Ingres, es-tu là?

Sembra ormai appurato che abbiamo un problema con le mostre; lo avvertiamo spesso e quando serve ne rendiamo conto. A dire il vero la questione inizia a sentire il peso degli anni, e ciò ci fa pensare che certi discorsi, alcune critiche e qualche polemica, oggi com’è oggi, siano diventate persino inutile a volersi ripetere. Di fronte a un panorama come questo, il cui orizzonte non lascia intravedere che stia per arrivare un’inversione di tendenza, l’unico modo per consolarci è pensare che l’occasione di una mostra sia comunque buona, nella peggiore delle ipotesi, per vedere dipinti che altrimenti toccherebbero solamente di rado località a noi più vicine rispetto ai luoghi dove sono abitualmente conservati; ragion per cui, ogni volta, non ce la sentiamo d’invitare al risparmio sul costo del biglietto, nemmeno quando si rivela particolarmente oneroso in rapporto alla qualità dell’esperienza. Per quanto mi riguarda avrei voluto scrivere una recensione diversa, ma la circostanza non me ne ha dato il motivo. Ammetto sconfortato che per un momento non sono stato neanche tanto sicuro di volerla scrivere questa recensione, con la speranza di lasciare, attraverso il mio (non) contributo, che il tempo facesse il suo corso e che la mostra passasse nell’oblio. (Tanto la visita mi aveva creato un vuoto dentro che mi sono imposto di non sprecare più carta e fatiche per gli appunti con i quali, solitamente, rivivo le mostre nel periodo che segue l’averle viste e il successivo scriverne).
Ciò premesso, cosa c’è che proprio non va con “Jean Auguste Dominique Ingres e la vita artistica al tempo di Napoleone”?

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Fig. 1 Il cartellone della mostra, in scena a Palazzo Reale – Milano dal 12 marzo al 23 giugno 2019. L’opera il cui particolare fa da sfondo alla réclame è Jean Auguste Dominique Ingres, Napoleone I sul trono imperiale, 1806, olio su tela, 263×163 cm, Parigi, Hôtel national des Invalides, Musée de l’Armée.

Volendo rendere giustizia all’impegno dei curatori e alla lodevolezza dell’iniziativa, diremo che è un progetto nato male. Non certo l’unico della sua specie; abbiamo ricordato diverse volte “Manet e la Parigi moderna”, e anche “Dürer e il Rinascimento tra Germania e Italia” seguiva un poco questa logica. La domanda vera è, semmai: c’era proprio bisogno dell’ennesima mostra raccogliticcia, confusionaria, mastodontica e cucita apposta su un bisogno d’arte tutto consumistico, il quale ricalca la falsariga delle più attuali e spregiudicate logiche di mercato? Il meccanismo è sempre lo stesso, collaudato e duro a morire proprio come le cattive abitudini: raccogliamo di ogni cosa sotto il cappello unico di qualche non meglio definito periodo storico-artistico (tanto di quel materiale che si potrebbe riempire un corso semestrale all’università), e dopo apponiamo sul cartellone il nome di maggiore spicco, sia per importanza nel panorama di questo prescelto contesto, sia per notorietà goduta presso il grande pubblico. E tutto, non sempre ma questa volta sì, condito da un preteso legame con il territorio che ha più il sapore di un’autocelebrazione.

Anche in questo caso, il pittore titolare della mostra è una presenza dal ruolo indefinito: è l’ospite d’onore, ma non gli viene lasciato spazio di parlare. Si racconta dagli esordi (bellissimi i due torsi maschili del 1799 e 1801), ma presto viene interrotto. Poi cerca di riprendere il filo del discorso, ma gli altri sono di più e fanno rumore. Allora sfodera i pezzi da novanta, ma si lascia prendere dall’amore che ogni artista è aduso provare nei confronti persino del suo più semplice disegno e non fa i conti con lo spazio a sua disposizione. In altre parole, Ingres si trova per la maggior parte della mostra un po’ qua e un po’ là. Affogato nel mare magnum dei suoi contemporanei, a partire dai compagni di alunnato nello studio di Jacques-Louis David, cui si aggiungono altri di quel periodo – fra i quali bisogna menzionare la pittrice di Maria Antonietta, Élisabeth Vigée Le Brun –, fino ai nomi grandi e piccoli degli italiani che hanno raccolto la lezione del neoclassicismo. Pittori e scultori che in un altro contesto ci avrebbero guadagnato, artisti che sempre più meriterebbero mostre a loro dedicate invece di accontentarsi sempre di essere comprimari a favore dei più celebri. E quando, verso la fine, le sale iniziano a dedicarsi interamente alle tematiche della pittura di Ingres, le opere in esposizione non sono né le migliori né le più iconiche della sua carriera.

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Fig. 2 A sinistra: Élisabeth Vigée Le Brun, Ritratto della principessa Karoline von Liechtenstein come Iris, 1793, olio su tela, 222×159 cm, Liechtenstein, The Princely Collections. A destra: Perre-Paul Prud’hon, Ritratto di Giovanni Battista Sommariva, 1813, olio su tela, 210×156 cm, Milano, Pinacoteca di Brera.

Numerose le scelte infelici di questa mostra. Tanto per cominciare, partendo dall’inizio, è quanto meno irragionevole che, delle molte opere esposte nella rassegna sul neoclassicismo francese che apre la visita, proprio “La venditrice di amorini” di Joseph-Marie Vien, il quadro-manifesto del nuovo gusto per l’antico, venga ricordato per la fama che riscosse nel 1763, al Salon del Louvre, ma poi rimanga senza un’approfondita spiegazione. E fa storcere il naso che, sulla parete affianco, invece de “Il giuramento degli Orazi” di David ci sia una copia ad acquarello, di un anonimo pittore, e ridotte dimensioni, proveniente dal Musée Ingres di Montauban. Passando nella sala successiva, le cose non migliorano. Qui ci sono alcuni ritratti della produzione giovanile di Ingres (o forse, almeno in un caso, del più ampio atelier di David). Entrando, però, il visitatore trova ad accoglierlo non già il suo autoritratto (come recita la didascalia, salvo fare il nome di qualcun altro come autore) ma pure qui la copia di non certo eccelsa qualità eseguita da Julie Forestier, che apprendiamo dall’audioguida essere stata la fidanzata di Ingres in quel lontano 1807.

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Fig. 3 Joseph-Marie Vien, La venditrice di amorini, 1763, olio su tela, 98×122 cm, Fontainebleau, Musée National du Château.

Da qui in poi, eccettuata la monumentale tela de “Il sogno di Ossian”, testimone figurativo del successo che stava ottenendo l’opera del poeta scozzese James Macpherson, continua il catalogo ricco e vario degli artisti a cavallo fra neoclassicismo e romanticismo. Superato il ciclo di dipinti ispirati alla Storia e alle leggende nazionali, dalle gesta di Bonaparte alla vicenda di Guglielmo Tell, ci s’imbatte in una grande sala che raccoglie pittura, scultura – busti di Napoleone togato o come Pericle, una Maddalena in meditazione sulla morte di Antonio Canova (tirato alquanto per i capelli) –, un ciclo di incisioni di Andra Appiani, anch’esse narranti i fasti di Bonaparte, e una raccolta di miniature, smalto su rame, opera di Adèle Chavassieu D’Haudebert, che riproducono una collezione di pitture appartenute al politico e collezionista milanese Giovanni Battista Sommariva.

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Fig. 4 Jean Auguste Dominique Ingres, Il sogno di Ossian, 1813, olio su tela, 348×275 cm, Montauban, Musée Ingres.

Ecco poi venire il pezzo forte della mostra. Napoleone in trono, con le vesti regali ci osserva mentre passiamo nella sala a lui dedicata, dall’angolo in cui è stato posizionato, e magari ci soffermiamo a confrontare l’opera con i disegni che ne rappresentano la genesi e lo sviluppo. Questa è forse l’unica sala concepita adeguatamente. Altrimenti, per il resto, come si diceva, di Ingres non figurano che le opere il cui senso viene meno se non accompagnate da quelle più importanti. Dove sono il “Bagno turco”, se non consideriamo quello studio di nudo femminile con tre braccia, “Monsieur Bertin”, quintessenza della ritrattistica ingresiana, e la “Grande odalisca”? Di questa, poi, la curatela non sembra essere riuscita a portare da noi che una copia a grisaglia, monocromo in tonalità di grigio, impudentemente spacciata come addirittura più interessante della sua versione originale (sfido lo storico dell’arte più aperto di vedute a non sentire il rumore delle unghie sui vetri). E “La sorgente”? “La bagnante di Valpinçon” che avrebbe ispirato Man Ray? “Giove e Teti”? “L’odalisca e lo schiavo”? L’autoritratto degli Uffizi? Rimasti dove si trovano, perché con la scusa di raccontare “la vita artistica ai tempi di Napoleone” a Milano non si vedono.

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Fig. 5 Jean Auguste Dominique Ingres, Grande odalisca, (versione a grisaille), 1830 ca, olio su tela, 83,2×109,2 cm, New York, The Metropolitan Museum of Art.

Finalmente l’ultima sala. Qui, in mezzo ad un’altra tornata di una mole considerevole, interessante ma piuttosto scompaginata di materiale grafico, si trovano una copia dell’autoritratto di Raffaello (niente di che, in verità), un’altra tela monumentale, questa volta raffigurante l’episodio evangelico della consegna delle chiavi a san Pietro, e dulcis in fundoLa morte di Leonardo da Vinci, un piccolo dipinto che s’inserisce nella temperie culturale romantica che faceva della Storia un grande romanzo d’evasione illustrato. E non c’è mistero che l’abbiano messo proprio per omaggiare l’uomo più chiacchierato della Storia dell’arte nel cinquecentenario della morte.

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Fig. 6 A sinistra: Jean Auguste Dominique Ingres, Gesù consegna le chiavi a san Pietro, 1818-20, olio su tela, 280×217 cm, Montauban, Musée Ingres. A destra: Jean Auguste Dominique Ingres, La morte di Leonardo da Vinci, 1818, olio su tela, 40×50,5 cm, Parigi, Petit Palais Musèe des Beaux Arts de la ville de Paris.

Insomma, se lo scopo era quello di far conoscere la pittura di Ingres (Montauban, 1780 – Parigi, 1867) direi che questa mostra è stata proprio un’occasione mancata. Male, molto male!

Niccolò Iacometti

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