La riscoperta di Rosa Bonheur

Nel 2022 nella cittadina di Thomery, nei pressi della foresta di Fontainbleu, in Francia, si celebra un’importante ricorrenza: il bicentenario della nascita dell’artista e scultrice Rosa Bonheur (Bordeaux, 1822 – Thomery, 1899), che proprio nel castello di origine quattrocentesca lì situato, più precisamente nella frazione di By, nel 1859 stabilì il proprio atelier e la dimora in cui visse sino alla morte, avvenuta nel 1899. Annoverata fra i massimi esponenti del genere animalier, Rosa Bonheur fu fra i più popolari artisti francesi del suo tempo: richiesta sia nel resto d’Europa che oltreoceano, ammirata da grande pubblico, sovrani, artisti ed esponenti del panorama culturale, la fama di questa eccentrica pittrice si affievolì in seguito alla sua morte, per poi essere oggetto di una riscoperta avvenuta negli ultimi decenni, grazie anche alle ricerche condotte nell’ambito degli women’s studies. La storica dell’arte Linda Nochlin (Brooklyn, 1931 – 2017), ad esempio, dedicò la parte conclusiva del suo saggio Perché non ci sono state grandi artiste? (1971), di cui abbiamo trattato di uno dei nostri più recenti articoli, ad un excursus proprio su Rosa Bonheur, la cui vicenda è considerata dalla studiosa rappresentativa della condizione delle artiste professioniste che si sono susseguite nei secoli, fra successi, contraddizioni e stereotipi con cui confrontarsi.      
Ciò che viene maggiormente messo in luce quando si tratta la storia di Rosa Bonheur, in effetti, è l’anticonformismo delle sue scelte di vita e di costume, contrastanti con quelle che erano le rigide convenzioni sociali e morali a cui le donne erano chiamate ad attenersi, così come la specificità del genere pittorico a cui dedicò la propria carriera, distante dalle edulcorate scene di genere, dalle nature morte o dai delicati paesaggi considerati più consoni all’educazione di una gentildonna. È interessante, tuttavia, approfondire le vicende di questa artista anche da un punto di vista più critico, prendendo in considerazione il suo percorso artistico e il suo inserimento nel panorama culturale dell’epoca.        

Fig. 1. George Stubbs, Whistlejacket, 1762 circa, Londra, National Gallery

Cresciuta a Parigi, fu il padre Raymond Bonheur (1796 – 1849), a sua volta pittore paesaggista e ritrattista, ad incoraggiare Rosa e gli altri figli a perseguire la carriera artistica e a impartirle i primi insegnamenti. Nonostante la frequentazione del Louvre, dove, in linea con i percorsi educativi tradizionali, aveva studiato e copiato le opere dei maestri del passato, sin dall’infanzia l’artista aveva manifestato una particolare predilezione per la pittura di animali, interesse che aveva sviluppato anche grazie alla disponibilità di un ampio campionario di bestiame, osservato dal vivo nelle campagne intorno a Parigi. Si era specializzata quindi nell’animalier, genere artistico che si era diffuso proprio nel XIX secolo, prevalentemente in Francia, nel più ampio alveo della pittura realista: come suggerisce il nome, soggetti prediletti erano gli animali, raffigurati solitamente da soli o in netta predominanza rispetto alla componente umana o paesaggistica. Originatasi come corollario di generi considerati più autorevoli – i primi “animalisti” erano artisti preposti alla realizzazione degli animali contenuti all’interno di scene storiche o mitologiche – questo tipo di pittura era gerarchicamente assimilata al paesaggio o alle scene di genere e, nonostante fosse allo stesso modo considerata poco prestigiosa, incontrava ampiamente il gusto della nuova committenza borghese.       
Proprio la necessità di approfondire e osservare dal vivo i protagonisti dei propri dipinti aveva portato la Bonheur a frequentare assiduamente non solo la campagna, ma anche fiere ed esibizioni di animali e addirittura mattatoi: il metodo di lavoro seguito dall’artista era infatti tradizionale e prevedeva la realizzazione di schizzi e disegni preparatori dal vero, mentre la costruzione dell’opera avveniva in atelier. Da qui aveva avuto origine la nota decisione di iniziare a indossare i pantaloni, più comodi e pratici delle ampie gonne indicate dalla moda femminile dell’epoca. Una scelta non banale, per la quale l’artista aveva dovuto ottenere un’apposita autorizzazione dalla prefettura di Parigi e che è stata letta in seguito come un tentativo di emanciparsi dall’immagine stereotipata a cui dovevano conformarsi le donne, anche se fu la stessa Bonheur a ribadire che le ragioni erano esclusivamente pratiche e limitate all’ambito lavorativo.

Fig. 2. Rosa Bonheur, Aratura nelle campagne di Nevers, 1845, Parigi, Musée d’Orsay

L’esordio pubblico avvenne nel 1841 al Salon, storica esposizione che si teneva presso il Louvre, in occasione della quale la giovane Rosa espose alcuni esemplari raffiguranti animali di campagna che, dato l’apprezzamento suscitato, contribuirono a farla conoscere al grande pubblico.        
Presente a più riprese anche ai Salon successivi, nel 1848 l’artista venne insignita della medaglia d’oro per l’opera Buoi e tori. Razza Cantal. Il successo ottenuto aprì la strada a prestigiose committenze, come quella ricevuta dallo stato francese e che portò alla realizzazione di uno dei dipinti più celebri, Aratura nelle campagne di Nevers, conclusa nel 1849. Tela di imponenti dimensioni, dal formato orizzontale, l’Aratura raffigura due file di buoi intenti a trascinare i pesanti aratri, guidati da un piccolo gruppo di contadini, immersi in un vasto scenario naturale, dalla luminosità diffusa. Ciò che si impone sin dal primo sguardo è proprio l’incedere degli animali, che domina la fascia centrale del dipinto per quasi tutta la sua lunghezza e sovrasta nettamente la presenza umana. L’aspetto su cui l’artista sembra voler porre l’accento è proprio la solennità del bestiame e del compito che è chiamato a svolgere; ad emergere è inoltre la capacità di rappresentazione degli elementi più propriamente paesaggistici, come le zolle di terra in primo piano, rese con maestria e attenzione ai dettagli.     

Fig. 3. Rosa Bonheur, La fiera equina, 1852-55, New York, Metropolitan Museum of Art

Il 1853 fu l’anno della Fiera equina, probabilmente la più celebre opera di Rosa Bonheur. Ambientata presso il mercato dei cavalli di Parigi, frequentato di persona dall’artista, la scena si contraddistingue di nuovo per l’ampio formato e per la vitalità impressa dal tumultuoso moto dei cavalli, a cui fanno eco i concitati gesti degli uomini; le caratteristiche stilistiche sembrano richiamare gli esiti di Géricault e Delacroix. La vendita di quest’opera ad un collezionista britannico decretò il successo internazionale della Bonheur: La fiera equina venne infatti esibita in tutto il Regno Unito, persino alla presenza della regina Vittoria, per poi giungere negli Stati Uniti dove, attraverso vari passaggi di proprietà, nel 1887 confluì nella collezione del Metropolitan Museum of Art, dove ancora oggi è conservata.         
Non mancarono tuttavia anche riconoscimenti dai connazionali: nel 1865, infatti, l’artista, ormai pienamente affermata, venne insignita dall’imperatrice Eugenia della Legion d’Onore, la più alta onorificenza tributata dallo stato francese.

Fig. 4. Rosa Bonheur, Ritratto del Colonnello William F. Cody, 1889, Cody, Buffalo Bill Center of the West, Whitney Western Art Museum

La fama di Rosa Bonheur si era intanto estesa anche oltreoceano, sia grazie all’arrivo negli Stati Uniti di alcune sue opere, sia in seguito a un curioso incontro avvenuto nella nativa Francia. Proprio lì, infatti, nel 1889 l’artista conobbe William Frederick Cody (Le Claire, 1846 – Denver, 1917), più noto come Buffalo Bill, giunto a Parigi per partecipare con il suo Wild West Show all’Esposizione Universale. Risultato di questo scambio fu, fra le altre cose, un ritratto equestre, che testimonia la dimestichezza della Bonheur anche nella pratica di generi considerati più nobili e che il Colonnello portò con sé al ritorno negli Stati Uniti; l’opera è oggi conservata presso il Whitney Western Art Museum, parte del Buffalo Bill Center of the West di Cody.         

Fig. 5. Anna Klumpke, Ritratto di Rosa Bonheur, 1898, New York, Metropolitan Museum of Art

Scomparsa nel 1899, l’eredità materiale e culturale di Rosa Bonheur venne raccolta dall’artista americana Anna Klumpke (San Francisco, 1856 – 1942), che sin dal 1898 aveva vissuto con lei nel castello di By, e che ne scrisse la biografia, pubblicata nel 1908.   
Adombrata dalle vicende artistiche che, già negli ultimi decenni dell’Ottocento, stavano orientando la storia dell’arte verso la modernità e un tipo di gusto che sembrava anticipare il XX secolo, la figura di Rosa Bonheur ha attraversato recentemente un processo di riscoperta, culminato quest’anno con le celebrazioni per il bicentenario della sua nascita. Sono numerose le iniziative a lei tributate, da quelle presso la dimora di By, oggi musealizzata, alle retrospettive allestite presso il Musée d’Orsay e il Musée des Beaux-Arts di Bourdeaux, sua città natale. Questi eventi contribuiscono a far sì che la figura di Rosa Bonheur possa essere approfondita e trasmessa, non solo per quanto riguarda il suo rilevante ruolo di icona dell’emancipazione femminile, ma anche in un’ottica di arricchimento della conoscenza dell’arte del passato.

Chiara Franchi

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