Perché non ci sono state grandi artiste?

“Perché non ci sono state grandi artiste?” con questa provocatoria domanda, nel 1971 la storica dell’arte e docente universitaria Linda Nochlin (Brooklyn, 1931 –2017) intitolava un lungo saggio pubblicato sulla rivista “ARTnews”, destinato a divenire un testo fondamentale, non solo per gli allora recenti women’s studies nati in ambito femminista, ma anche perché introdusse un cambio di prospettiva nell’approccio a tutta la storia dell’arte.        
Lo studio aveva preso forma l’anno precedente, nel solco dell’appena formatosi Movimento di Liberazione delle Donne, che viene infatti esplicitamente menzionato nel significativo sottotitolo che compariva nella versione originale: “Effetti sulla storia dell’arte e sulla scena dell’arte contemporanea prodotti dal Movimento di Liberazione delle Donne. Ovvero, come stupide domande richiedano lunghe risposte …”. Proprio in queste ultime parole si racchiude la natura del saggio che, attraverso un’articolata ma assai scorrevole serie di argomentazioni, non prive di considerazioni ironiche e dissacranti, cerca di dare una spiegazione all’annosa questione della quasi totale assenza di figure femminili nella storia dell’arte, anche se, come afferma la stessa Nochlin, il discorso potrebbe essere ampliato ad includere pressoché tutti i campi del sapere, dalla letteratura alla scienza.         

Fig. 1 Artemisia Gentileschi, Venere dormiente, 1625-1630, Richmond, Museo di Belle Arti della Virginia

Occorre, secondo l’autrice, superare innanzitutto il presupposto suggerito capziosamente dalla domanda nei termini in cui essa è formulata, ovvero che, se nella storia dell’arte e, più in generale, nella cultura, non si osserva – o, comunque, si tratta di un fenomeno raro – la presenza di donne di rilievo è perché la “grandezza” non appartiene alla natura femminile. Presupposto, questo, avvalorato nel corso dei secoli da teorie più o meno scientifiche riguardanti il “funzionamento” e le presunte predisposizioni dell’uno o dell’altro sesso verso determinati tipi di attività.            
Ma anche le argomentazioni elaborate negli ambienti femministi per confutare tali principi sono considerate dall’autrice non del tutto soddisfacenti, come la tesi secondo la quale l’arte “femminile” non possa essere giudicata secondo lo stesso metro che si utilizza nei confronti della produzione artistica maschile, perché dotata di caratteristiche peculiari e non confrontabili. Infatti, sostiene l’autrice, non esistono prove che avvalorano l’idea secondo la quale l’arte creata da donne si distingua per una maggiore delicatezza, eleganza o una più accentuata sensibilità verso determinati temi o soggetti. Al contrario, vale lo stesso principio che da sempre regola la storia dell’espressività umana e i suoi mutamenti di gusto, di valori culturali ed estetici: le artiste appartenenti ad una certa epoca, corrente o movimento, mostrano affinità stilistiche e tematiche con la controparte maschile, senza distinzioni di genere.  
Una volta chiariti questi aspetti, l’autrice illustra la sua prospettiva, di primo acchito quasi spiazzante: il punto cruciale, infatti, risiede secondo lei nell’accettare che “per quanto ne sappiamo, non ci sono mai state grandi artiste – sebbene ne siano esistite di interessanti e capaci, non sufficientemente studiate e apprezzate […]. Tra le donne, non esistono i corrispettivi di Michelangelo o Rembrandt, Delacroix o Cézanne, Picasso o Matisse”.
Ciò non è tuttavia dovuto a particolari mancanze di predisposizione o, ancora peggio, incapacità; i motivi sono da ricercare, piuttosto, nei concetti di opera d’arte e di artista analizzando tutto ciò che essi comportano. Infatti, realizzare un’opera d’arte, prosegue la Nochlin “significa padroneggiare un linguaggio formale coerente, più o meno vincolato o svincolato dalle convenzioni, dagli schemi o dai sistemi di nozioni coevi, un linguaggio che deve essere appreso o sviluppato attraverso lo studio, un apprendistato, o un lungo periodo di esperienze personali”.         

L’arte, insomma, non è tanto una questione di espressione della propria interiorità o di inclinazione naturale, ma dipende in larga misura dalla possibilità di accedere all’apprendimento di tutti i complessi aspetti tecnici, stilistici e culturali propri della disciplina e dal loro esercizio costante.        
Se si considera l’esclusione, sino a tempi relativamente recenti, della donna dalle istituzioni sociali, politiche o scolastiche e il suo essere relegata ad attività e ruoli considerati più consoni, si ottiene un’efficace spiegazione della questione della disuguaglianza di genere, in questo come in altri ambiti.

Fig. 2 Élisabeth Vigée Le Brun, Autoritratto, 1790, Firenze, Gallerie degli Uffizi

A partire da tale nuovo punto di vista sull’importanza delle strutture sociali ed educative e del loro ruolo nella formazione degli artisti, la Nochlin propone quindi di ridimensionare il concetto di “genialità”, inteso come fattore innato e quasi miracoloso, solitamente attribuito ai grandi protagonisti maschili della storia dell’arte quale causa primaria della loro grandezza. Senza negare l’indiscutibile talento dei personaggi citati nel saggio, da Giotto fino a Pollock, la Nochlin suggerisce di considerarne le vicende con maggiore spirito critico, al di là di un certo tipo di narrazione di stampo romantico, troppo incentrata sull’individuo e slegata dalla realtà circostante. Ancora una volta, si è invitati a considerare l’arte dal punto di vista della società nel suo complesso, tenendo conto delle strutture, i gruppi e i sottogruppi – più o meno ufficiali – che di volta in volta mediavano il rapporto tra artisti e collettività.        
Insomma, conclude la studiosa, “l’arte, sia per quanto riguarda l’evoluzione dell’artista sia per la natura e la qualità dell’opera in sé, è l’esito di una situazione sociale, della cui struttura è elemento integrante, mediata e determinata da specifiche e ben definite istituzioni, che possono essere le accademie, il mecenatismo oppure i miti dell’artista divino creatore, eroe o emarginato”.          
Una volta conclusa questa approfondita disanima, la Nochlin illustra alcuni esempi concreti di come tale “situazione sociale” di fatto limitasse alle donne la possibilità di esprimere a pieno il proprio talento e le proprie aspirazioni.    

Fig. 3 Henri Fantin-Latour, La lezione di disegno nello studio, 1879, Bruxelles, Museo Reale delle Belle Arti del Belgio

Accadeva, ad esempio, con quella che viene definita la “questione del nudo”, ovvero l’impossibilità, che perdurò sino almeno alla fine dell’Ottocento, per le donne che desideravano apprendere a dipingere di avere a disposizione dei modelli nudi. Questa limitazione, motivata da fattori legati alla convenienza e alla morale, portava con sé una serie di implicazioni che, di fatto, relegavano le donne alla pratica di soggetti considerati “minori”, come il paesaggio o la natura morta. Il divieto di disporre di modelli nudi comportava infatti l’impossibilità di esercitarsi in modo completo nella pratica del disegno, disciplina basilare per qualunque espressione artistica; saper padroneggiare l’anatomia umana, inoltre, era fondamentale per praticare generi considerati più prestigiosi, come la pittura di storia o religiosa, di appannaggio, quindi, quasi esclusivamente maschile.        
Allargando lo sguardo alla società nel suo complesso, al di là degli ambienti artistici, la situazione non era molto diversa: la cosiddetta “educazione della gentildonna” ottocentesca, ampiamente delineata da manuali dell’epoca e dalla letteratura coeva, ammetteva per le donne la pratica artistica unicamente come attività di svago dilettantistico.

Fig. 4 Berthe Morisot, La lettura, 1973, Cleveland Museum of Art, Cleveland

Alla luce di queste considerazioni, se si osservano i casi di quelle grandi artiste che, nel corso della storia, riuscirono effettivamente ad emergere e ad affermarsi in condizioni di quasi parità con la controparte maschile, uno dei comuni denominatori individuati dalla Nochlin è una certa dose di anticonformismo che, in modo più o meno accentuato, permise loro di emanciparsi dal dilettantismo e dal ruolo predefinito di “angelo del focolare”. Inoltre, osserva l’autrice, la quasi totalità delle più celebri artiste, da Artemisia Gentileschi a Berthe Morisot e fino alla prima metà del Novecento, risulta essere in qualche modo legata a una personalità artistica maschile già affermata, in molti casi il padre. 

Fig. 5 Rosa Bonheur, La fiera dei cavalli, 1852-1855, Metropolitan Museum of Art, New York

L’ultima parte del saggio è dedicata alla pittrice francese Rosa Bonheur (Bordeaux, 1822 – Thomery, 1899). Artista di successo, specializzata nella rappresentazione di animali, le vicende della Bonheur racchiudono, secondo l’opinione dell’autrice, le contraddizioni precedentemente delineate. Incoraggiata dal padre, a sua volta pittore, a dedicarsi alla carriera artistica, visse in modo anticonformista nei costumi e nelle scelte di vita, pur senza rinnegare l’importanza delle convenzioni sociali che interessavano soprattutto il genere femminile.           
“Perché non ci sono state grandi artiste?” è considerato un testo fondamentale per la storia dell’arte femminista: non solo, infatti, gettò le basi per i successivi studi di genere, ma ebbe anche degli interessanti risvolti “concreti” nel panorama culturale del secondo Novecento. Pochi anni dopo la sua pubblicazione, nel 1976, Linda Nochlin curò con Ann Sutherland Harris la mostra itinerante “Women Artists 1550-1950”, che esponeva per la prima volta circa 150 dipinti di artiste europee e americane, molte delle quali all’epoca sconosciute. Una simile operazione sarebbe stata compiuta nel 1980 in Italia da Lea Vergine e dalla sua storica esposizione “L’altra metà dell’avanguardia”. Le riflessioni che questo testo suscita, tuttavia, possono trovare un’interessante applicazione anche nel modo di guardare alla storia dell’arte nella sua universalità. Esso, attraverso una serie di domande cruciali, invita ad un approccio più critico alla disciplina, a considerarne le vicende non solo dal punto di vista di singoli personaggi, fatti convenzionali e luoghi comuni, per riflettere sui contesti, sulla società con le sue evoluzioni, e sulla rilevanza della narrazione critica che, di volta in volta, restituisce questi elementi.

Chiara Franchi

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