C’è tempo fino al 24 ottobre prossimo per poter visitare la bella mostra, in scena all’interno delle Sale Viscontee del Castello Sforzesco di Milano, dal titolo Il Corpo e l’Anima, da Donatello a Michelangelo. Scultura italiana del Rinascimento curata da Marc Bormand (conservatore del dipartimento di sculture del museo del Louvre di Parigi), Beatrice Paolozzi Strozzi (già direttrice del Museo del Bargello di Firenze) e Francesca Tasso (conservatrice responsabile delle Raccolte Artistiche del Castello Sforzesco di Milano). Fa da corredo all’esposizione il voluminoso catalogo edito da Officina Libraria al costo di 45 euro, acquistabile al bookshop del museo della Pietà Rondinini purtroppo senza alcuna riduzione.

L’esposizione che ha già fatto tappa a Parigi, al museo del Louvre, viene riproposta anche a Milano con qualche piccola variazione sul tema, mutila tuttavia di diversi pezzi interessanti (comunque schedati in catalogo) e soprattutto senza due pezzi da novanta come gli Schiavi che Michelangelo realizzò per la tomba di Papa Giulio II. La mostra è idealmente suddivisa in quattro macro sezioni all’interno delle quali le opere dialogano tra loro; le sezioni sono: Guardando gli antichi: il furore e la grazia; L’arte sacra, per commuovere e convincere; Da Dioniso ad Apollo: lo “stile dolce” di fine secolo; Roma Caput Mundi.

Nella prima sezione della mostra Guardando gli antichi: il furore e la grazia, il dialogo tra la scultura classica, soprattutto di epoca romana, e quella del Rinascimento è ben riuscito. Il centro focale attorno a cui ruotano le opere è Firenze. Ecco quindi che accanto al bellissimo Fronte di Sarcofago con Achille e Pentesilea (II-III secolo d.C.) si trova la lastra di bronzo dello scultore fiorentino Bertoldo di Giovanni raffigurante la Battaglia fra Romani e barbari (1475-1480). La ricerca e la riscoperta dell’antichità classica e del nudo eroico è uno dei motivi ricorrenti nelle opere di Antonio del Pollaiolo che in mostra è presente con un disegno rappresentante una Battaglia di dieci nudi (1460-1474 circa) e con il famosissimo bronzetto con Ercole e Anteo (1475-1480 circa) del Museo del Bargello. Le ricerche figurative sull’antichità classica sono il fulcro portante anche di un altro importantissimo artista quale è Andrea Mantegna che, con i suoi disegni, come ad esempio la Zuffa di Divinità marine (ante 1481) dimostra di dialogare non solo con le opere antiche ma anche e soprattutto con i suoi colleghi fiorentini, primo fra tutti Antonio del Pollaiolo. Il nudo e quindi il corpo umano e l’interesse per l’anatomia sono al centro anche del lavoro di Adrea del Verrocchio, presente in mostra, tra le altre opere, con un eccellente bronzetto raffigurante un Nudo Maschile detto il Pugilatore (1475 circa). Al più eccellente degli allievi di Verrocchio, Leonardo Da Vinci, spetta molto verosimilmente un piccolo quanto prezioso bronzetto raffigurante un Cavaliere su destriero impennato (inizio del XVI secolo) che dialoga perfettamente con due magnifiche sculture in terra cotta di Gianfrancesco Rustici raffiguranti una Zuffa di cavalli e cavalieri (1505-1510 circa) memori della straordinaria quanto perduta Battaglia di Anghiari di Leonardo. Dinamismo e furore dei corpi sono il fulcro centrale delle ricerche di questi artisti.

A queste ricerche figurative che prendono in considerazione forme maschili in atti dinamici, a volte anche violenti (basti pensare allo straordinario disegno di Michelangelo esposto in mostra raffigurante un Giovane nudo stante, visto da tergo), si affianca all’interno di questa grande macro sezione anche un altro tipo di ricerca figurativa che prende le mosse sempre dalla scultura classica, ma che si sofferma sulla ricerca di grazia e raffinatezza. Ecco allora che accanto ad un magnifico Rilievo romano detto delle Sacrificanti Borghese si trova una raffinatissima lastra di marmo di Agostino di Duccio con Santa Brigida di Svezia che riceve la regola del suo ordine o gli Angeli, parte del Monumento sepolcrale di papa Paolo II, eseguiti da Mino da Fiesole e Giovanni Dalmata insieme alla bottega. Le ricerche figurative di Mino da Fiesole e di Giovanni Dalmata si esplicitano anche in altre opere sempre presenti in mostra come la bella Allegoria della Carità cristiana per il primo e lo splendido basso rilievo in marmo con la Madonna con il Bambino per il secondo. Il mondo delle figure aggraziate è insito anche nella scultura di Verrocchio, già incontrato poc’anzi, che ora si presenta con due splendide formelle in terracotta raffiguranti per l’appunto una coppia di Angeli in volo, dalle forme sinuose e decisamente raffinate, molto probabilmente bozzetti per il Monumento funebre del Cardinale Forteguerri (1473-1493 circa, per l’esecuzione), conservato nella chiesa di San Zeno a Pistoia. Tale grazia e raffinatezza che sembra in un primo momento avere il suo fulcro in Firenze si sposta via via e si dirama in altri centri dell’Italia settentrionale, in particolare in Lombardia e per la precisione a Milano. Qui l’attività di Giovanni Antonio Amadeo e quella di Giovanni Antonio Piatti sembrano monopolizzare le ricerche figurative almeno per i primi decenni del Cinquecento. In questa parte della mostra sono esposti Due angeli reggivelario di Amadeo provenienti da Bergamo (più in particolare dalla Cappella Colleoni), e la lastra in marmo di Giovanni Antonio Piatti con Le tre Virtù teologali (Carità, Speranza e Fede); in cui si nota un ben più che velato riferimento alla coeva influenza della pittura ferrarese, specie per quelle asprezze nei panneggi, e forse anche del Bramantino. La figura femminile è al centro di opere che dimostrano di meditare anche in questo caso su modelli antichi illustri, come ad esempio sulla scultura di età romana con Le tre Grazie; vicino a questo gruppo statuario antico si dispongono tutta una serie di opere che meditano sulla sinuosità del corpo femminile. Ecco allora La musa Clio di Giovanni Santi, accompagnata anche dal suo bozzetto preparatorio, che dialoga con la Venere di Adriano Fiorentino e con il bel rilievo attribuito ad Antonio Minello raffigurante una Baccante in delirio forse da interpretare come Cassandra.

La seconda macro sezione della mostra L’arte sacra, per commuovere e convincere, ci introduce al mondo del pathos della scultura di uno fra i più importanti scultori del Rinascimento di tutti i tempi, vale a dire Donatello. Ho trovato questa grande sezione la più intensa e anche la più riuscita soprattutto per l’elevata qualità delle opere presentate. Una delle sculture che apre la sezione è la magnifica lastra di bronzo dorato raffigurante la Crocifissione (1450-1455 circa) opera sublime di Donatello. Qui sembra che tutte le figure partecipino con inteso dolore all’atto drammatico della morte di Cristo. Questa intensa drammaticità si ritrova in un altro capolavoro donatelliano esposto in mostra e cioè nel Compianto sul Cristo Morto (1455-1460 circa) del Victoria and Albert Museum di Londra. Certamente questa intensa riflessione sul dolore è frutto dell’esperienza che Donatello ebbe modo di maturare a Padova quando eseguì le formelle e le sculture per l’altare del Santo all’interno della chiesa di Sant’Antonio. In mostra sono presenti alcuni rilievi che richiamano una delle formelle meglio riuscite di Donatello proprio per l’altare del Santo a Padova e cioè quella con la Deposizione nel sepolcro di Cristo. Parallelamente alle ricerche donatelliane fioriscono anche quelle di altri numerosi scultori, come ad esempio Bertoldo di Giovanni che nella sua Crocifissione (1475-1480 circa) dimostra forse qualche riflessione sulle forme donatelliane, ma che certamente per il suo rilievo ha guardato all’arte del Pollaiolo e anche a quella di Botticelli. Lì accanto si trova una splendida lastra di bronzo raffigurante la Flagellazione di Cristo del senese Francesco di Giorgio Martini, il quale in questo capolavoro ha preso a prestito sia la tecnica dello stiacciato donatelliano sia l’abilità di orafo di Lorenzo Ghiberti che lo scultore ha impiegato nella seconda porta del Battistero di Firenze.

Forme di pathos si incontrano anche in opere come quella dello scultore padovano Bartolomeo Bellano che in mostra è presente con un commuovente quanto mal conservato Compianto sul corpo di Cristo in terracotta policroma (1480-1490 circa). Il tema della Pietà o del Compianto sul corpo di Cristo sono al centro delle ricerche figurative e scultoree di alcune importanti personalità presenti in mostra. All’esposizione si può infatti ammirare un Compianto sul Cristo morto attribuibile ad Antonio Mantegazza, e sempre per rimanere in ambito lombardo sempre in mostra si possono osservare due rilievi in marmo con la Flagellazione di Cristo e la Salita al Calvario (1481-1485 circa). Tutti e tre le opere appena menzionate rientrano nel filone della scultura lombarda di fine Quattrocento e inizio Cinquecento dove oltre alla ricerca di pathos, lo stile era quello già impostato in Lombardia dalla lezione di Amadeo e Piatti e infarcito da un espressionismo quasi grottesco di matrice ferrarese.

Nei luoghi, se vogliamo più periferici rispetto al capoluogo lombardo, si afferma un tipo di ricerca sentimentalista diversa, ricca di pathos ma se vogliamo più controllato, a cominciare dal materiale utilizzato per eseguire le sculture. Né è un esempio il bassorilievo ligneo e policromo con la Deposizione di Cristo nel sepolcro del Maestro di Trognano già identificato con lo scultore milanese Giacomo del Maino. L’opera proviene insieme ad altre tre, sempre riguardanti temi cristologici, dalla chiesa di Santa Maria del Monte presso Velate di Varese; di recente si è proposto di identificare il pittore della policromia con l’artista trevigliese Bernardino Butinone. Poco distante dalla Deposizione di Del Maino si incontra l’opera forse più bella di tutta la mostra, vale a dire un eccezionale Compianto sul corpo di Cristo realizzato fra 1493 e 1494 per la chiesa di Santa Marta a Bellano dai due fratelli legnamari Giacomo e Giovanni Angelo del Maino con la collaborazione del pittore pavese Andrea Clerici per la policromia delle sculture. Si tratta di un gruppo di statue lignee ad altezza naturale composto da otto pezzi di straordinaria bellezza. Questi gruppi, molto diffusi alla fine del Quattrocento dovevano coinvolgere lo spettatore, in questo caso il fedele, nel dolore che gli astanti provavano per la morte di Cristo. Queste statue trasmettono un senso del dolore raccolto eppure esplicito.

Questo tipo di produzione risente quasi certamente di influenze d’oltralpe; ne è un esempio anche il gruppo di sculture lignee policrome rappresentante la Crocifissione di Cristo del Duomo di Como. In mostra sono presenti due sculture di quel complesso, cioè Santa Maria Maddalena e San Giovanni Evangelista realizzate da Giovanni Angelo del Maino. Anche in questo caso il dolore della Maddalena e di San Giovanni pur nella loro esplicitazione è in un certo senso raccolto, interiorizzato. Molto diversi sono i risultati in altri centri di produzione; basti pensare all’incredibile Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca nella chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna o a quello in gran parte mutilo ma altrettanto eloquente di Guido Mazzoni dei Musei Civici di Padova, la cui Maddalena è presente alla mostra di cui ci stiamo occupando. Qui il pathos è molto più esplicito e palpabile rispetto alle sculture lombarde che abbiamo appena analizzato; qui la lezione è quella ancora una volta della scuola ferrarese.

Lasciata alle spalle la seconda macro sezione ecco che subito inizia la terza Da Dioniso ad Apollo: lo “stile dolce” di fine secolo. A cavallo fra Quattrocento e Cinquecento la riflessione sull’antichità si muove tra i due estremi dell’apollineo e del dionisiaco: la scultura ricerca una nuova armonia che trascende il naturalismo dei gesti e dei sentimenti estremi. Una ricerca di bellezza espressiva evidente in Toscana con il bellissimo San Sebastiano di Benedetto da Maiano (1489-1491 circa), lo Spinario di Jacopo Sansovino, reinterpretazione della ben più famosa statua classica; il San Sebastiano ligneo, intagliato e dipinto di Baccio da Montelupo, il dolente quanto pacato Cristo in pietà (1495 circa) e la magnifica Santa Maria Maddalena penitente (1495-1505 circa) di Andrea della Robbia e il San Sebastiano realizzato con l’aiuto di Luca della Robbia il giovane; tutte queste opere sono eseguite con la tecnica della ceramica invetriata. In Veneto e Lombardia la riflessione è la medesima, ma cambiano i protagonisti e il loro modo di vedere due rovesci della stessa medaglia. Ecco allora il giovane virgulto che pare essere un San Giorgio o San Teodoro e il Giovane nudo che pare essere Antinoo, il giovane pupillo di Adriano, entrambi in algido marmo bianco di Tullio Lombardo o ancora la Venere Anadiomene del fratello maggiore Antonio Lombardo; i raffinatissimi Mercurio e Venere bronzei di Pier Jacopo Alari Boncalosi detto l’Antico. In queste sculture la classicità e per estensione la visione apollinea e dionisiaca appaiono reinterpretate con perizia, ma alla luce di uno spirito nuovo quello del Rinascimento.

L’ultimo capitolo della mostra si intitola Roma caput mundi, dove l’opera di Michelangelo Buonarroti, dal giovanile Cupido (1497) alla Pietà Rondinini (1552-1553 con riprese fino al 1564) è la sintesi perfettamente compiuta tra scienza, arte e natura, l’ideale di bellezza assoluta. Ma prima di arrivare alla Pietà Rondanini il visitatore passa in mezzo ad alcune tra le stature e gli artisti più sensazionali dei primi decenni del XVI secolo. La sezione si apre con una serie di bozzetti in bronzo che meditano sulla scultura del Laocoonte rinvenuta il 14 gennaio del 1506 scavando in una vigna sul colle Oppio di proprietà di Felice de Fredis, nelle vicinanze della Domus Aurea di Nerone, fra cui quello sensazionale di Jacopo Sansovino conservato al Bargello. Lì accanto stanno pezzi di assoluta eccellenza fra cui la Donna angosciata eseguita da un artista prossimo a Cristoforo Solari (1510-1515, Victoria and Albert Museum), o il Mercurio che suona il flauto di Baccio Bandinelli (1512 circa), fino agli straordinari pezzi in marmo dalla smembrata tomba di Gastone de Foix di Agostino Busti detto il Bambaia, il più grande scultore lombardo del Rinascimento. Accanto alle Quattro lesene del monumento funebre di Gastone de Foix che arrivano dai Musei Civici di Palazzo Madama a Torino si trovano due bellissimi e classicissimi Busti di Apostoli dello stesso artista già nelle raccolte del Castello Sforzesco di Milano. Chiude la mostra milanese il monumentale Cristo alla Colonna di Cristoforo Solari detto il Gobbo, parte di un ben più grande complesso concepito dal Solari per l’altare di San Giovanni Damasceno nel Duomo di Milano. Questa imponente figura maschile, memore delle impressioni suscitate sull’artista dalla vista del gruppo del Laocoonte a Roma, a metà strada fra una scultura pagana classica e una scultura religiosa rinascimentale, è forse il punto d’incontro e quindi la vera ragion d’essere di tutta l’esposizione. È proprio per la grande fama che Solari aveva a Roma che il giovane Michelangelo dovette apporre alla sua giovanile Pietà vaticana la firma sul brodo del manto che copre la Vergine, poiché coloro che andavano a vedere la scultura la attribuivano a uno dei più grandi scultori lombardi del Rinascimento cioè proprio a Cristoforo Solari.

Questa esposizione milanese merita senz’altro di essere vista, tuttavia i colori davvero troppo accesi con cui sono colorate le pareti delle Sale Viscontee rischiano di astrarre oltremodo il contesto entro cui le sculture esposte sono state concepite e nate, azzerando completamente il contesto originario e facendo fluttuare le sculture e più in generale le opere senza un prima e un dopo e di fatto appiattendo e forse banalizzando quello che è un complicatissimo tratto della nostra immensamente grande storia dell’arte della scultura italiana.
Marco Audisio
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