« Coloro che amano,
non solamente scusano i vizi delle cose amate,
ma li chiamano virtù;
similmente coloro che odiano,
non solo giudicano le virtù essere minori di quello che sono nelle cose odiate,
ma le reputano vizi,
chiamando, verbi grazia, uno che sia liberale, prodigo, o scialacquatore,
e uno ben parlante, gracchia o cicalone. »
(dal dialogo “L’Ercolano” di M. Benedetto Varchi)

Cos’è l’Amore?
Questa è sicuramente tra le domande più potenti, profonde e inafferrabili alle quali, ancora oggi, in molti cercano invano di ottenere risposta.
Secondo Socrate, il filosofo dell’incerto, l’amore è un “episteme”, ovvero una conoscenza che sta su da sé, una verità assoluta che non necessita argomentazioni né dibattiti e che si contrappone indiscutibilmente all’opinione del singolo; un’affermazione straordinaria se, a maggior ragione, si porge l’attenzione sulle caratteristiche che definiscono il pensiero filosofico di colui che “sa di non sapere”, il quale mette in costante discussione la presunta realtà.
La concezione dell’amore tuttavia, ha ottenuto complesse interpretazioni e variazioni filosofiche nel corso dei secoli: è un sentimento dai mille volti, difficilmente sintetizzabile o generalizzabile.
Con l’avvento delle teorie romantiche del XIX secolo, l’amore assume un ruolo fondamentale nella dinamica sia artistica che intellettuale dell’epoca, divenendo il nesso e l’unità tra il concetto di finito e infinito, coincidendo con l’assoluto o Dio, spesso assimilabile alla figura stessa della Natura.
L’estrinsecazione più compiuta della concezione di unità si ritrova nella visione filosofica di Hegel, il quale vede nell’amore “l’espressione dell’unità di sé con l’altro, l’identificazione del soggetto con l’altra persona: un sentimento per cui due esseri non esistono se non in una concordia perfetta e pongono in tale identità il mondo interno”.
Dunque, se nella visione di Socrate abbiamo un amore certo e dogmatico apprendibile solamente tramite l’assoluto della donna, vere ed uniche detentrici di tale tipo di conoscenza (altro elemento piuttosto inconsueto per la società antica), in Hegel l’abbandono in cui il soggetto si ritrova porta alla pienezza del proprio essere, andando a costituire il carattere infinito dell’amore.
L’universale sentimento, in quanto vivo e in costante evoluzione, nonostante lo sforzo che quotidianamente viene svolto per comprenderne l’effettiva natura, racchiude in sé sfumature difficilmente scindibili, delle luci e delle ombre così legate tra loro da risultare quasi equivalenti; come il limpido specchio d’acqua che si perturba e si smuove nella violenta tempesta, anche l’amore può essere scosso e alterato da passioni parassite, logorando la purezza di ciò che di fatto è tanto fragile quanto incorruttibile: sono Phthonos, termine greco che indica l’invidia, e Zelos, utilizzato riferendosi alla gelosia, ad essere in assoluto coloro che dominano lo smarrimento della razionale ragione.
Il concetto che risiede dietro Phthonos è ben più complesso e usurante rispetto a ciò che il termine dell’invidia attualmente indica: si riferisce infatti all’irrefrenabile pulsione e volontà di sottrarre qualcosa, arrecando in maniera volontaria e meschina un danno il più possibile radicato e deteriorante, mentre in Zelos i tormenti che governano l’animo sono l’inesauribile dubbio, l’attaccamento senza pace e senza remissione, in cui la psiche s’infrange contro l’unico vero nemico: la propria mente.
È possibile affermare con certezza che è proprio con tali trasporti che la corruttibilità delle intenzioni prende aspetto, acquistando nuovo vigore ad ogni inedita delusione.
Ma, con esattezza, da dove si originano?
È un quesito che a un primo sguardo sembra conservare una sentenza piuttosto semplice ma che in verità cela una delucidazione molto più complessa delle apparenze, alla quale verrà tentato di dare risposta più avanti.
Come già accennato nella prima parte dell’articolo precedentemente pubblicata, le passionalità dei divini non possono essere ridotte al sentire dei mortali: rappresentano la purezza dirompente e incontrollabile della coscienza, l’estremismo che trafigge e si spande nell’imperitura esistenza, in cui l’emozione prende pieno possesso delle carni e degli intenti. Eppure, nonostante l’uomo sia un flebile respiro rispetto alla vastità dell’infinito, è in qualche modo complementare alle figure degli dei; in loro è possibile ritrovare il cangiantismo proprio dell’esistenza.
Nel caso specifico di Artemide, è emerso come l’incongruenza e l’eterno dualismo siano elementi fondanti per comprendere in maniera più definita il fascino esoterico e selvaggio della fiera cacciatrice; come la Natura ella è imprevedibile, sfuggevole, meravigliosa e crudele.
Con la trattazione di due delle vicende mitologiche più atroci e strazianti è emerso il carattere vendicativo e iracondo della Dea, in cui la possessività diviene l’elemento cardine delle disumanità compiute; la narrazione compositiva, l’espressività cromatica e l’incisività emotiva trasmessa con sapienza dagli artisti precedentemente descritti, porta ad osservare un’evoluzione non solo stilistica ma anche (e soprattutto) ad un progressivo mutamento della concezione filosofica dell’ira, intorno alla quale ruotano e si trasformano sentimenti affini o contrari.
Nel mondo delle arti quindi, così come nella concezione spirituale, la libertà indomita di Artemide è dinamica e inviolabile: nell’inesorabile rincorrersi dei secoli le variazioni stilistiche ed estetiche non hanno alterato le peculiarità che fra gli Dei dell’Olimpo la contraddistinguono.
L’animo della cacciatrice però non è riducibile esclusivamente al sentimento dell’ira o della vendetta: come in ogni vivente, in lei coesistono e si alternano emozioni, desideri e timori.
Giunti a questo punto sorge però spontanea un’ulteriore domanda: quand’è che Eros, l’Amore, e Thanatos, la Morte, prendono possesso e si manifestano in Artemide?
È nell’opera del maestro barocco Daniel Seiter (Vienna, 1647 – Torino, 1705) in cui viene affrontato il mito di Orione, un episodio piuttosto raro in pittura quanto in letteratura, che possono essere trovate le risposte desiderate.

L’avvenimento mitologico è stato soggetto a molteplici variazioni del tema, diversificandosi in maniera netta secondo la tradizione greca e, successivamente, secondo la tradizione latina.
Nel caso specifico di Seiter la narrazione figurativa dell’evento segue la variante latina, della quale è giusto introdurne i fatti per poterne comprendere, in maniera più chiara e lineare, le scelte allegoriche e compositive.
La leggenda narra che Orione, un bellissimo gigante cacciatore, avrebbe suscitato la gelosia di Apollo per la sua eccessiva vicinanza alla sorella Artemide, favorita dalla comune passione per l’arte venatoria.
Per eliminare le possibili attenzioni e dunque mantenere intatta la virginale purezza della dea sua gemella, Apollo invoca, tramite l’inganno, l’aiuto di Terra, inviando un terrificante scorpione con lo specifico intento di porre fine alla vita del gigante.
Nonostante il terribile combattimento, Orione non perisce per mezzo della terribile bestia; riuscendo a fuggire, decide disperatamente di abbandonare la costa per nuotare in mare.
La furiosa gelosia di Apollo non ha tuttavia intenzione di cessare; come un fuoco che arde e perde progressivamente il controllo, giunge a smarrire definitivamente ogni ragionevolezza: deciso a perseguitare i suoi spietati propositi, trascina la sorella in una gara fatale, sfidandola a colpire un bersaglio posto in mezzo ai flutti, che altro non è se non la testa del fuggitivo.
La dea, ignara del dramma che sta per compiersi, non si sottrae a tale provocazione, scagliando senza alcuna esitazione la propria freccia, certa della sua infallibile mira.
Nel momento però in cui il corpo esanime di Orione viene trascinato a riva dalle correnti marittime, Artemide si accorge della tragica verità: è a questo punto che l’abile mano di Seiter inizia a manifestare la propria capacità creativa.
L’opera del viennese riprende infatti l’esatto momento in cui Artemide, con la ferale freccia ancora in mano, si rivolge disperata e furiosa a Esculapio, raffigurato con il contenitore del proprio unguento miracoloso e il caduceo, supplicandolo di compiere un atto estremo e proibito: riportare in vita Orione.
Nello sguardo del dio, reso vivo e vibrante dalla straordinaria abilità di Seiter, prendono forma stupore e sbigottimento: con vigore tiene stretti a sé gli oggetti del proprio potere, timoroso di ciò che potrebbe accadere.

La drammatica tensione diviene repentinamente tangibile: nei drastici e scenografici passaggi chiaroscurali sembra scorgersi in maniera sempre più angosciosa la lotta contro il tempo e le leggi infrangibili della natura che Artemide accanitamente tenta di superare; la pazzia che si fa spazio nella fragile mente della dea è tale da condurla a sfidare colei che di tutti è padrona: la Morte.
Nel suo volto appare improvvisamente un’oscurità frutto del vortice caotico di passioni, una tempesta interiore che frantuma l’animo e ne devasta brutalmente la bellezza: in un grido silenzioso e disperato, ella indica con fermezza Orione, il cui corpo dalle perfette fattezze sembra essere avvolto con tenera dolcezza dal chiarore lunare, unico e flebile tepore percepibile; con l’altra mano invece stringe la freccia assassina, spostando repentinamente lo sguardo dal dio della medicina all’oggetto responsabile della scomparsa dell’amato.

È estremamente interessante la decisione che Seiter attua nel rappresentare la dea intenta ad osservare l’arma che da Orione l’ha separata: nel tentativo di prendere coscienza della propria colpevolezza, Artemide sembra guardare dentro sé stessa; la freccia, simbolo principe della cacciatrice, diviene dunque lo specchio della propria identità, mostrandole con aspra durezza l’oggettività dell’avvenimento.
In questo brevissimo attimo, Thanatos si manifesta: si lega tenacemente ad Eros, rivelando una frazione dell’infinita dicotomia che mai potrà essere trasgredita.
Artemide dunque diviene colei che ha amato e colei che ha distrutto: il tormento che divampa dalla divinità scivola nell’ambiente circostante e si rivela nel teatrale cangiantismo del cielo, in cui le vaporose nubi e le glaciali tenebre circondano i corpi abilmente plasmati, in un virtuosismo anatomico proprio della produzione artistica di Seiter.

La scelta plateale di pose e gesti diviene non solo un modo per esplicare la profonda conoscenza del corpo umano, un sapere appreso con attenzione dal maestro Johann Carl Loth (Monaco di Baviera, 1632 – Venezia, 1638) e poi sviluppato in maniera del tutto personale, ma anche quello di modellare nel visibile, attraverso forme e colori, un concetto complesso e delicatissimo.
Nell’opera infatti, la tendenza all’attrazione tra gli elementi, l’amore che unisce e riscalda, che guida e consiglia Artemide, e la tendenza alla disgregazione tra gli elementi, che distrugge, frammenta e separa, che conduce ed esorta in un primo momento Apollo e in un secondo la gemella, sono visibili tanto quanto la scena matericamente immortalata; è nel fratello della cacciatrice che Phthonos e Zelos scaturiscono con violenza, macchiando e cancellando un equilibrio precario ma comunque esistente.
I putti alla sinistra della dea, uno dei quali provvisto di una stella sul capo, prefigurano tuttavia l’epilogo del mito: il vecchio Esculapio non riuscirà a risanare il cacciatore, poiché verrà tempestivamente fermato da una folgore scagliata da Zeus che scongiurerà la palese violazione delle leggi di natura.
Per confortare una delle figlie a lui predilette, il Re degli Dei decide però di tramutare il cacciatore nell’omonima costellazione, al fine di perpetrare in eterno la sua memoria.

Successivamente al dramma vissuto, Artemide non si lascerà più conquistare dalle inebrianti sensazioni dell’amore; la sua indipendenza e sfuggevolezza tornano ad essere robuste radici sopra le quali cresce forte e impavida.
Dallo straordinario repertorio di episodi idillico-naturalistici forniti da Ovidio c’è però un’altra vicenda degna di nota, nella quale è possibile scorgere ancora una volta la fugace presenza di Eros e Thanatos : si tratta del mito di Atteone.
Figlio di Aristeo e di Autonoe (discendente di Ares e Afrodite), nei suoi primi anni di vita viene allevato dal centauro Chirone, il quale con amore e attenzione insegna al piccolo ragazzo i segreti dell’arte della caccia.
Secondo il mito, nel corso di un’escursione nella selva di Gargafia durante una torrida giornata estiva, il fanciullo giunge ad una fonte nella quale trova Artemide e le sue ancelle intente a ristorarsi dopo un’estenuante battuta di caccia.

Rapito dalla straordinaria bellezza della dea, Atteone si sofferma ad ammirarne le armoniose forme, ma è questione di un attimo: colto di sorpresa, incrocia lo sguardo sbalordito e sempre più furibondo della dea; l’ira di Artemide è tale da suscitare grandissimo scompiglio fra le ninfe, alcune intente a rivestirsi frettolosamente, altre occupate a nascondere le proprie nudità tra le fresche acque della sorgente.
Nello straordinario dipinto di Delacroix (Saint-Maurice, 1798 – Parigi, 1863), opera facente parte di un ciclo a tema mitologico in cui, per ogni stagione, corrisponde una determinata vicenda ovidiana, è immortalato l’esatto istante in cui, quasi come nell’improvviso fermarsi del tempo, Artemide indica alle proprie compagne e seguaci il giovane intruso.

Contrariamente al suo principale rivale Ingres, il quale ricercava nelle proprie opere il perfezionismo tipico dello stile Neoclassico, Delacroix pone maggiore enfasi sul colore e sul movimento piuttosto che sulla nitidezza dei profili e sulla perfezione delle forme.

Le pennellate immediate, rapide e fortemente espressive, sono caratterizzate da una grande impetuosità creativa che coinvolge emotivamente lo spettatore, tramite le quali è in grado di vivere con grande trasporto la drammatica potenza della scena effigiata, concentrandosi sullo svolgimento delle azioni piuttosto che sulla corretta esecuzione accademica delle figure.
È nella rapidità d’idealizzazione che quel sentimento di separazione, quell’incontrollabile pulsione interiore prende corpo in Artemide, terminando in una scissione degli intenti: il giovane, travolto dall’Eros e stordito dalla sveltezza con cui si rincorrono gli eventi, sembra mutarsi imprevedibilmente in pietra, incapace di svincolarsi dal terreno e fuggire, mentre la dea, sempre più riluttante, viene progressivamente inghiottita dall’abissale magnetismo di Thanatos, preannunciando la tragica conclusione del fatale incontro.
Se nel mito di Orione si ha una stretta correlazione tra Eros e Thanatos, in una completezza tanto utopica quanto effettiva, in questo caso le due parti si integrano tramite la stessa separazione, ponendo al centro quella che di fatto è la dinamica reale della vita.
La natura circostante, quasi divenendo la prosecuzione dell’animo della divinità, freme e vibra, in un’animazione che sembra pronta ad avventarsi da un momento all’altro sulla figura di Atteone.
Con rapidità, Artemide scaglia dell’acqua contro il fanciullo, trasformandolo progressivamente in cervo.
Compiendo una regressione temporale e proseguendo nella narrazione dell’episodio mitologico, un’ulteriore opera degna di nota, sia per capacità tecnica dell’autore, sia per l’originalità con la quale è stata raffigurata, è la Morte di Atteone di Tiziano, il grande tonalista veneto del quale, nel precedente articolo, è già stata analizzata la splendida rappresentazione del mito di Callisto.

Nell’opera pittorica di Tiziano la ripresa dei modelli antichi è ben evidente: tale aspetto risulta infatti fondamentale nel concepimento artistico del XVI secolo, in cui la ripresa della produzione classica diventa un espediente tramite il quale stratificare l’interpretazione contemporanea con le vecchie raffigurazioni.
Anche in questo caso il paesaggio assume un ruolo fondamentale e la struttura compositiva è assolutamente innovativa: nelle illustrazioni di Ovidio il momento preciso della morte di Atteone è raramente rappresentato e quando questo accade, il giovane cacciatore viene ormai immortalato a trasformazione compiuta.
Nel caso specifico di Tiziano invece, al tragico finale è preferita la fase intermedia della metamorfosi: Atteone, in parte umano, in parte cervo, è in piedi e lotta disperatamente per difendersi dai propri cani, aizzati dalla collera di Artemide ed ormai incapaci di riconoscere nella parziale figura animalesca il loro padrone.
Eccezionale è il fatto che l’artista, nel concepire tale opera, sembri avere a mente le parole di Ovidio:
“Egli voleva gridare “sono Atteone, riconoscete il vostro padrone!”; ma le parole disobbedivano alla volontà” (Met., III, 229 ss.).
È in questo momento che lo spettatore, giunto quasi accidentalmente sul luogo del massacro, è costretto ad assistere da lontano alla triste sorte del cacciatore, mentre in primo piano, dinamica e feroce, Artemide scocca la prima freccia; anche in questo caso Tiziano sembra assecondare la narrazione di Ovidio:
“e solamente quando esalò l’ultimo respiro per le molte ferite, si calmò l’ira di Diana portatrice di faretra” (Met., III, 251-52).
Con la morte di Atteone, anche Eros muore, ricongiungendosi a Thanatos e tornando ad essere parte di un tutto che non ha inizio né fine ma che in verità è soggetto a costanti trasformazioni.
Giunti alla conclusione delle vicende mitologiche, è tempo di riprende la domanda inizialmente posta: in quale modo Phthonos, l’invidia, e Zelos, la gelosia, si originano e cosa hanno a che fare con i concetti di Amore e di Morte trattati?
Come già detto, Thanatos è la componente distruttiva presente nella psiche di uomini e dei: il suo significato è mutevole e include molteplici sfaccettature che sono drasticamente cambiate nel tempo, partendo dall’originale concezione greca fino a giungere alla più mite e rispettata visione latina; tuttavia, ciò che resta invariato è il principio di separazione che è essenza stessa della morte.
Thanatos è negazione di Eros e di conseguenza tutto ciò che è dissociazione dell’Amore ha origine dalla Morte, così come Phthonos e Zelos.
Un punto fondamentale che non deve essere assolutamente dimenticato è che Thanatos è e rimane parte fondante dell’esistenza: è un qualcosa che prescinde l’aspetto puramente materico e materiale, andando a comprendere la stessa generazione spirituale di emozioni e pensieri.
Nella cessazione quindi si ha al contempo nuova nascita, in un ciclo eterno che mai inizia e mai finisce: senza la vita non ci sarebbe la morte e senza la morte non vi sarebbe la vita, intesa in ogni suo aspetto, dal germoglio che diviene fiore al giorno che si tramuta in notte.
Thanatos è parte integrante dell’uomo, del sole e degli astri: può essere un tramonto, una stella cadente o la morte di un dolore, dal quale con gioia può avere origine nuova speranza.
Thanatos dunque, come Eros, può racchiudere il bene e può essere il male; non si hanno nette distinzioni, poiché la Natura stessa ci insegna che la vita è composta da lenti ma continui passaggi, in cui un elemento non può esistere in assenza dell’altro.
Senza luce non si conoscerebbero le ombre, così come senza la morte non si conoscerebbe l’amore.
Alessia Bianchi
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