“Nessuno oltraggi Artemide
(non per Enèo, che trascurò l’altare vennero belle prove alla città)
né si competa nella caccia al cervo
o nel tirare d’arco
(non fu il vanto pagato dall’Atride a basso prezzo)
né si aspiri alla vergine
(non Oto né Orione fauste nozze ricercarono)
né la danza annuale si respinga
(non senza pianto di danzare in cerchio Ippò si rifiutò presso l’altare).
Salve, sovrana, molte volte salve,
a te giunga gradito questo canto.
(Callimaco, Inno ad Artemide, estratto).

Bellissima e crudele, libera, diffidente e selvaggia come la Natura di cui è regina, Artemide è tra le figure mitologiche più affascinanti e complesse.
Le caratteristiche che contraddistinguono la Dea sembrerebbero a primo sguardo relativamente facili da individuare: accompagnata dalle ninfe dei boschi e seguita da una muta di cani, ella percorre rapida le selve.
Cacciatrice indomita, nessuna preda è mai sfuggita alla scattante precisione del suo arco e alla inevitabile fatalità delle sue frecce, ad eccezione della magnifica Cerva di Cerinea, esemplare divenuto a lei sacro ed intoccabile; Artemide quindi uccide ma al contempo ama e protegge, contraddizione che nei cacciatori non è insolita.
Divinità vergine, fiera e indipendente, la figlia di Leto prima di essere correlata alla caccia, è inscindibilmente legata al parto: a poche ore dalla sua nascita aiuta infatti la madre a mettere alla luce, dopo giorni e notti di inesorabile sforzo, il fratello Apollo; da quel momento tutte le donne, durante le doglie, rivolgono speranze e preghiere a colei che diviene “soccorritrice nel dolore, lei che dal dolore non viene sfiorata”, affinché il nascituro possa venire al mondo senza difficoltà.
Artemide è altresì legata ad un altro tipo di maternità: quella della natura non trattenuta, slegata da ogni imposizione, virginale, che sempre si apre ora al magnifico splendore, ora alla crudeltà ferina: l’essenza stessa del mondo naturale risiede proprio nella mutabile indomabilità, nel suo eterno dualismo, in cui sconvolge e destabilizza ma al contempo accetta e dona; l’uomo che invece tramuta il bosco in giardino, che ne impoverisce il terreno per costruire strade e che avvelena le proprie fonti non comprende che la Natura, la vera Natura, non abita più dove la propria mano taglia, rade e pota.
La vera Natura è quella in cui esiste e si muove Artemide: è il prato incontaminato che germoglia e fiorisce, è il bosco che accoglie e protegge, è la cavalletta che salta e la gazza che vola, è l’usignolo che canta e la cicala che frinisce.
La vera Natura è quella che si accoppia e che lotta, che gioca e si difende, che bestialmente sbrana e
e che con calma giace.
La vera Natura è quella che sorge e tramonta, che sostiene e nasconde in sé la vita.
La terra inumidita dalla pioggia, la neve che sorprende, il muschio dei ruscelli che conduce verso nord, gli animali che talvolta osservano, talvolta fuggono: questo è il respiro del tutto, l’infinito attimo, il sublime che avvolge.
Questo è il regno della Dea dai piedi d’avorio.
La caratteristica peculiare della vita però, come già accennato, risiede nell’essere benevola e accogliente ma anche magnetica e fatale; una fatalità tuttavia indifferente alle pene e speranze umane, che colpisce senza distinzione.
L’elemento selvaggio, smisurato, in cui la natura esibisce sensibilmente l’infinito spaziale e temporale, insieme all’immenso e incontrollabile potere delle sue energie, che umilia e spesso schiaccia la fragilità umana, è essenza stessa di Artemide; se da un lato nella gemella di Apollo abbiamo un agire coerente al mondo naturale, dunque definito dallo schivo disinteresse delle vicende dei mortali, al medesimo tempo riscontriamo tutte quelle debolezze del sentimento che, così come nella sfera umana, anche nella sfera divina sono ben presenti: ira, vendetta, amore e gelosia sono tutti trasporti che vengono percepiti con stravolgente violenza e dai quali nessun dio dell’Olimpo sfugge.
L’ineluttabilità dell’emozione che sventra dall’interno, che scinde in mille frammenti disintegrando ogni razionale ragione, non tarda a colpire l’animo di Artemide nel corso della sua vita, portandola a compiere azioni crudeli e sconcertanti.
Una figura così dinamica, ammaliante e metamorfica è stata più volte immortalata, talvolta raffigurandone l’aspetto bestiale, talvolta evidenziandone le virtù; è affascinante esplorare in particolare come l’ira, uno dei trasporti dell’animo sensibile più volubile e individuale, sia stata racchiusa e interpretata nelle più svariate maniere durante il susseguirsi dei secoli.
Nell’episodio mitologico di Diana e Callisto tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, è interessante osservare come Tiziano, nel pieno della sua maturità artistica, si spinga oltre la descrizione anatomica dei personaggi, prediligendo una visione d’insieme in cui le pennellate, sempre più corpose e sicure, alternano alle luci dirette penombre e modulazioni cromatiche dal carico emotivo decisivo nella trattazione del soggetto, dove le candidi carni spiccano tra il cupo fogliame e i ricchi drappeggi.

La scena è carica di drammatico sentimento: Callisto, ninfa dalle bellissime fattezze e ancella consacrata ad Artemide, caduta vittima dei soprusi di Zeus il quale, invaghitosi di lei, aveva assunto le forme stesse della Dea per potersi unire alla figlia del Re Licaone, viene ritratta dall’artista con il volto in penombra supplicante pietà; il corpo della giovane, di cui la luce mette in evidenza il ventre sottolineandone l’illecita gravidanza, inutilmente tenta di sfuggire alla stretta presa delle altre ancelle sue compagne.

I lineamenti di Artemide sono volutamente celati da sapientissimi giochi chiaroscurali, in cui l’inquietante sguardo appena visibile funestamente anticipa il triste evolversi degli eventi: con gesto decisivo si volge alla fanciulla bollandola come traditrice del voto di castità, fattore inevitabile a tutte le seguaci della Dea.
La tensione aumenta: nel frenetico divincolarsi dei corpi e nelle espressioni ora sconvolte, ora deluse, le ninfe preparano arco e frecce.

Al dinamismo delle ancelle si contrappone la terribile fermezza di Artemide, in cui l’attimo intriso da un’apparente quiete lascia sempre più spazio all’atroce tempesta d’ira che trafiggerà di lì a poco la bella Callisto.
Nel frammento temporale che separa l’atto di condanna della Dea dalla tragica presa di coscienza della ninfa, nascosta tra i panneggi e il fitto fogliame, una nube scura prende improvvisamente forma: è il profilo di una fiera dalle fauci spalancate, pronta a balzare in direzione della fiorente vittima.

E’ estremamente affascinante pensare a come il tonalista veneto possa aver dato all’indistinta massa materica molteplici attributi simbolici: identificabile come orsa, alluderebbe alla triste fine di Callisto, tramutata nella bestia da Era e crudelmente uccisa dalle frecce di Artemide, o come leonessa, altra figura legata alla Dea nella quale sarebbe possibile far coincidere la fierezza dell’animale con la nobiltà dell’orgogliosa cacciatrice.
Entrambe le chiavi di lettura si completano e non concorrono tra loro: la caratteristica di Tiziano, così come per gran parte degli artisti del XVI secolo, risiede proprio nel dilettarsi in colti rimandi e allusioni, ottenendo così una compenetrazione allegorica particolarmente richiesta e apprezzata dalle cerchie intellettuali di committenti, in cui il dettaglio non solo assume la medesima importanza del soggetto principale, bensì ne arricchisce la comprensione e fruibilità.
Un ulteriore punto da considerarsi fondamentale è l’originale confronto che Tiziano effettua tra il sentimento dell’ira e il sentimento della disperazione: al contrario di quello che a primo impatto viene spontaneo pensare, l’ira della Dea viene raffigurata con glaciale staticità; è un trasporto fulminante, che blocca corpo e mente, è l’insensibile presa di posizione, l’algida consapevolezza d’intento, è il crudele calcolo delle proprie azioni prive di futuro rimorso.
La disperazione è invece dinamica, convulsa, non è cristallizzata nel torpore dell’afflizione, bensì freme e si dimena divenendo sempre più violenta e supplicante: per un istante è in Callisto che la bestialità prende il sopravvento, con l’istinto primordiale di sopravvivenza che avanza all’interno di una mente ormai traboccante di terrore.
Proseguendo nella narrazione dell’episodio mitologico un’altra opera degna di nota è l’incisione di anonimo, in cui chiara è l’influenza stilistica dell’esuberante “manierista settentrionale” Hendrick Goltzius, all’interno della quale viene immortalata la drammatica conclusione della giovane.

L’accanimento della Regina degli Dei sull’innocente ninfa è straziante: appena scesa dall’Olimpo sul suo magnifico carro trainato da pavoni (rappresentazione iconografica che l’anonimo incisore desume dalla tradizione ellenistica) si avventa furiosamente su Callisto; nonostante la bella non abbia scampo, Era la trattiene con forza dai fluenti capelli, pronta a percuoterla mentre inerme giace sul terreno, tramutandosi tra la polvere in belva.
Il tratto deciso ed il fitto intreccio formante cariche reti chiaroscurali rende i corpi, volti e gesti estremamente dinamici e patetici. Anche la natura circostante, assimilabile alla figura stessa di Artemide, risulta tormentata e iraconda, turbando l’animo di chi ne osserva la sapiente composizione.
Sebbene la scena sia decisamente più impetuosa rispetto all’opera pittorica di Tiziano, il sentimento dell’ira viene rappresentato in maniera del tutto tradizionale; in tal caso l’aggressività diviene la vera ed unica protagonista, sminuendo la figura divina ad un turbine d’irrazionale passionalità.
Nonostante la tragica fine posta dall’argentea freccia di Artemide, la bellezza di Callisto è ancor oggi ammirabile: Zeus, venuto a sapere dell’accaduto, mosso da una profonda afflizione tramuta l’ormai morta bestia in costellazione.
Di notte, quando la volta celeste risplende nel suo magnifico infinito, eccola che brilla: è l’Orsa Maggiore, di cui le sette sublimi stelle che la compongono mai tramontano e mai scompaiono.
L’istinto vendicativo e spietato di Artemide però non si limita esclusivamente al senso di viscerale possesso nutrito nei confronti delle proprie ancelle e devote seguaci; come nel tormento umano esso muta la propria forma, acquistando maggior vigore e manifestandosi nella sua configurazione più cruda e terribile.
È nel mito di Niobe che la Dea giunge all’apice della brutalità insieme al fratello Apollo: nel dipinto realizzato da Pierre Charles Jombert (Parigi, 1748 – 1825), del quale si conserva uno straordinario esquisse a olio presso il Metropolitan Museum of Art, viene messa in evidenza la barbara esecuzione compiuta dai due gemelli divini.

La peculiarità degli esquisse a olio, la cui diffusione avviene in Italia durante il XVI secolo, consiste nel racchiudere il cosiddetto première pensée dell’artista, in cui l’idea assume una prima (e più spontanea) configurazione a livello compositivo, formale e cromatico.
Nel caso specifico di Jombert, è estremamente interessante mettere a confronto il piccolo bozzetto ad olio con il dipinto di grandi dimensioni, quest’ultimo (a differenza dell’esquisse) conservato presso la facoltosa Accademia di Belle Arti parigina fondata da Napoleone nel 1811.

Come già sopraccitato, il fulcro in entrambe le rappresentazioni evidenzia il momento più feroce del mito; per poterlo comprendere appieno però, è giusto effettuare una piccola digressione: nella città di Tebe, tramite l’arrivo dell’indovina Manto, figlia di Tiresia, viene ordinato da Leto il compimento di una serie di riti sacrificali ai quali le cittadine avrebbero dovuto adempiere, rendendo così onore alla grandezza della Dea.
Niobe, figlia del re Tantalo e quindi discendente di Zeus, nonché regina di Tebe, si oppone invece con grande arroganza alla volontà di Leto; madre di sette bellissime figlie e sette impavidi figli afferma di essere ben più fertile della Dea, sottolineando inoltre di possedere origini molto più nobili della madre di Artemide e Apollo, da dover considerare al contrario una divinità minore e dunque non adatta alla serie di venerazioni richieste.
L’offesa è tale che l’ira dei due fratelli non tarda a sopraggiungere; sia nell’esquisse che nel dipinto è raffigurato il momento in cui, con brutale e agghiacciante sete di vendetta, Artemide uccide le sette figlie mentre Apollo trafigge i sette figli.

La scena immaginata da Jombert diviene spaventosa: al centro della composizione, distrutta ed implorante, Niobe si scaglia sull’ultima delle figlie, tentando invano di proteggerla dall’arco infallibile di Artemide; intorno a lei, in corpi addossati l’uno sull’altro, i figli caduti le ricordano che la superbia viene sempre punita dalla furiosa azione degli Dei.

Non esiste perdono né pentimento ed il cielo plumbeo sembra tuonare tali moniti, in mezzo al quale adirati e insensibili i due arcieri compiono un vero e proprio massacro.
La tragica teatralità con la quale l’artista francese plasma la propria visione del mito è ben distinguibile nella rapida e quasi espressiva pennellata dell’esquisse, in cui la materia diviene plastica ed i limiti della forma sembrano fluire liberi da ogni restrizione lineare; è al bianco di piombo, alle terre naturali e ai pigmenti blu che viene affidato il compito narrativo ed incisivo di esplicare l’astrazione del pensiero in tangibile esecuzione pratica.
Nel dipinto di grandi dimensioni Jombert mantiene la drammatica tensione emotiva progettata nel bozzetto, decidendo tuttavia di variare lo schema compositivo all’interno del quale inserisce i personaggi: nel primo registro evidenzia i corpi martoriati dei figli uccisi, espediente per di più utilizzato al fine di dimostrare la sua mirabile capacità nella resa anatomica delle figure, seguito dal secondo registro, quello centrale, in cui il commovente abbraccio tra Niobe e la figlia assume caratteristiche monumentali; l’ultimo registro, situato nel margine superiore del dipinto, è esclusivamente dedicato ad Artemide e Apollo, i cui sguardi lacerano e trafiggono come le frecce che vengono scagliate con furia assassina dall’alto del cielo.
Anche nell’esquisse la suddivisione in tre registri è presente, ciononostante la costruzione si dimostra più sbilanciata e frammentaria; nel caso dell’opera definitiva non vi è una distanza spaziale dissonante tra i vari elementi, il tutto si lega perfettamente, creando da ultimo una narrazione sciolta in cui lo sguardo viene accompagnato dal ruolo prettamente scenografico della luce, in un percorso diagonale ascensionale-discensionale percorribile sia dal punto di vista delle vittime che dei carnefici.
Un elemento fondamentale sul quale risulta interessante soffermarsi è la conclusione alla quale l’artista giunge decidendo di rappresentare, in maniera quasi marginale, la figura divina, rendendo come vero e proprio nucleo fondante Niobe circondata dai figli; tale scelta non mette in risalto l’ira, intesa da un punto di vista puramente emotivo (e più intellettuale) come nell’esempio di Tiziano, in questo caso sono proprio le conseguenze distruttive legate a tale sentimento ad essere le vere protagoniste dell’opera.
Nonostante i due Dei siano effettivamente delineati nell’istante in cui si compie l’azione, l’elemento che si insinua nell’animo dell’osservatore non è riconducibile ad un senso empatico provato nei confronti dei due fratelli; ciò che viene sentito è il dilaniante dolore della madre e la totale impotenza di fronte all’inevitabile, in cui il fruitore è crudelmente costretto ad assistere da lontano, proprio come Artemide e Apollo: forse, quello che rende straordinario il dipinto, risiede proprio nel fatto di immedesimarsi, senza il proprio volere, nella figura divina, in una lontananza dall’accadimento esclusivamente fisica e mai emozionale.
È ammirevole e devastante l’atto di coraggio che Niobe, nel cui sguardo traspare la totale distruzione interiore, mette in pratica lanciandosi senza alcuna esitazione sulla figlia; nonostante sappia che da Artemide non avrà scampo, agisce istintivamente secondo l’unico sentimento che sarà sempre in grado di vincere sull’odio: l’amore.
È nello sviscerare l’essenza stessa del mito che sorge chiaro di come l’amore più autentico e puro sia l’anima e la chiave interpretativa più profonda. Non è l’ira, non è la disperazione, non è la morte.
È all’amore infatti che Artemide e Apollo mirano: non è alle molteplici ricchezze, né ai maestosi templi e palazzi posseduti dalla regina, non sono i beni materiali nei quali risiede un’intrinseca finitezza ad essere interessati dal funesto volere divino.
Mirano e colpiscono all’unica immortalità che l’uomo potrà mai raggiungere, al sentimento universale e connaturato comune ad ogni essere vivente.
Nonostante il gesto di Niobe risulti futile e la figlia perisca per mano di Artemide, l’amore deve e dovrà sempre essere la spada con la quale affrontare il veleno dell’anima, che colpisce indistintamente uomini e dei.
Negli episodi mitologici di Niobe e Callisto è intrigante notare come l’elemento conduttore in entrambe le vicende sia l’ira scaturita dal senso di appartenenza: nel caso di Callisto corrisponde ad un animalesco e quasi uterino possesso, in cui il tradimento viene assimilato dalla Dea ad una sottrazione del proprio stato di predominanza; in Niobe, l’offesa non è direttamente rivolta ad Artemide, quanto più alla madre Leto; in tal caso però il sentimento si manifesta nel rapporto sanguigno con la sua genitrice, in cui è Artemide ad appartenere a qualcuno e non qualcuno ad appartenere ad Artemide. La predominanza si ribalta, la cacciatrice si fa preda, la donna si fa figlia ma rapidamente muta nuovamente forma, perdendo ogni intima e unica caratteristica; non prova, lei diviene l’ira.
A questo punto sorgono però spontanei dei quesiti:
Come può Artemide, dopo la trattazione di due delle vicende più crudeli, conservare ancora quel magnetico fascino inizialmente descritto?
Come può l’uomo continuare ad ammirare la Dea della Caccia?
La risposta risiede nella quotidianità della vita; contemplando la forza distruttiva della Natura non sparisce in noi l’amore, il rispetto e il timore che nutriamo nei suoi confronti.
La Natura è ordine e caos e in tale dicotomia risiede la bellezza e nella bellezza, a sua volta, esiste la figura di Artemide.
Artemide è la Natura e la Natura è Artemide. In lei coesistono contraddizioni, perché di fatto la vita stessa è contraddittoria, diramata in quei mille sentieri che intricati tra loro formano la meravigliosa complessità dell’esistenza.
L’incongruenza è quindi uno dei mille volti della Dea, in cui il cangiantismo della sua psiche la avvicina più che mai al continuo mutamento della mente e del sentire umano.
Come precedentemente accennato, ira, vendetta, amore e gelosia sono tutti trasporti che vengono percepiti con stravolgente violenza e dai quali nessun dio dell’Olimpo sfugge: cosa succede quindi nel momento in cui la Dea dell’indipendenza, della virginale libertà e dell’istintivo vivere si scontra con il sentimento dell’amore?
Nella seconda parte dell’articolo, la cui uscita sarà a gennaio del nuovo anno, verrà affrontato il complesso legame tra amore e iraconda gelosia.
Alessia Bianchi
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