Il Museo Poldi Pezzoli di Milano vuole celebrare i cento anni dalla nascita del più grande conoscitore d’arte di tutti i tempi, Federico Zeri (Roma, 12 agosto 1921 – Mentana, 5 ottobre 1998), con una mostra aperta (si spera) fino al prossimo 7 marzo 2022. Si intitola Giorno per giorno nella pittura Federico Zeri e Milano in onore di una della più significative raccolte di scritti del grande studioso (edite da Allemandi in cinque preziosi volumi pubblicati fra il 1988 e il 1998), e per valorizzare il rapporto privilegiato che Zeri ebbe con la città di Milano, i cui rapporti con alcuni dei più importanti collezionisti nacquero a cominciare dagli anni 80 del XX secolo. L’esposizione conta ventotto opere tra tele e tavole ed è curata da Andrea Bacchi, direttore della Fondazione Zeri di Bologna, e Andrea Di Lorenzo già conservatore del Museo Poldi Pezzoli e ora direttore del Museo Ginori di Firenze. La mostra indaga e ricostruisce le complesse e variegate relazioni intessute negli anni dal grande conoscitore con le istituzioni, i musei e i collezionisti milanesi.

Come si legge nella cartella stampa della mostra: “l’allestimento, curato da Sistemamanifesto, con la supervisione dell’architetto Beppe Finessi, indaga la relazione fra lo spazio e la memoria, tema affine a Federico Zeri che aveva un’eccezionale memoria visiva. Il progetto vuole essere uno strumento per facilitare la memorizzazione delle opere in mostra e della loro disposizione, invitando il visitatore a ricalcare gli studi di Zeri. Le sale espositive del museo sono state divise in vani regolari, successivi e simmetrici, come suggerivano i trattati di retorica dell’antichità classica per strutturare dei ricordi in modo efficace; regole a cui sembra essersi ispirato anche Zeri per la disposizione della biblioteca e della fototeca nella sua Villa di Mentana. Questa enfilade permette una divisione dei dipinti in nuclei tematici”.

Zeri ebbe una predilezione per il Poldi Pezzoli, infatti, in più di una occasione ebbe modo di elogiarne l’ottima direzione e la buona sinergia di forze sia pubbliche che private messe in campo per la sua gestione, nonché di entrare direttamente in contatto con l’istituzione museale milanese. Un primo avvicinamento di Zeri al museo meneghino fu il catalogo dei dipinti edito da Electa nel 1982 curato da Mauro Natale (allievo di Zeri), ma con l’attentissimo vaglio critico e attributivo di Zeri in persona. Un secondo momento di grande importanza per Zeri, legato al Poldi Pezzoli, fu la mostra andata in scena nelle stesse sale dove oggi va in scena l’omaggio al grande storico dell’arte incentrata sulla sua raccolta privata di sculture. Si trattava infatti di una esposizione curata, anche in questo caso, da Mauro Natale sulla sua collezione di sculture oggi conservate ed esposte all’Accademia Carrara di Bergamo. In seguito Zeri ebbe modo di elogiare ulteriormente il museo milanese in un articolo uscito nell’agosto del 1993 sulla rivista della compagnia Alitalia, “Ulisse”. In questo contesto così particolare e del tutto fuori dai canonici canali legati alla storia dell’arte, Zeri grazie alla sua prosa straordinaria fece in modo di far conoscere l’istituzione meneghina ad un vastissimo pubblico di non addetti ai lavori. Ciò non fece altro che diffondere l’idea, tra l’altro già molto diffusa, della strabiliante dote di Zeri non solo come conoscitore di opere d’arte, ma anche come straordinario divulgatore. La parabola di Zeri e il suo rapporto con il Poldi Pezzoli si concluderà nel 1998 quando il grande studioso, per lascito testamentario, donerà alle collezioni del museo milanese ben due opere tra le più care che Zeri possedesse nella sua collezione privata e di cui diremo qualcosa più avanti nel corso della recensione.

La mostra in scena al Poldi Pezzoli, inutile dirlo, è un piccolo gioiello per opere esposte e per rigore scientifico; presenta infatti solo due piccole pecche che è giusto però segnalare immediatamente: la prima riguarda le didascalie delle ventotto opere esposte, le scritte e il font scelto infatti sono decisamente troppo piccoli e quindi illeggibili perfino per l’occhio più vispo se non con estrema difficoltà (e lo dice chi ha una buonissima vista, almeno per ora); la seconda è la luce che in certe opere, con i suoi riverberi, non ne permette una corretta e adeguata visione e questo è decisamente un vero peccato, poiché molte opere sono esposte qui per la prima volta in pubblico e non si potranno presto riammirare.

L’esposizione inizia con una bella e alquanto singolare (per via delle grandi dimensioni) ancona lignea cuspidata con antine laterali apribili, raffigurante Storie della Vita di Cristo (1410 circa), opera del pittore Giovanni di Corraduccio (documentato dal 1404 al 1437), un artista attivo a Foligno, a Montefalco, ad Assisi a Camerino e a Fabriano, ancora debitore dell’influenza giottesca. L’opera è stata studiata da Zeri nel 1976, il quale individuava l’antica provenienza del dipinto dal monastero benedettino di Santa Lucia a Trevi. L’opera come si è letto, presenta una serie di Storie della vita di Cristo e in alcune di queste come ad esempio la Presentazione di Gesù al tempio sembra di intravedere curiosamente alcuni esiti della pittura lombarda divulgata da Vincenzo Foppa, Bergognone e Co, anche se tale riferimento è certamente più iconografico che stilistico (ovviamente). Altre scene invece denotano la grande piacevolezza narrativa del pittore come nell’Ultima Cena, nella Flagellazione, nel Compianto sul corpo di Cristo e nella Resurrezione.

La seconda opera che si incontra in mostra è la vivacissima Crocifissione (1425-1430 circa) di Zanino di Pietro, pittore del gotico veneziano attivo tra il 1389 e il 1448 con un soggiorno bolognese svolto tra il 1389 e il 1405. Zeri ha studiato la tavola nel 1962 e individuava gli influssi di questo pittore nell’ambiente artistico veronese di Altichiero di Zevio infarcito di elementi nordici provenienti d’oltralpe. Inoltre Zeri sottolineava come lo stile della Crocifissione fosse carico di espressività e che dovesse essere messo a confronto con gli esiti più alti della “maniera giottesca” ed eseguito immediatamente dopo il soggiorno bolognese del pittore. Per quanto mi riguarda ho trovato sublime il gruppo in basso a destra con i soldati romani che si spartiscono le vesti di Cristo giocandoseli ai dadi, da fare invidia ai moderni cartoni animati; oppure il cavaliere romano sempre sulla destra con quel buffo quanto peculiare copricapo alato.

Intrigantissime sono poi le due tavolette raffiguranti un San Giovanni Battista e una Santa Margherita d’Antiochia del Maestro del Giudizio di Paride al Bargello da indentificare secondo Zeri e Longhi con il pittore Cecchino da Verona. Questa era la proposta di Zeri che studiava l’opera nel 1951 facendo uscire un notevole intervento critico su “Paragone”, la rivista fondata da Roberto Longhi, figura molto contestata da Zeri durante gli anni della sua maturità. Oggi l’identificazione del Maestro del Giudizio di Paride al Bargello con Cecchino da Verona è stata abbandonata dagli studi, ma il nome convenzionale del Maestro è ancora in auge e trae la sua origine da un desco da parto conservato proprio nel museo fiorentino. Tuttavia gli elementi stilistici e i vari riferimenti della cultura figurativa di questo pittore, già identificati da Zeri rimangono tali e ancora molto validi. Ad esempio per Zeri si tratta di un pittore certamente attivo in Toscana nella prima metà del XV secolo affascinato da pittori quali Giovanni di Paolo, Lorenzo Monaco, Sassetta e Giovanni Dal Ponte, ma anche influenzato da artisti come lo Starnina, Masolino da Panicale, Beato Angelico, e finanche Paolo Uccello. Proprio a Masolino era riferita una tavoletta con Cristo crocifisso con dolenti, oggi invece attribuita allo stesso Maestro del Giudizio di Paride. L’opera oltre che da Zeri e Longhi venne studiata anche da Bernard Berenson, il quale pensava che la tavoletta fosse da attribuire ad Andrea di Giusto o a Domenico di Michelino. Anche in questo caso però sono insiti tutti i riferimenti alla cultura figurativa del Maestro del Giudizio di paride al Bargello, in particolare si riscontrano contatti con la pittura di Lorenzo Monaco e Beato Angelico. Tornando ancora per un momento alle nostre tavolette, e in particolare alla Santa Margherita, il drago sventrato dalla santa è davvero strabiliante per vivacità e intensità narrativa, è presentato in maniera stravagante e giocosa con un piccolo corno che emerge dal suo muso lentigginoso: queste caratteristiche fanno in modo che queste due tavolette risultino sia affascinanti che fantasiose ma al contempo con uno stile sottile ed elegante.

A fianco a queste tre opere si trova poco più in là una Sacra Conversazione (1515 circa) di Andrea Previtali; Zeri nel 1955 pubblicava l’opera nel catalogo della collezione milanese di Alberto Saibene dove si conserva tutt’oggi. La tela va messa in riferimento con la pittura di Giovanni Bellini specie per quanto ne concerne la composizione, senza essere neppure esente da talune influenze del grande Lorenzo Lotto. Lì a fianco si trova una piccola, ma a mio avviso preziosa, tavoletta di Francesco d’Ubertino Verdi meglio conosciuto come Bachiacca, un artista fiorentino cresciuto nella bottega di Perugino a Firenze e che dal 1515 sarà il collaboratore di Andrea del Sarto. La tavoletta raffigura un Noli me tangere dove è evidente l’influsso di Fra Bartolomeo, oltre che sui riferimenti figurativi tipicamente toscani e fiorentini in particolare, la cultura del Bachiacca dimostra di meditare sulle incisioni d’oltralpe; ad esempio il manipolo di uomini a sinistra della composizione, sullo sfondo, sono direttamente tratti da un’incisione raffigurante un Ecce Homo di Luca di Leida.

Spostandosi sul lato sinistro della sala si incontrano due straordinari ritratti studiati anche in questo caso da Zeri. Il primo è il magnifico Ritratto di Fra Michele da Brescia (1557) opera di Giovanni Battista Moroni. Il dipinto venne studiato da Zeri a più riprese nel 1966 e nel 1976. Zeri identificava l’effigiato come un frate appartenente all’osservanza di Lombardia, in particolare agli Eremitani di Sant’Agostino. L’opera ha raccolto molti consensi, tra gli altri anche da Mina Gregori che ha studiato la tela nel 1979. Il secondo ritratto in mostra è quello di Ercole De Roberti raffigurante molto verosimilmente Achille Bentivoglio (1480-1485 circa). La tavola presenta sul verso un ritratto non finito ancora motivo di forte dibattito tra gli storici dell’arte (come d’altra parte ancora molto dibattuto è il protagonista della tavola stessa sul recto), ma che potrebbe essere indentificato con il Ritratto di Giovanna Sforza Bentivoglio. Il dipinto sarebbe stato eseguito da Ercole poco prima della sua partenza da Ferrara per Bologna; l’opera anche se non in perfetto stato di conservazione (si sono, a mio avviso, perse molte delle velature che davano tridimensionalità al dipinto) è certamente un capolavoro della ritrattistica rinascimentale di uno dei più importanti esponenti della scuola ferrarese riscoperta da Roberto Longhi nel suo famigerato e complicatissimo libro Officina Ferrarese.

Rimanendo sempre lungo il lato sinistro della sala, e volendo qui seguire l’andamento della mostra e non l’ordine cronologico delle opere così come appaiono invece nel bel catalogo a corredo della mostra (edito da Silvana Editoriale e al costo di 15 euro), non si può entrare nella seconda sala dell’esposizione senza essersi fermati prima ad ammirare le straordinarie nature morte presenti nella prima sala, una in particolare tra queste è eccezionale per qualità e perché presenta una vicenda critica davvero molto avvincente. Si tratta della tela raffigurante fiori sparsi su un tavolo, un vaso di fiori ricolmo di acqua e due figure femminili. Il quadro va molto probabilmente identificato come una Allegoria della primavera ed è attribuito al Maestro della Natura Morta di Hartford dal dipinto presente proprio nel museo della città. Zeri in un interessantissimo articolo del 1976 affianca alla Natura morta del museo di Hartford anche altre opere, tutte nature morte, tra cui due esemplari conservati alla Galleria Borghese di Roma e altri esemplari tra cui quello esposto qui in mostra. Nell’articolo Zeri è convinto che queste nature morte siano opera del giovanissimo Caravaggio nella bottega del Cavalier D’Arpino da datarsi quindi tutte prima dell’esordio pubblico del Merisi, vale a dire prima dell’esposizione delle tele in San Luigi dei Francesi allo schiudersi dell’anno giubilare. La tela esposta alla mostra di Milano era già stata studiata in precedenza da Carlo Volpe nel 1972; lo studioso credeva di vedervi all’opera oltre che il Maestro della natura morta di Hartford anche Carlo Saraceni per le due figure femminili, di una sensualità ed erotismo di grande impatto visivo. Basti osservare con attenzione come la luce dolce e soffusa si sofferma con delicato candore erotico sulle cosce, sul ventre e sui seni della figura femminile in primo piano a sinistra o come le mani delle due figure si incontrino incrociandosi in un gesto di ambigua sensualità poco sopra i capelli della stessa figura femminile di sinistra. Ancora si guardi come la luce si sofferma con dovizia di particolari sui fiori che raccolgono i capelli delle due giovani donne. E si osservi inoltre lo straordinario vaso di fiori sulla destra, dove l’acqua riflette verosimilmente due finestre di una ipotetica stanza dove si trova l’osservatore o il pittore che sta osservando e dipingendo la scena. In un angolo, tutto dentro il vaso di vetro si riflette la realtà che circonda il soggetto che noi ora stiamo ammirando. Chi potrebbe aver mai potuto escogitare una simile invenzione? Oggi il dipinto in esame è interamente presentato come opera del solo Maestro della natura morta di Hartford e l’antica ipotesi di Zeri è stata – a mio avviso non del tutto correttamente – accantonata in favore del nome convenzionale del misterioso pittore di nature morte. Molti studiosi pensano che l’attribuzione di Zeri sia da scartare senza diritto di replica, ma io ritengo che l’ipotesi di Zeri non sia poi del tutto da buttare; lo stanno a dimostrare gli illuminanti confronti tra le opere del Maestro di Hartford e le opere giovanili e sicure di Caravaggio che di recente sono stati fatti da Alessandro Morandotti (il quale è tra quelli che scartano con decisione l’ipotesi di Zeri) nell’ultimo libro pubblicato dalla Fondazione Zeri dal titolo Il mestiere del conoscitore Federico Zeri. Pur sapendo che la faccenda non è di facile risoluzione, ci sarebbe bisogno che qualcuno si rimetta a studiare con più meticolosità tutta la questione senza pregiudizi di sorta e senza andare dietro all’auctoritas di turno, ma questo è solo il mio pensiero.

Ora prima di cambiare ambiente occorre nuovamente spostarsi verso destra per ammirare altri due importanti dipinti, vale a dire la Madonna con il bambino e San Giovannino (1690 circa) di Antonio Gherardi e il Ratto delle Sabine (1700 circa) di Alessandro Magnasco. Nella prima opera, quella del pittore di Rieti attivo nella Roma di secondo Seicento, Antonio Gherardi, è visibile secondo Zeri, l’influenza di Pierfrancesco Mola, della pittura veneziana del Cinquecento e in particolare di Paolo Veronese, nonché l’influenza di taluni pittori lucchesi come Giovanni Coli e Filippo Gherardi. Inoltre Zeri ravvisa nella piccola tela influenze figurative legate a pittori del calibro di Pietro da Cortona, Bernardino Mei, Giacinto Brandi e di Sassoferrato specialmente per la tavolozza cromatica. La tela nello specifico rimanda anche a talune opere di Simon Vouet. L’opera è pervasa da una dolcezza non comune, basti pensare al gesto della Vergine che stringe a sé il bambino e questo che teneramente ci guarda con innocenza e vivacità; inoltre l’impasto materico del colore con il quale Gherardi definisce i panneggi e i chiaroscuri sono degni della più alta pittura secentesca. La seconda tela, quella attribuita a Magnasco, Zeri la studiava nel 1997. La tela era originariamente attribuita a Sebastiano Ricci in una fase di avvicinamento del pittore proprio alla bottega e quindi alla pittura del Magnasco durante il suo soggiorno milanese. Oggi la critica non è unanimemente concorde con la visione di Zeri, il quale ravvisava anche l’intervento di un aiutante per la realizzazione dello sfondo architettonico che identificava con il pittore Clemente Spera più volte attivo insieme a Magnasco. Ho osservato a lungo la tela e non mi sembra che ci siano elementi così convincenti per togliere questa bellissima tela alla mano del Magnasco. L’assunto secondo il quale l’opera si dovrebbe imparentare alla mano di Sebastiano Ricci, facendo leva sul fatto che lo sfondo non è del tutto paragonabile a quelli realizzati dal pittore genovese, non mi sembra essere del tutto convincente. I tocchi di colore e la vivacità con la quale sono realizzate le figure in primo piano, i guizzi e le macchie di colore con le quali sono condotte gli aggrovigliamenti dei vestiti e la freschezza narrativa che permeano l’interna composizione non credo che lascino spazio a dubbi: si tratta di un’opera di Magnasco in persona.

Finito di osservare le magnifiche opere della prima sala della mostra, ci spostiamo nella seconda e ultima sala dell’esposizione. Ci accorgiamo subito che la narrazione e la qualità delle opere esposte cambia e raggiunge vette altissime. Subito alla nostra sinistra ci troviamo di fronte a due capolavori di Iohannes Ispanus, un pittore molto caro a Zeri al quale si deve praticamente l’intera ricostruzione del catalogo di questo straordinario ed eccentrico pittore a partire dalla magnifica Deposizione della collezione Saibene di Milano esposta per la prima volta al pubblico proprio in questa mostra, nonché unica opera firmata del pittore. I rapporti tra Zeri e Alberto Saibene ebbero inizio il primo novembre 1946 per mediazione di Roberto Longhi; il primo articolo di Zeri su Ispanus risale invece al 1948 sulla rivista “Proporzioni”, il quale identificava correttamente la Deposizione Saibene come opera dell’Ispanus, infatti in un primo momento Berenson l’aveva attribuita, ignorando completamente la firma, come opera dell’Ortolano. L’articolo di Zeri riscuote un indubbio successo e riceve i complimenti dello stesso Saibene, il quale gli affida nel 1952 lo studio dell’intera sua raccolta. Zeri pubblica il catalogo della collezione nel 1955. La Deposizione Saibene proviene dalla chiesa delle monache del Gesù a Milano; Zeri studiando la cultura figurativa del pittore arriva a capire che Ispanus è un pittore originario della Spagna ma che ben presto approda in Toscana e si aggiorna sulla cultura figurativa di Perugino e Piero di Cosimo. Non si ferma troppo in un unico luogo, infatti presto lascia la Toscana per fare tappa nelle Marche ed infine dopo un breve parantesi veneta, forse veneziana, arriva nella pianura Padana dove assorbe la cultura di Boccaccio Boccaccino in particolare, ma anche di Andrea Solario. Nella Deposizione Saibene Zeri ravvisa anche brani di spiccata connotazione oltre alpina nonché un certo bramantismo e una solennità impassibile dei personaggi appartenente alla fase veneto-cremonese dell’artista. Nel 1950 Zeri su “Paragone” pubblica anche la variante ridotta della Deposizione Saibene allora attribuita a Boccaccio Boccaccino. La tavola sembra davvero una variante sul tema, infatti vi è riproposta l’iconografia della Deposizione, ma mentre in quella Saibene i personaggi che la animano sono ridotti in numero, in quella della collezione Poletti i personaggi sono molti di più; in quest’ultima inoltre sono spariti i manieri fortificati alla Durer presenti invece sullo sfondo della tavola milanese; permane però una folta vegetazione che seppure sembri richiamare la fase veneta del pittore, soprattutto per l’esemplare Saibene, richiama paesaggi leonardeschi specie per quei monti azzurri che vanno sfumandosi all’orizzonte non del tutto assenti neppure nella versione ridotta.

Tornando alle prime due tele che si incontrano sulla sinistra esse raffigurano due episodi delle Storie di Cimone ed Efigenia. Le tele vennero individuate da Nella Longari, influente gallerista milanese, nelle raccolte del marchese Ginori a Firenze, ben presto entrano nella collezione piacentina di Franco e Vittoria Groppi i quali le mostrano a Zeri nel maggio del 1998 per una consulenza. Zeri conosceva già le due tele in virtù dell’amicizia con la Longari che gliele mostrò anni addietro. Le due opere secondo Zeri sono in stretto rapporto con lo stile di Pietro Perugino e per tanto fanno parte di una fase pittorica precedente rispetto alla Deposizione Saibene di Milano. Il soggetto dei due dipinti è stato solo di recente riconosciuto in maniera corretta da Alessandra Gallizi; si tratta per la prima tela della scena con Cimone giovane cipriota e la dama di Efigenia e per la seconda dell’Incontro fra Cimone ed Efigenia. Le due tele di straordinaria intensità narrativa, creano con le altre opere di Iohannes Ispanus una sorta di piccola mostra monografica all’interno della stessa esposizione.

Nella stessa sala si trova un altro degli “amori figurativi” di Zeri, vale a dire il pittore di origine pavese Donato De Bardi (attivo dal 1426 a Genova fino al 1450-1451 circa). Il grande conoscitore pubblica nel 1973 il primo articolo sul De Bardi, un artista allora conosciuto solo per la monumentale quanto bellissima Crocifissione firmata della Pinacoteca di Savona. In quel frangente Zeri assegna a Donato De Bardi anche il magnifico trittico della collezione del Metropolitan Museum of Modern Art di New York raffigurante al centro la Madonna con il Bambino, San Filippo a sinistra e Santa Agnese a destra, il quale fra l’altro porta la firma Opus Donati. Sempre nell’articolo del ’73 Zeri attribuisce allo stesso artista i quattro Santi dell’Accademia linguistica di Belle Arti di Genova e la Presentazione di Gesù al tempio (esposta in mostra) già nella collezione bergamasca Lorenzelli. Sempre nell’articolo del ’73 Zeri studia la cultura figurativa di questo importantissimo artista per la pittura lombarda prima di Vincenzo Foppa; De Bardi è un pittore che guarda alla grande pittura fiamminga della prima metà del 1400 e cioè a Jan Van Eych, Roger Van der Weiden e Petrus Christus. Nel 1976 Zeri pubblica un secondo importante articolo su Donato De Bardi ricostruendo un polittico (quasi del tutto esposto in mostra) di cui manca solo la parte centrale, probabilmente una Madonna con il Bambino in trono ancora non riemersa. Gli altri scomparti del polittico comprendono al momento quattro figure di Santi e cioè Sant’Ambrogio, San Giovanni Battista, San Gerolamo e Santo Stefano. Il San Giovanni è l’unico scomparto del polittico ricostruito da Zeri che si conservi in un museo pubblico vale a dire la Pinacoteca di Brera. In questi quattro pannelli di polittico dal profilo polilobato e dalle medesime decorazioni (solo con qualche piccola variante) delle punzonature, Zeri vi individuava una perfetta unità di stile, nonostante il San Giovanni sia stato negli anni molto decurtato nella parte bassa e anche nella parte alta. Più tardi, nel 1986 Zeri pubblicava su “Paragone” un ulteriore articolo su De Bardi che prendeva in analisi una bella Pentecoste (pure lei esposta in mostra) ridotta in anni non meglio precisabili a un formato tondo. L’opera è oggi attribuita col nome convenzionale di Pseudo Donato De Bardi proprio in virtù dei marcati caratteri stilistici che la imparentano allo stile del pittore pavese. Lì a fianco si trova anche una piccola Madonna col Bambino conservata nelle collezioni del Poldi Pezzoli che Zeri un tempo credeva essere di mano del De Bardi stesso ma che studi più recenti, fra cui quello decisivo di Giovanni Romano, hanno ricondotto con buona pace di tutti alla fase giovanile di Bergognone.

Chiudono la mostra due piccole opere: la prima è una Santa Elisabetta di Ungheria di Domenico Alfani (un collaboratore di Raffaello), la seconda è una Pietà di Giovanni De Vecchi. La prima è una piccola tavoletta già creduta da Zeri di Raffaello e messa in relazione con la Pala Colonna (1504-1505 circa) del Metropolitan Museum di New York. La Santa Elisabetta rappresentava per Zeri un piccolo tesoro tanto che lo studioso la conservava nella cassaforte della sua casa di Mentana. La Pietà di De Vecchi poi era un’altra opera molto cara a Zeri, poiché il suo autore faceva parte di quei pittori protagonisti della riforma devozionale della pittura italiana dopo il Concilio di Trento (1545-1563) e al centro (fra tanti altri) di uno fra i più importanti libri scritti da Zeri ossia Pittura e Controriforma (di cui si sente davvero molto la necessità di una ristampa). Secondo Zeri, De Vecchi è “un pittore toscano pregno di misticismo pittorico; le creature dipinte dall’artista sono diafane, fantomatiche e medianiche, dalle forme pronte alle più impreviste trasfigurazioni, come la fiamma di un cero percorsa dal fiato di chi mormora una preghiera”. Lo studioso romano sottolineava inoltre come nelle opere di De Vecchi permanessero influenze d’oltralpe di Quentin Metsys. Il dipinto si trovava nella stanza da letto di Zeri, era infatti posizionato davanti al letto dello studioso. Questa tavola, così come la Santa Elisabetta sono state donate da Zeri, come lascito testamentario, al museo Poldi Pezzoli di Milano nel 1998. Si esce dalla mostra potendo osservare una selezionatissima carrellata di fotografie della sua preziosissima fototeca, strumento indispensabile al grande conoscitore, per lo più immagini delle opere esposte alla mostra. Inoltre nella teca che congeda il visitatore si trova anche il preziosissimo volume Diari di Lavoro 1, edito da Einaudi per il quale proprio come Pittura e Controriforma si sente l’urgenza di una ripubblicazione.

Si è voluto ripercorrere l’intera esposizione, commentando tutte le opere esposte, poiché profondamente convinti che solo così il lettore, che ha l’intenzione di andare a vedere la mostra, possa rendersi conto della vastità e della complessità degli interessi del grande storico dell’arte. Si esce dalla mostra soddisfatti di quanto si è potuto osservare e studiare, si esce arricchiti di una conoscenza e di un sapere che prima non si aveva. Dopo tutto è questo il fine ultimo delle belle mostre, quelle per le quali vale la pena di alzarsi il sabato mattina presto dopo una settimana di lavoro, quello di arricchire il visitatore, di lasciargli qualcosa, di fare in modo che esca da quella esperienza più ricco di quanto non lo fosse quando è entrato. Per questo la mostra su e per Federico Zeri dev’essere senz’altro vista sia dal visitatore specialista sia dall’appassionato sia dal semplice curioso, poiché è questo che Federico Zeri avrebbe voluto.
Marco Audisio
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