Dal 1° marzo al 22 maggio 2022 la Galleria Borghese ospita una mostra dal titolo “Guido Reni a Roma. Il sacro e la natura”, occasione per presentare al pubblico la Danza Campestre, parte delle collezioni del cardinale Scipione Borghese, riscoperta nel 2008 sul mercato antiquario e da poco entrata nel museo con il numero di inventario 609, ultima tra le acquisizioni dell’istituzione.
L’esposizione, curata dalla direttrice Francesca Cappelletti, è accolta all’interno delle sale museali, per permettere un costante e significativo dialogo tra le opere in mostra – evidenziate dal colore blu dei pannelli – e i capolavori della collezione permanente.
Il percorso di visita inizia al piano terra, nel salone d’ingresso, dove quattro pale d’altare e uno stendardo raccontano i primi anni romani di Guido Reni e la sua rete di contatti e di committenti dentro e fuori Roma.

La mostra si apre con la Crocifissione di san Pietro (1604-05) dei Musei Vaticani, commissionata da Pietro Aldobrandini per la chiesa di San Paolo alle Tre Fontane. Lo stesso soggetto era stato dipinto da Caravaggio per la cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo: narra Malvasia che sarebbe stato il Cavalier d’Arpino a suggerire di affidare l’opera a Reni, proprio per screditare il lombardo.
Nella stessa sala è presente il Martirio di santa Cecilia (1601), prima opera romana di Guido Reni, richiesta dal cardinale Paolo Emilio Sfondrato per la chiesa di Santa Cecilia in Trastevere: l’artista bolognese entra pienamente nel contesto controriformato romano in cui l’inventio del corpo di un santo, in questo caso di quello della titolare della basilica trasteverina, diviene occasione di importanti committenze artistiche.
Seguono lo stendardo con San Francesco riceve le stimmate e San Francesco con i confratelli (1610-12) per la Confraternita delle Sante Stimmate, la Trinità con la Madonna di Loreto e il committente cardinale Antonio Maria Gallo (1603-4) proveniente da Osimo e infine il Martirio di santa Caterina d’Alessandria (1605-6), conservato ad Albenga e legato al nome di Alessandro Costa, fratello del celebre collezionista di Caravaggio, il banchiere ligure Ottavio Costa.

Il percorso continua con San Paolo rimprovera san Pietro penitente (1609 circa), tela in cui il paesaggio è reso in senso drammatico e fa da sfondo alla scena sacra interpretata con grande patetismo. L’accostamento con la Paolina Bonaparte rimanda all’interesse dimostrato da Antonio Canova per il dipinto, venduto nel 1811 dalla famiglia Sampieri di Bologna, antica committente di Reni.
Il David con la testa di Golia eseguito da Battistello Caracciolo e appartenente alla collezione permanente, invece, è confrontato con l’omonimo soggetto realizzato da Guido Reni e bottega e conservato agli Uffizi. Quest’ultimo dipende dalla versione totalmente autografa del Louvre, dipinta in origine per Ottavio Costa. Anche Battistello conobbe certamente la versione francese: l’accostamento delle due opere, in questa sede, permette di riflettere non solo sulle derivazioni da un tema iconografico di successo ma anche sui diversi orientamenti che stava prendendo il caravaggismo. La presenza del David (1623-24) di Gian Lorenzo Bernini offre ulteriori suggestioni sui rapporti tra pittura e scultura.

Nella sala successiva, la Strage degli innocenti (1611) della Pinacoteca Nazionale di Bologna è posta in armonico contrasto con Apollo e Dafne (1622-25) di Bernini; le due opere sono qui unite dal grido silenzioso dei protagonisti e dal vorticare dei corpi: immobilizzati per sempre nel dipinto di Reni e in eterno movimento nella scultura di Bernini.
In modo altrettanto significativo, al Ratto di Proserpina (1621-22) del sommo scultore napoletano viene affiancata la tela Atalanta e Ippomene (1615-18 ca.) di Reni: si tratta della versione del Museo di Capodimonte (ne esiste una seconda versione poco più tarda conservata al Prado). Sorprendono la tensione dei corpi, l’incrocio delle membra, lo studio dell’anatomia, e gli elementi derivati da stimoli delle antichità classiche che si fondono alla conoscenza dei dipinti caravaggeschi, da cui è mutuata l’attenzione al colore e al chiaroscuro.

Il confronto con Caravaggio continua nella sala del Sileno, dove è presentata la tela Lot e le figlie (1615-16). Guido rifugge l’erotismo dell’episodio e sceglie di ritrarre i soggetti con un taglio a mezza figura, prediletto anche dagli artisti della collezione permanente a cui il dipinto è accostato: primo tra tutti Caravaggio, ritenuto l’inventore romano di questo formato compositivo. La tela venne probabilmente realizzata da Reni durante un rientro nell’amata Bologna.
Al primo piano, nella loggia di Lanfranco, è ospitata la sezione della mostra dedicata alla natura. La scelta allestitiva prevede una lunga fila di pannelli affiancati orizzontalmente al centro della sala.

Alla Danza campestre (1605-6), vera protagonista dell’esposizione, si affianca un altro esempio della pratica naturalistica di Reni, il Paesaggio con scherzi di amorini (1603 ca.).
Le opere sono indicative di un aspetto della produzione di Guido meno noto e permettono di ripensare il percorso romano dell’artista: la città gli offre nuovi stimoli e gli permette di formarsi sui modelli antichi, che si propone di sfidare. Nella Danza campestre, infatti, insieme alla scelta di un soggetto iconografico particolare, Reni desidera ispirarsi all’arte classica e in particolare all’ideale di mimesi della natura, ottenuto con l’artificio delle due mosche dipinte a grandezza naturale nell’angolo superiore di desta.
L’idea della sala è quella di presentare le sperimentazioni e gli sviluppi della pittura di paesaggio in corso a Roma all’inizio del Seicento, documentando ampiamente l’apporto fondamentale dei pittori bolognesi.
Tra i precedenti per la Danza si annoverano i dipinti degli emiliani Niccolò dell’Abate (Paesaggio con dame e cavalieri, 1550 ca.) e Agostino Carracci (Festa campestre, 1590 ca.), e due paesaggi su rame di Paul Bril, a testimonianza dell’altro filone di ricerca nell’ambito della pittura paesaggistica, quello portato avanti dai fiamminghi.

Si accostano al capolavoro riscoperto di Reni anche due delle sei scene mitologiche a olio su rame del veneziano Carlo Saraceni (Arianna abbandonata e Salmace ed Ermafrodito, 1608 ca.). Non manca la presenza di un altro celebre bolognese, Domenichino, con il Paesaggio con Silvia e satiro (1615 ca.) e del conterraneo Giovan Francesco Grimaldi, autore di una tarda riflessione sullo stesso genere (Paesaggio con cascata, 1678).
Alle pareti è valorizzato il ciclo di tele di Francesco Albani (le Quattro stagioni, ante 1621), appartenente alla collezione della Galleria.
Completano la mostra tre disegni: la straordinaria Festa campestre (1587-88) di Annibale Carracci, il Paesaggio con figura distesa presso un fiume (1590-1600) di Carracci e scuola e, infine, lo Studio per l’Alba separa il Giorno dalla Notte (1598-99) di Guido Reni, soggetto che richiama l’affresco del casino Pallavicini Rospigliosi, già di Scipione Borghese, concluso nel 1614, anno in cui l’artista lascia Roma per rientrare a Bologna.

Il dialogo con le opere della collezione, e in particolare con la scultura, è tra i punti forti della mostra, che ha il merito di avviare nuove riflessioni sui primi anni romani dell’artista emiliano, sul suo rapporto con la pittura di paesaggio e sul contesto in cui svolse le proprie sperimentazioni.
La Galleria Borghese dimostra nuovamente di essere in grado di valorizzare parimenti la collezione permanente e le opere in mostra, così come era accaduto con l’esposizione “Damien Hirst. Archeology now” (giugno-novembre 2021, a cura di Anna Coliva e Marco Codognato).
Il catalogo che accompagna la mostra è edito da Marsilio e curato da Francesca Cappelletti, con saggi di Daniele Benati, Anna Coliva, Francesco Gatta, Raffaella Morselli e Maria Cristina Terzaghi. L’interessante appendice ricostruisce l’attività romana di Guido Reni e la sua presenza in città, invitando a proseguire la visita al di fuori delle sale museali: con l’occasione sono state programmate aperture straordinarie della Cappella dell’Annunziata nel Palazzo del Quirinale e del salone centrale del Casino dell’Aurora Pallavicini Rospigliosi.
Chiara Dominioni
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