverso l’insegnamento. Tra le prime artiste ad essere ammesse a questa prestigiosa istituzione vi fu, nel 1616, Artemisia Gentileschi di cui parleremo a breve. A Roma nel 1577 nacque invece su iniziativa del pittore Girolamo Muziano, la prestigiosa Accademia delle Arti della Pittura, della Scultura e del Disegno; questa confluirà poi nell’Accademia di San Luca fondata da Federico Zuccari nel 1593 con gli stessi intenti dell’accademia vasariana. Nel 1607 fu modificato lo statuto che permise così alle donne di accedervi. Negli elenchi delle pittrici ammesse si annoverano artiste del calibro di Lavinia Fontana, Elisabetta Sirani, Virginia Vezzi e Giovanna Garzoni che avrà con la corte sabauda di Torino uno stretto rapporto. Di quest’ultima in mostra sono presenti le sue formidabili tempere su pergamena raffiguranti per lo più Nature morte con ortaggi, frutti e vasi di fiori. Simpaticissima è poi la piccola tela della Canina con biscotti e una tazza cinese (1648) proveniente dalla Galleria degli Uffizi di Firenze, forse tra le sue opere più famose. Della Garzoni sono presenti in mostra, a testimoniare il rapporto con la corta sabauda, anche due ritratti rispettivamente di Emanuele Filiberto di Savoia del 1632-1637 circa e di Carlo Emanuele I di Savoia eseguito negli stessi anni del primo ed entrambi conservati ai Musei Reali di Torino. La Garzoni divenne ben presto una pittrice assai famosa, tanto da essere celebrata in un bel ritratto dipinto da Carlo Maratta (presente in mostra), proveniente dalla Pinacoteca di Ascoli Piceno e datato al 1665 circa.

Fig. 13. Giovanna Garzoni, Natura morta di zucche, 1650 circa, Collezione privata

Chiude la mostra un’intera sezione dedicata ad Artemisia Gentileschi, pittrice nata a Roma nel 1593, figlia del celeberrimo Orazio Lomi Gentileschi, celebrata dal biografo fiorentino Filippo Baldinucci nelle sue Notizie del disegno da Cimabue in qua, massiccia opera pubblicata nel 1681, il quale attribuisce ad Artemisia un primato assoluto su tutte le altre artiste, definendola la più abile di tutte. Le sue vicissitudini biografiche si mescolano con la leggenda e il romanzo. Stuprata dal pittore quadraturista Agostino Tassi, costretta a subire un lungo e umiliante processo dal quale ne esce vittoriosa, Artemisia condurrà una vita tortuosa; infelicemente sposata con Pierantonio Stiattesi ben presto si avvicina affettivamente all’aristocratico fiorentino Francesco Maringhi a cui fu legata per gran parte della sua vita pur rimanendo sposata con Stiattesi. Frequentò tutti i circoli culturali e pittorici più all’avanguardia del suo tempo: da Firenze a Venezia, da Napoli a Londra come aiutante ed erede del padre ormai anziano. Concluderà la sua vita alla corte di Napoli dove installerà una fiorente bottega e dove morirà dopo l’agosto del 1654.

Fig. 14. Artemisia Gentileschi, Madonna del latte, 1617-1620 circa, Collezione privata

In mostra ci sono quattro sue tele: la commuovente Madonna del latte (un’attribuzione datata al 1617-1620 proveniente da una collezione privata) affiancata alla magnifica Santa Cecilia che suona la spinetta del padre Orazio (1615-1620, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria); Il Suicidio di Cleopatra (1620 circa) della Fondazione Cavallini-Sgarbi; La Maddalena in meditazione (1630-1631 circa) del Museo Correale di Terranova e infine il David con la testa di Golia (1630-1631) di collezione privata. L’ultima opera, una quinta tela di Artemisia congeda il visitatore: si tratta della martoriata Maria Maddalena conservata presso la Sursock Palace Collection di Beirut e danneggiata pesantemente in seguito all’esplosione del porto della stessa città avvenuto lo scorso 4 agosto del 2020. Non appena sarà conclusa la mostra, la tela affronterà un delicato intervento di restauro che la dovrebbe riportare ad uno stato conservativo decisamente migliore rispetto a quello in cui si trova ora.

Fig. 15. Artemisia Gentileschi, Maria Maddalena, 1630-1631, Beirut, Sursock Palace Collection

Dopo questa intensa panoramica sulla pittura femminile tra il 1500 e il 1600, il visitatore è un tantino stanco ma contento di uscire dall’esposizione consapevole di aver fatto un viaggio immerso nella cultura e nella bellezza; e soprattutto deve ritenersi fortunato, poiché oltre ad aver visto cose belle, ha anche imparato qualcosa che prima non conosceva e dopo tutto questo è lo scopo che ogni buona mostra dovrebbe prefissarsi.                                               

Marco Audisio

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